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12 Novembre 2023 - Anno A - XXXII Domenica del Tempo Ordinario


Sap 6,12-16; Sal 62/63; Ts 4,13-18; Mt 25,1-13


Per uno sguardo escatologico della vita




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“Il regno di Dio è simile a dieci vergini che, prese le loro lampade, uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge …Poiché lo sposo tardava si assopirono tutte e dormirono. A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro. Allora tutte si destarono … ma solo quelle che erano pronte entrarono con lui alle nozze e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre e incominciarono a dire: Signore, signore, aprici. Ma egli rispose: In verità vi dico: non vi conosco” (Mt 25,1-12).

Una parabola dal chiaro sapore escatologico, come il tema nel quale la Chiesa ci introduce in questo scorcio d’anno liturgico. In realtà già domenica scorsa abbiamo accennato a questo argomento. Oggi, la Liturgia ci offre altri brani biblici che ci consentono di commentarlo più estesamente. A qualcuno l’escatologia potrebbe apparire un termine nuovo e impegnativo, ed in parte lo è, perché non è di quelli che usiamo abitualmente nel linguaggio comune. Ma ciò non ci esonera dall’acquisirne il significato, poiché esso è di fondamentale importanza, specie per quei cristiani che hanno smarrito il senso globale della storia della salvezza e rischiano di ridurre la loro esistenza solo al presente. Escatologia deriva dal greco éskhatos che significa “ultimo”. Con questo termine si è soliti indicare quella visione del mondo, volta a indagare il destino ultimo non solo del singolo individuo e dell’intero genere umano, ma perfino di tutto cosmo. Si tratta perciò di acquisire una visione teologica dell’esistenza che presuppone uno sguardo unitario o universale della storia, illuminato dalla sapienza salvifica di Dio, alla cui luce possiamo rileggere tutte le vicende della vita, tanto personale dei singoli quanto comunitaria dell’umanità. Stando alla testimonianza biblica, gli eventi della storia, non accadono in modo insensato e casuale, ma secondo un ‘piano’ che, senza nulla togliere alla libertà dell’uomo, presuppone una misteriosa regia di Dio. Secondo questa visione, la storia personale di ciascuno, come quella comunitaria della Chiesa e sociale del mondo, è come ordinata verso un “fine” che costituisce non solo il compimento della creazione, ma anche la sua pienezza esistenziale (cf. 1Cor 15,28)[1]. Si tratta allora di vedere ogni cosa in Dio e Dio in ogni cosa, ecco il principio, il senso e il fine di questa visione teologica della storia. Questo è ciò che intendiamo esprimere col termine escatologia. Per compiere una simile operazione, però, è necessario acquisire uno sguardo sapienziale che ci abitui a cogliere nelle cose e nella storia quel significato che Dio ha da sempre pensato per esse, come ci suggerisce la prima lettura[2].

