12 Settembre 2021 - XXIV Domenica del Tempo Ordinario Anno B
- don luigi
- 11 set 2021
- Tempo di lettura: 6 min
Is 50,5-9; Sal 116/114-115; Gc 2,14-18; Mc 8,27-35
Pensare secondo Dio

La parola chiave del brano evangelico di domenica scorsa era: “Effatà” cioè “Apriti!” (Mc 7,34). Pronunciandola Gesù aprì l’orecchio e la bocca del sordomuto, all’ascolto e alla proclamazione della Parola di Dio. La stessa parola si presta anche all’interpretazione dei brani biblici di oggi: quello profetico di Isaia (cf. Is 50,5-9), e quello evangelico di Pietro (cf. Mc 8,29). Anche in questi due casi assistiamo all’apertura dell’orecchio di Isaia, con cui si pone in ascolto della parola di Dio; e dell’intelligenza di Pietro, che gli consente di cogliere l’identità messianica di Cristo. Il senso di questa parola, dunque, si rivela decisivo e fondamentale per imparare, come dice Gesù a Pietro, a “pensare secondo Dio” (Mc 8,33), che consiste essenzialmente nell’aderire al suo disegno di salvezza.
Ma come si fa a “pensare secondo Dio”? La domanda è strettamente legata a quella che Gesù pone a Pietro e ai discepoli di ogni tempo: “Chi dite che io sia?” (Mc 8,29). Per capire chi è Gesù occorre pensare come Dio e per pensare come Dio occorre capire Gesù. È la circolarità conoscitiva di cui parla Gesù nella versione matteana (cf. Mt 16,13-20), del nostro episodio e che l’evangelista Giovanni dischiude durante tutto l’arco del suo Vangelo. Scoprire l’identità di Gesù comporta non solo la sua sequela, ma l’acquisizione del suo modo di pensare e vivere. È qui lo scopo della conversione. Pensare e vivere secondo Dio sono, in ultima analisi, l’opera a cui ogni credente è chiamato, secondo le indicazioni di Giacomo (cf. Gc 2,14-18). La questione, dunque, non è solo quella, già tanto impegnativa e faticosa per l’uomo contemporaneo, di credere in Dio, quanto quella di abituarsi a pensare secondo la logica del suo amore. Chiunque intende porsi alla sequela di Cristo non può non aderire alla realizzazione del piano salvifico di Dio.
L’acquisizione del pensiero di Dio non è un evento istantaneo, ma prevede un percorso di conversione che impegna tutta la vita. Esso, stando al rimprovero di Gesù: “Va dietro di me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33), consiste nell’acquisire la logica messianica di Cristo, ispirata all’immagine del Servo sofferente di Isaia (cf. Is 50,5-9). È chiaro allora che non si tratta solo di capire, ma di aderire pienamente e fino in fondo alla logica del suo amore salvifico. Lo stesso Pietro, infatti, pur avendo intuito l’identità messianica di Gesù, dimostra di faticare non poco nell’acquisire la sua prospettiva messianica. Egli è ancora troppo condizionato dall’idea di un messia votato esclusivamente ad un riscatto sociale, tipico della tradizione religiosa ebraica.
Per comprendere allora il pensiero di Dio è opportuno fare luce sulla visione che Gesù aveva del messia. Per farlo ci rifacciamo, come lui, a Isaia. Il profeta apre il suo canto con un’affermazione che evidenzia l’opera di Dio in lui e l’adesione personale alla sua volontà: “Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza” (Is 50,5). “Aprire l’orecchio” significa ricevere dal Signore la capacità di penetrare a fondo il contenuto della sua chiamata, dinanzi al quale li profeta non si sottrae, al contrario, aderisce con tutta la forza della sua mente e della sua volontà. In altre parole, egli, pur scoprendo che Dio gli prospetta una vita tutt’altro che idilliaca, accoglie la sua volontà nella piena libertà, come condizione fondamentale per procedere nella missione che il Signore gli aveva affidato. Senza questa libera e personale adesione diventa praticamente impossibile procedere nel cammino di conversione. Essa non si riduce ad assolvere solo qualche precetto religioso o mettere in pratica qualche norma morale, come prevedevano i farisei, ma di sposare interiormente l’essenza della Legge di Dio. Isaia esprime tutta questa personale partecipazione con una serie di affermazioni che lasciano intendere la sua docile e definitiva conversione alla volontà di Dio e soprattutto alle responsabili conseguenze che essa comportava nella sua vita: “Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi” (Is 50,6). Si tratta di un quadro persecutorio che prefigura quello sperimentato da Gesù durante la sua passione. Come Isaia anche Gesù, mentre sale verso Gerusalemme, indurisce la faccia come pietra (cf. Lc 9,51). “Indurire la faccia” non è solo un’espressione del volto, quanto una metafora per dire che, malgrado le circostanze avverse, egli è più che mai deciso a portare a termine il piano di Dio nella sua vita; ad andare, cioè, fino in fondo alla sua volontà, costi quel che costi. In questa cornice la presenza di Dio gli si rivela come fortezza della sua fedeltà, garante della sua giustizia, nonostante i ripetuti tentativi di confusione (cf. Is 50,7), ai quali lo sottopone il nemico. Ed è proprio in Dio che il profeta trova non solo la lucidità della sua mente, ma perfino la forza di rilanciare la sua sfida al nemico: “Chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. Ecco, il Signore Dio mi assiste” (Is 50,8-9). Una svolta spirituale questa che solo chi confida pienamente in Dio può sperimentare in simili circostanze.
