12 Giugno 2022 - Anno C - Santissima Trinità
- don luigi
- 11 giu 2022
- Tempo di lettura: 13 min
Aggiornamento: 13 giu 2022
Prov 8,22-31; Sal 8; Rm 5,1-5; Gv 16,12-15
Nel dinamismo della vita trinitaria

“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito di verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future …” (Gv 16,12-15). La Chiesa ci propone questo brano giovanneo nel giorno in cui celebriamo la festa liturgica della Santissima Trinità. Si tratta, com’è evidente, di un brano in cui non si fa minimamente accenno a questo mistero e per questa ragione non è possibile escludere eventuali obiezioni da parte dei più scettici. In realtà non esiste in tutta la Bibbia un solo versetto in cui si parli esplicitamente di questa verità di fede, tanto meno Gesù ne parla espressamente in qualche passo. Da dove allora questa dottrina? E in che termini è possibile considerare questo brano giovanneo introduttivo al mistero trinitario?
Per sgomberare la mente da ogni possibile equivoco è opportuno dire che quella trinitaria è una verità di fede alla quale la Chiesa accede gradualmente, nella misura in cui si sviluppa al suo interno la ricerca teologica, e lo fa non in virtù di una mente brillante ed eccelsa che la induce a sviluppare una speculazione razionale autonoma, tale da affermare verità diverse dalla dottrina di Cristo, ma grazie ad una ricerca, criticamente condotta dallo Spirito, che scaturisce dal vissuto relazionale ed ecclesiale e dall’esperienza pratica dell’amore evangelico. Pertanto è ripercorrendo la vita di Gesù e rivisitando le sue relazioni, specie quelle intessute con Dio, che possiamo intuire l’esistenza di questa verità. Si tratta perciò di sviluppare una metodologia esplicativa che rifletta quella evangelica di Gesù, con la quale, egli, senza mai parlare esplicitamente della Trinità, l’ha rivelata attraverso la sua stessa testimonianza di vita. In questo senso solo chi intesse con Cristo una relazione d’amore ha la possibilità di intuire questa verità, non come una formula astratta di fede, ma come una realtà che costituisce il nucleo vitale della sua identità divina. La vita trinitaria è allora il principio che spiega la tipologia delle sue relazioni umane e divine e dà origine, senso e compimento alla sua missione salvifica nel mondo.
Lungi dal pretendere di esaurire una simile verità nel breve spazio di un commento omiletico, vorremmo invece offrire i presupposti che ci consentono per lo meno di accostarci ad essa in punta di piedi, esattamente come Dio chiede di fare a Mosè quando si rivelò a lui nel roveto ardete. “Togliti i sandali dai piedi, poiché il luogo sul quale stai è una terra santa” (Es 3,5). Occorre allora spogliarsi di tutte le presunzioni intellettive e razionali, per accostarsi a questo mistero così grande, poiché “Dio nasconde queste cose sapienti e ai dotti, ma le rivela ai semplici” (Mt 11,25)[1].
Ma a cosa si riferisce Gesù quando, rivolgendosi ai suoi apostoli, dice: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso”? Di quale verità parla, da risultare così profonda, misteriosa e incomprensibile all’intelligenza dei discepoli? Cosa gli impediva di parlarne più chiaramente? Non sarebbe stato più opportuno farne almeno un minimo accenno? Non è facile rispondere a queste domande e il rischio di un’interpretazione personale è molto alto, tuttavia se la Chiesa ci propone un simile brano, allora significa che ci autorizza a pensare che tra le cose di cui i discepoli non potevano ancora comprendere il senso ci sia anche la relazione intima che Gesù intesseva col Padre, una relazione così unica e speciale che necessitava del particolare intervento dello Spirito per essere compresa[2].