Gesù spiega tutto questo discorso, alquanto difficile che mi sto sforzando di esporvi, con un linguaggio molto più semplice, ma non per questo meno impegnativo. La parabola, infatti, è sì un racconto semplice della vita ordinaria, ma contiene delle metafore[3] che necessitano di essere ben comprese, se si intende evitare il rischio di limitarsi alla sola illustrazione narrativa[4]. In questo caso alcune sue parabole sono tese a favorire, nei suoi uditori, lo sviluppo della prospettiva escatologica della vita, ovvero a vivere la fede come attesa dell’incontro personale e definitivo con lui nella parusia[5]. Tra queste parabole la liturgia di oggi ci propone quella delle Dieci vergini, secondo la quale ci sono due modi di vivere l’attesa di Cristo: uno intelligente e l’altro negligente, o come dice Gesù: uno “saggio” e l’altro “stolto”. Ogni elemento della parabola va dunque sviscerato per comprendere il suo vero significato. Così Gesù per parlare della fedee dell’attesa che la deve caratterizzare, ricorre all’immagine della “vergine”. Vediamo perché. La verginità non è una scelta naturale, ma una condizione di vita che necessita di una motivazione religiosa e spirituale. Chi la compie vuol dire che intende vivere più intensamente la sua relazione con Dio. Sotto l’aspetto fisico la verginità non consente di procreare, a livello spirituale invece essa può divenire motivo di fecondità, se vissuta in modo libero, deciso e consapevole. Quando invece viene esercitata in modo forzato, allora rischia di esporre ad un’esistenza frustrante e logorante. La sua funzione è quella di predisporre la persona ad avere un cuore indiviso, puro, capace di accogliere l’amato come il Tutto della propria vita. Allo stesso modo va considerata la fede. Anche la fede, come la verginità, costituisce un atteggiamento d’attesa che ha senso solo se animata dalla speranza dell’incontro con Cristo. Diversamente rischia di divenire una condizione snervante e gravosa. Specie quando l’attesa viene molto prolungata nel tempo. Per Gesù, tanto la verginità quanto la fede, possono essere vissute in un duplice modo, che lui definisce: “saggio” e “stolto”. La saggezza di cui lui parla indica quella capacità di fondare ed organizzare la propria vita sulla conoscenza della Parola di Dio. Diversamente la stoltezza qualifica l’atteggiamento di chi, al contrario del saggio, decide di fondare la propria vita sulla base del sapere umano. Entrambi fondano la propria vita sulla conoscenza, ma non per tutti la conoscenza si rivela decisiva e fondante, anzi per alcuni diventa addirittura motivo di disastro personale e familiare. Per comprendere ulteriormente questa distinzione e delle sue inevitabili conseguenze è opportuno riferirsi ad un’altra parabola, precisamente a quella in cui Gesù parla del saggio che costruisce la casa sulla roccia e dello stolto che invece la costruisce sulla sabbia (cf. Mt 7,24-27). È interessante notare che tutte e due costruttori sono discepoli di Cristo ed ambedue ascoltano la Parola di Dio, ma mentre lo stolto si ferma alla sola comprensione intellettiva, il saggio s’impegna anche a metterla in pratica. Così facendo egli radica la sua esistenza sulla Parola. Ecco la roccia che dà stabilità alla vita. Saggezza e stoltezza hanno a che fare dunque con la conoscenza di Dio ed indicano perciò quell’atteggiamento più o meno intelligente con cui ciascuno la traduce in un’esistenza concreta di vita. Tutto ciò per dire che non basta solo limitarsi a professare verbalmente la fede, ma occorre viverla e praticarla con intelligenza, se s’intende evitare il disastro esistenziale. Diversamente si corre il rischio di viverla invano.