Questa consapevolezza spirituale e teologica, alla quale perviene il profeta, è ciò che più di tutto necessitiamo, oggi, in un contesto sociale, in rapido mutamento culturale, dove ogni verità sembra essere diventata relativa e “liquida”, soggetta cioè al fluido, incerto e volatile decomponimento e ricomponimento delle esperienze esistenziali personali e sociali.
La questione in gioco dunque non è la pratica religiosa che, malgrado tutto, molti custodiscono ancora tenacemente, quanto la conversione alla mentalità trinitaria che Cristo è venuto a rivelarci. Essa non si riduce ad una riflessione più o meno profonda sulla conoscenza di Dio, ma prevede un’autentica metanoia, nel senso etimologico più originario del termine: da meta = oltre e nous = mente. La metanoia consiste dunque nell’andare oltre il modo abituale di pensare Dio e la vita che da lui scaturisce. Per una simile acquisizione non basta solo lo studio ‘teologico’, ma una concreta prassi evangelica. Non ci si può limitare all’ascolto della sua parola, ma metterla in pratica secondo le indicazioni di Gesù (Mt 7,21-27). È a questo livello che la sua mentalità evangelica s’incarna nella nostra vita. Si tratta perciò di vivere con lui e come lui, nel quotidiano delle relazioni interpersonali, fino ad impregnarle del suo amore trinitario.
L’episodio di Pietro si rivela, dunque, emblematico per comprendere la particolare crisi religiosa in cui verte il cristiano europeo contemporaneo, del quale ciascuno di noi ne ha incarnato e incarna in qualche modo le scelte di vita. Anche noi nei secoli scorsi, condizionati da una prassi religiosa fin troppo culturale, abbiamo qua e là e a più riprese, interpretato Cristo in chiave politica, dando vita ad un’ideale di cristianità che ha finito col generare una cultura del tutto avversa alla fede cristiana. Anche noi facciamo fatica a liberarci di quella visione di Chiesa imperiale, da essa scaturita, e ad acquisire quella umile, semplice e povera ispirata al Vangelo. E, ora, anche noi, come Pietro, dinanzi all’annuncio della passione, ovvero delle reali e drammatiche conseguenze che la fede in lui ci prospetta, reagiamo pensando di correggere addirittura la logica del Vangelo. Cosa fare? Come uscire da questa situazione? Ancor più che in altri contesti storici occorre, umilmente, avere il coraggio riprendere in mano il cammino della conversione, il che significa adeguare la nostra mentalità culturale a quella di Cristo, e più chiaramente alla logica della croce (cf. Mc 8,34-36). Non si tratta di una logica auto glorificativa, com’è tipica degli uomini, ma di una logica kenotica, di abbassamento, di svuotamento e rinnegamento di sé, in vista della manifestazione del Padre e quindi della sua glorificazione. Si tratta di passare dall’affermazione dell’io, alla rivelazione di Dio. Un’operazione questa che comporta un radicale cambio di pensiero: da un io tutto incentrato e ripiegato su se stesso, ad un io rivolto al Padre; da un io monadico e autosufficiente, ad un io aperto alla relazione col Padre. Un io trinitario, insomma. Ecco il cambio di mentalità al quale siamo chiamati nell’oggi della nostra fede e della nostra cultura. La domanda cruciale è allora la seguente: siamo disposti a sposare questa logica di pensiero? Il futuro della nostra fede dipende anche dalla nostra risposta.




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