12 Maggio 2024 - Anno B - Ascensione di Gesù al Cielo
- don luigi
- 10 mag 2024
- Tempo di lettura: 8 min
At 1, 1-11; Sal 46/47; Ef 4,1-13; Mc 16,15-20
Ascendere alle cose di lassù

“Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui …fu assunto in cielo. Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio … Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra di voi assunto in cielo, tornerà allo stesso modo con cui l’avete visto andare in cielo” (At 1,1-3.9-11).
Nella settima domenica di Pasqua la Chiesa ci fa celebrare la solennità dell’Ascensione di Gesù al Cielo[1]. La sua narrazione evangelica ci lascia intuire un significato teologico di non poca importanza, che noi ci sforzeremo non solo di capire, ma anche di scoprire cosa comporta a livello spirituale, per la qualità del nostro vissuto ecclesiale. L’Ascensione, infatti, non è un episodio marginale della vita di Gesù, bensì un evento col quale egli porta a termine il ciclo della sua missione salvifica nel mondo. Ascendendo al cielo, Cristo ritorna alla condizione della sua vita originaria presso il Padre (cf. Gv 16,28), dal quale “tornerà” (At 1,11) nella parusia[2], ovvero nel tempo in cui l’umanità prenderà coscienza del suo ruolo salvifico e la sua presenza diverrà pienamente manifesta ai popoli. Riletta in questa prospettiva teologica l’Ascensione indica allora la meta verso la quale è orientata tutta la nostra esistenza, ragion per cui San Paolo ci invita ad “aspirare alle cose di lassù” (Col 3,1-2), ossia a quelle cose che ci svelano il senso pieno della nostra fede in Cristo.
Tra gli evangelisti Luca è quello che parla più estesamente dell’Ascensione. Egli la menzione sia al termine del suo Vangelo (cf. Lc 24,50-52), che agli inizi del libro degli Atti degli Apostoli (cf. At 1,6-11). Marco ne fa un brevissimo accenno, limitandosi a citarla in termini di “elevazione” (cf. Mc 16,19). Matteo non ne parla affatto; mentre Giovanni la lascia intendere al momento dell’apparizione di Gesù alla Maddalena, alla quale dice: “Non mi trattenere, poiché non sono ancora salito al Padre” (Gv 20,17)[3]. Anche Gesù, pur senza citarla esplicitamente, si riferisce ad essa nel Discorso di Addio, riferitoci da Giovanni e in particolare nei capitoli 14,33.36; 14,1-6.19-20.27-29; 16,5-7.16-23.28; 17,13.24 del suo Vangelo. Luca, dunque, è l’unico evangelista che si sofferma su di essa, lasciandoci intuire il significato teologico, attraverso il simbolismo del numero 40, col quale si aggancia direttamente alla tradizione biblica. Per lui, infatti, l’Ascensione è l’episodio col quale Gesù conclude il ciclo delle sue apparizioni pasquali, durato quaranta giorni[4] (cf. At 1,3). La rilettura simbolica di questo ciclo sta ad indicare che Luca considera concluso il tempo nel quale Gesù porta a termine il percorso formativo della fede degli apostoli. Un percorso caratterizzato da un rapporto personale, come attestano le diverse apparizioni alla Maddalena (cf. Gv 20,11-18), ai discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13-35), agli apostoli (cf. Gv 20,19-23; 21,1-23), a Pietro (cf. Lc 24,34) e a Tommaso (cf. Gv 20,24-29), nelle quali non esita a sottolineare anche la concretezza fisica di queste apparizioni. Egli parla di Cristo, infatti, come di chi agisce, parla e mangia con loro alla maniera di un uomo concreto (cf. Lc 24,30.41)[5].