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Stando ad alcuni studiosi la parabola descrive le usanze matrimoniali dei palestinesi, secondo le quali il fidanzato, nell’ultimo giorno di festeggiamenti, era solito recarsi nella casa della fidanzata che attendeva il suo arrivo insieme alle amiche. Al sopraggiungere dello sposo si formava un unico corteo, costituito dagli amici dello sposo e della sposa, che partendo dalla casa di lei, giungeva fino alla casa dello sposo, dove veniva celebrato il matrimonio e consumato il banchetto nuziale. Accanto però a questi aspetti realistici, la parabola presenta anche alcuni elementi allegorici che hanno la funzione di portare l’attenzione dell’ascoltatore sul senso escatologico dell’incontro personale con Cristo. Per questa ragione essa presenta tratti inverosimili, come per esempio il matrimonio celebrato di notte; il sopraggiungere del sonno proprio nel momento più fervido dell’attesa dello sposo; la durezza di quest’ultimo nei confronti delle amiche della sposa, proprio nel giorno del suo matrimonio; l’invito a comprare l’olio nel cuore della notte; l’atteggiamento piuttosto scortese di alcune vergini verso le loro amiche. È chiaro allora che la parabola è strutturata su un duplice livello di lettura, quello realistico e quello escatologico. La notte sottolinea la nostra incapacità di tenere sotto controllo tutte le cose, in modo particolare Dio, sempre imprevedibile nel suo modo di pensare, parlare e agire e quindi la necessità da parte nostra della vigilanza, come atteggiamento fondamentale per farsi trovare pronti al suo arrivo. Il sonno, ovvero la caduta di tensione che scaturisce dalla prolungata attesa, può cogliere chiunque, indipendentemente dal modo con cui viene vissuta la fede. Tutte e dieci vergini infatti si assopirono, anche se al momento della sveglia, solo alcune di esse si rivelano idonee a condividere la comunione con lo sposo. Ciò dipende da alcuni fattori, simboleggiati dagli elementi di cui si muniscono le vergini: la lampada, indica quel deposito sapienziale che si forma dentro di noi, nel quale lasciamo sedimentare la nostra conoscenza di Dio, attraverso lo studio della Parola e la pratica del comandamento nuovo dell’amore; l’olio, designa invece la speranza che anima e dà fervore alla fede, grazie alla quale ci si assicura la possibilità di attraversare l’intero arco della notte e di giungere fino all’incontro con lo sposo; la fiamma è la luce dello Spirito che consente alla nostra intelligenza di scorgere e riconoscere la sagoma dello sposo, malgrado il buio della notte. Per tutte l’incontro avviene nella notte, che simbolicamente allude a quelle circostanze critiche che possiamo sperimentare durante tutto l’arco della nostra vita, nelle quali ci riesce particolarmente difficile riconoscere il volto di Dio, a causa della dura prova, alla quale viene sottoposta la fede. Essa allude inoltre anche a quel momento limite della morte, dalla quale “nessuno può scappare” (come diceva san Francesco) o tornare indietro. Si tratta di una circostanza ineluttabile che non ammette indugi e pur volendo, non offre più ulteriore tempo per procurarsi l’olio sufficiente ad illuminare il nostro incontro con Cristo. La possibilità di scoprirsi dentro o fuori la stanza nuziale dipenderà dalle nostre piccole e grandi scelte di fede che avremo fatto nella vita.

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Viene da chiedersi se la fede possa rivelarsi così determinante per la sorte futura di ciascuno di noi. La parabola sembra non offrire alternative: l’incontro con Cristo, ovvero con la coscienza più intima e profonda della nostra identità religiosa, sarà inevitabile per tutti, dinanzi al quale ciascuno prenderà atto della propria responsabilità e sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza, soprattutto a dare ragione (cf. 1Pt 3, 15-16), questa volta dinanzi a lui, della modalità con cui avremo vissuto la fede. Ecco lo spartiacque o la “pietra d’inciampo” (cf. Mt 21, 42) a cui allude il drammatico dialogo tra le vergini che, implorando, bussano invano alla porta chiusa e Gesù che dall’interno risponde: “In verità io vi dico: non vi conosco” (Mt 25, 12). Parole durissime che sconcertano il nostro quietismo spirituale e perbenismo religioso e che lasciano intendere un possibile e inquietante orizzonte esistenziale dopo la morte. Forse come non mai, in questa circostanza, coglieremo il senso della profezia che il vecchio Simeone fece ai genitori di Gesù al momento della sua Presentazione al tempio: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2, 34-35). La parabola, tuttavia, malgrado il drammatico epilogo a cui danno adito le parole di Gesù, si conclude con un finale serio che interpella profondamente la nostra coscienza, lasciando aperta ogni possibilità: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25, 13). In questo senso essa costituisce un accorato invito al senso di responsabilità che la fede comporta per ciascuno di noi, non solo a livello personale, ma soprattutto ecclesiale e sociale. Da qui, l’impegno ad essere segni credibili per quanti nel mondo nutrono la speranza in un futuro relazionale all’insegna della fratellanza dei popoli. Da qui, la profezia di una rinnovata aurora spirituale, della quale siamo responsabili sentinelle, chiamate a vigilare nella notte del mondo, per sussurrare a chiunque lo desideri i criteri con cui riconoscere i segni del Cristo che viene.




[1] In questo senso quel Dio che la nostra fede ci fa professare al principio di ogni cosa creata costituisce anche il senso e il fine della loro esistenza. L’escatologia dunque intende educarci a sviluppare una riflessione non solo sulla fine, ma anche sul fineultimo della nostra vita terrena. In altre parole essa intende aiutarci a vedere la storia dall’Alto e dall’Altro, ovvero da Dio; o come amava ripetere V. Solov’ëv: vedere dal fine la storia.