Il significato teologico dell’Ascensione, tuttavia, non si esaurisce solo in questo simbolismo numerico. San Paolo nel brano della lettera agli Efesini si domanda: “Cosa significa ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terrà? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose” (Ef 4,9-10). “Discendere” e “ascendere” fanno parte, quindi, di un linguaggio metaforico che ha la funzione di introdurci nel mistero della nostra salvezza. Pertanto tali termini sottolineano il dinamismo spirituale con cui gli autori biblici tracciano il cammino salvifico dell’uomo. Ascendere significa che il discepolo è chiamato ad elevarsi a uno stato spirituale sempre più autentico e profondo, tale da giungere a condividere con Dio l’unità della sua vita d’amore; discendere, invece, sottolinea la condizione che rende possibile una simile elevazione spirituale, secondo la logica kenotica espressa da san Paolo nel brano della lettera ai Filippesi 2,5-11, che consiste nello svuotare o meglio, rinnegare, il nostro io di tutti quei sentimenti di presunzione, superbia, orgoglio, arroganza, indipendenza a favore di quei sentimenti di umiltà, modestia, semplicità, mansuetudine, obbedienza propri dell’io di Cristo. Non si tratta di rinunciare al desiderio di essere Dio, ma a quella pretesa diabolica, profondamente radicata dentro di noi, di considerarci dio facendo a meno di lui. Cristo non ci chiede di reprimere questo desiderio, ma ci rivela il modo con cui siamo chiamati a viverlo per mezzo di lui nello Spirito. Il nostro io non ha una struttura individualistica ed egocentrica, come tanti ritengono, ma è costituita da una dimensione relazionale fatta “ad immagine e somiglianza” dell’amore trinitario di Dio. L’io dell’uomo è un io relazionale e filiale. Per questa ragione Gesù non considera il corpo alla maniera della cultura greca, per la quale era considerato una prigione di cui liberarsi, ma il presupposto per partecipare della stessa vita divina. Si capisce allora la ragione per cui egli accetta la piccolezza, la fragilità e la limitatezza della natura umana, come condizione della sua incarnazione (cf. Fil 2,5-11). Allo stesso modo anche noi siamo chiamati ad accettare le stesse limitazioni come condizione della nostra divinizzazione.

I Padri della Chiesa insistono ripetutamente sul fatto che Dio si è fatto uomo perché l’uomo si facesse Dio. San Leone Magno afferma che siamo chiamati ad elevarci come Cristo, per partecipare della sua stessa gloria. L’ascensione dice dunque la tensione o meglio l’elevazione della nostra umanità alla pienezza della vita divina; la nostra chiamata a divenire creature nuove, e più specificamente, ad essere figli di Dio nel Figlio (cf. Gal 4,6-7; Rm 8,14-17), come afferma san Paolo. “Noi fin d’ora siamo figli di Dio, sebbene ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”, replica Giovanni nella sua prima lettera (cf. 1Gv 3,2-3). La salvezza consiste, dunque, nella partecipazione della vita divina, per mezzo della relazione filiale di Cristo. Non si tratta di rinunciare alla vita fisica, al contrario, di impregnarla dello Spirito di Cristo, rinnovandola dall’interno, esattamente come ha fatto Cristo a partire dalla sua incarnazione.
Nel tentativo di descrivere questo processo di divinizzazione, Luca dice che Cristo “fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi” (At 1, 9). Anche in questo caso l’evangelista fa uso di un linguaggio simbolico. La nube costituisce, infatti, il modo con cui egli intende evidenziare l’azione misteriosa di Dio. Essa è sempre presente nelle manifestazioni divine, specie nei momenti decisivi della storia della salvezza. Basti ricordare la nube che accompagna il cammino di Israele nel deserto (cf. Es 13,21), oppure alla nube che ricopre Maria all’annuncio dell’angelo (cf. Lc 1,35), o ancora alla nube che avvolge Gesù nella Trasfigurazione (cf. Lc 9,34.35). La nube sottolinea allora la dimensione del mistero, al tempo stesso è un elemento vitale, simbolo di fecondità fisica e spirituale. Perciò la sua presenza sottolinea l’azione dello Spirito, sempre all’opera nella storia, che accompagna, guida e protegge il suo popolo; senza il quale nessun cammino di divinizzazione sarebbe possibile.
Come le nubi anche il “cielo” assume una valenza simbolica. Più che un luogo indica l’altezza, e più chiaramente la pienezza della vita umana; la meta verso la quale l’uomo è chiamato a tendere. Esso sottolinea la condizione trascendente della natura umana. Il cielo va perciò inteso come metafora della dimora divina, la cui immensità sottolinea l’eternità di Dio. Pertanto l’ascensione che l’uomo compie a livello spirituale non è lo sforzo eroico del super uomo, ma il cammino che l’uomo compie per mezzo dello Spirito, il quale trasforma la sua natura in virtù dell’amore. Il che significa che la nostra vita, il nostro corpo e perfino la nostra carne, pur conformandosi alla natura divina, si rinnovano senza perdere la propria umanità. La divinità verso la quale tendiamo altro non è che la pienezza della nostra umanità.