[2] Non è certo facile acquisire una simile visione sapienziale della vita. Per essa non basta lo studio teologico, come attestano le conoscenze erudite di tanti sia pure geniali teologi, ma occorre una familiare relazione con Dio e un costante confronto con la sua Parola, che la liturgia ci propone quotidianamente. Per questa ragione invito ciascuno a non limitarsi ad una semplice lettura dei brani biblici, ma a custodirli e sviscerarli mediante l’esercizio quotidiano della meditazione, come suggerisce l’autore del libro della Sapienza: “Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta. Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia per lei sarà presto senza affanni” (Sap 6, 14-15). Pregare Dio con la sua Parola. Ecco allora la forma di preghiera che siamo chiamati ad acquisire. Naturalmente questa pratica necessita di una sinergia tra il nostro spirito e quello di Dio che, come afferma san Paolo, scruta ogni cosa, perfino le profondità di Dio (cf. 1Cor 2,10). Solo lui infatti è in grado di dischiuderla alla nostra intelligenza e di renderla comprensibile alla nostra ragione. Si tratta, infatti, ribadisce ancora San Paolo, di una sapienza misteriosa, nascosta e nessuno dei dominatori del mondo ha mai conosciuto e che occhio non vide, né orecchio udì, né mai è entrata nel cuore dell’uomo, ma che Dio ha rivelato nella paradossale, assurda e incredibile vicenda storica della passione, morte e risurrezione di Cristo (cf. 1Cor 2,6ss). In questo senso solo chi dispone di quello sguardo evangelico potrà scorgerla anche nelle vicende drammatiche della propria vita, che spesso mettono in seria discussione tutte le nostre certezze, fondate esclusivamente su una visione politica, economica, scientifica e razionale della vita. Ancora più che in altre epoche storiche veniamo invitati e rivisitare la nostra visione del mondo e a riconsiderarla alla luce della Parola di Dio che, proprio in simili circostanze, si rivela capace di risignificare e riorentare la vita. Una simile sapienza divina non si riduce ad un sapere colto ed esauriente delle varie discipline umanistiche e scientifiche, ma qualifica quella capacità di creare un rapporto intimo e vitale con l’amore salvifico di Dio e di declinarlo in tutti gli ambiti della vita sociale e del sapere umano, non escluso quello scientifico, politico, economico, sociologico, artistico, sportivo ... Pertanto lungi dal considerare la fede come un rifugio delle persone pavide, essa è al contrario la condizione per acquisire lo sguardo di Dio che consente di guardare con coraggio dentro la realtà più incresciosa. È in questo sguardo sapienziale che si fonda la nostra speranza nella risurrezione e quindi di un futuro relazionale vissuto all’insegna della comunione d’amore con Dio (cf. 1Ts 4, 13-14.17).

[3] La metafora è un’immagine figurata usata per alludere a un significato più profondo rispetto a quello dell’immagine stessa. Es.: Carlo è veloce come un treno, ciò non vuol dire che Carlo corre con la stessa velocità di un treno, ma che dispone di una velocità straordinaria rispetto a quella di tutti gli altri. Quando un’immagine è espressa dalla preposizione “come” allora significa che ci troviamo dinanzi a una metafora.

[4] Egli ci chiede di andare oltre la parabola, per cogliere quel significato che intendeva esprimere col suo insegnamento. Questa operazione impegna tutta la nostra intelligenza spirituale, poiché tale significato è spesso nascosto e necessita di essere scoperto, come la perla preziosa o il tesoro nel campo di cui parla lui parla in altre circostanze.

[5] Anche il termine parusia deriva dal greco parousia che significa “presenza”, contrapposto a apousia che invece significa “assenza”. Alcuni autori greci lo usano anche col significato di “arrivo”. San Paolo lo usa per indicare la venuta di Cristo alla fine dei tempi.

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