Questo processo di cambiamento avviene col e nel battesimo. Non a caso Cristo chiede ai suoi: “Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, che non crederà sarà condannato” (Mc 16,15-16). Non si tratta di fare proseliti, ma di annunciare l’esperienza d’amore condivisa da Gesù. Chiunque crederà e aderirà a questa nuova vita, deciderà di battezzarsi, ovvero di morire a se stesso e alla logica della mentalità egocentrica per vivere all’insegna della filialità di Cristo.
Se c’è dunque una ragione che giustifica la celebrazione dell’Ascensione questa è da individuare nelle parole che Gesù rivolge ai suoi durante il Discorso di Addio: “Io vado a prepararvi un posto … perché siate anche voi dove sono io” (Gv 14,2-3). Tutta la nostra vita, come anche quella del creato, tende alla partecipazione della comunione col Padre, attraverso la manifestazione della gloria dei figli di Dio (cf. Rm 8,18-27). Ascendere, perciò, significa assumere uno stile di vita evangelico, col quale rendiamo testimonianza di una vita che non si riduce alle cose di quaggiù, ma tende alle “cose di lassù. Dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio” (cf. Col 3,1-2). È lui che risignifica e riorienta la nostra vita, manifestandoci (cf. Gv 15,15), la sua origine trinitaria (cf. Col 3,1-4). Per Gesù è tutto qui il principio, il senso e il fine della nostra esistenza.
[1] A livello liturgico l’Ascensione comincia ad essere celebrata solo a partire dalla seconda metà del IV secolo. Fino ad allora, infatti, l’attenzione era prevalentemente rivolta alla Risurrezione e alla Pentecoste. Nel V sec. la sua celebrazione viene estesa alla Chiesa universale.
[2] Parusia è un termine greco parousia che letteralmente significa “presenza”, relativa a quella del divino nel mondo terreno. Gli scrittori neotestamentari, tra i quali san Paolo, la intendono non solo nel suo significato di “presenza”, ma anche di “venuta” del regno di Dio sulla terra inaugurato da Gesù, con esplicito riferimento alla “seconda venuta”, con la quale il regno sarà pienamente manifestato al mondo.
[3] Per Giovanni, sembra che la stessa Pentecoste avvenga nel giorno della Risurrezione, come traspare dalle parole pronunciate agli apostoli, sui quali alita lo Spirito Santo (cf. Gv 20,22).
[4] Il numero quaranta infatti ricorre spesse volte nella Bibbia, non tanto per indicare esattamente un periodo cronologico, quanto un ciclo di prove, di purificazione o di formazione. Quaranta sono i giorni del diluvio (Gen 7,4.12.17); quaranta sono gli anni che il popolo vive nel deserto, prima di giungere alla terra promessa (Nm 13,25; 14,33-34); quaranta i giorni in cui Golia lancia la sfida agli Israeliti (cf. 1 Sam 17,16); quaranta i giorni in cui Mosè è rimasto sul monte Sinai, durante la rivelazione delle tavole della Legge (cf. Es 24,18); quaranta i giorni in cui il profeta Elia è rimasto nel deserto prima di giungere al monte Oreb (cf. 1Re 19,8); quaranta i giorni in cui, dopo la nascita, Gesù viene presentato al Tempio (cf. Lc 2,22); quaranta ancora i giorni di Gesù nel deserto prima di dare inizio alla sua attività pubblica (cf. Lc 4,1-2). Tale simbolismo è alla base anche del periodo liturgico della Quaresima.
[5] Questa insistenza lucana sulle apparizioni “carnali” di Gesù, al pari di quelle giovannee (cf. Gv 21,5.9-10.13), viene giustificata dal fatto che alcuni discepoli, condizionati dalla mentalità greca che disprezzava il corpo a favore di una visione spirituale, cercavano di ridurre l’apparizione di Gesù ad un “fantasma” (cf. Lc 24,39).




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