Intanto è interessante notare come Gesù, a differenza di tutti i fondatori religiosi, non si preoccupi di essere esaustivo nel definire i contorni della sua dottrina, ma delega allo Spirito il mandato di far comprendere il senso del suo insegnamento e portare a termine lo sviluppo pieno di questa operazione, come a voler testimoniare che la sua non è una missione che nasce e si esaurisce con lui, ma che ha origine in Dio, si incarna con l’ausilio dello Spirito e si completa con la testimonianza dei discepoli, ai quali affida la responsabilità di portare a compimento il suo disegno, fino alla fine dei tempi. Ne scaturisce una testimonianza di vita relazionale che ci dà modo di capire l’origine della vita di Cristo e della sua missione trinitaria nel mondo. Egli, pur essendo l’artefice della salvezza è perfettamente consapevole di non essersi incarnato per una sua iniziativa personale, ma per realizzare il piano salvifico del Padre, e di farlo non in forza delle sue qualità, ma per mezzo dello Spirito. Allo stesso modo lo Spirito, pur essendo colui che è in grado di scrutare le profondità del pensiero di Dio, “non parlerà da se stesso”, nel senso che non insegnerà una verità diversa da quella insegnata da Cristo, ma “dirà tutto ciò che avrà udito (da lui) e annuncerà le cose future”. In altre parole, come Cristo consegna allo Spirito il compimento e la realizzazione della propria missione nel mondo, così lo Spirito consegna all’intelligenza dei discepoli e della Chiesa la comprensione della verità di Cristo. Una consegna quella vissuta da Cristo e dallo Spirito che rivelano un atto di estrema fiducia nell’altro. È in questa reciproca consegna di sé all’altro che possiamo cogliere il dinamismo trinitario della vita divina rivelata da Cristo. Si assiste così ad una sorta di reciproco nascondimento-rivelativo tra le persone della Trinità, che è all’origine anche della vita relazionale nella Chiesa: il Padre si nasconde dietro la missione salvifica del Figlio; il Figlio si nasconde dietro l’azione redentiva dello Spirito; lo Spirito si nasconde dietro la missione santificativa della Chiesa nel mondo. Ciascuno si nasconde lasciandosi rivelare dall’altro. Non è forse questa la logica trinitaria che dovrebbe caratterizzare anche le nostre relazioni ecclesiali?
È significativo pertanto che veniamo introdotti in questo mistero dopo aver contemplato i tre grandi eventi della vita di Cristo: la Pasqua, l’Ascensione e la Pentecoste. Tre eventi che dischiudono gradualmente e progressivamente il mistero della sua identità divina. La Pasqua ci dice la via, l’Ascensione ci indica la vita, la Pentecoste ci lascia intravedere la verità della realtà relazionale di Cristo. La via è quella della croce: Cristo morendo rivela l’azione potente del Padre; la vita è quella gloriosa che Cristo recupera con il suo ritorno al Padre, la verità è quella della relazione d’amore reciproca che intercorre tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Tutto è caratterizzato da un dinamismo di morte e vita, di nascondimento e rivelazione, di consegna e ritrovamento. Nessuno dei tre si afferma da sé, ma ciascuno è manifestato dall’altro e nell’altro. Una vita quella divina di Cristo che inaugura una nuova forma relazionale tra le persone nel mondo. È chiaro allora che la Trinità non si riduce ad un concetto astratto, ma è una verità viva, costit“Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito di verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future …” (Gv 16,12-15). La Chiesa ci propone questo brano giovanneo nel giorno in cui celebriamo la festa liturgica della Santissima Trinità. Si tratta, com’è evidente, di un brano in cui non si fa minimamente accenno a questo mistero e per questa ragione non è possibile escludere eventuali obiezioni da parte dei più scettici. In realtà non esiste in tutta la Bibbia un solo versetto in cui si parli esplicitamente di questa verità di fede, tanto meno Gesù ne parla espressamente in qualche passo. Da dove allora questa dottrina? E in che termini è possibile considerare questo brano giovanneo introduttivo al mistero trinitario?
Per sgomberare la mente da ogni possibile equivoco è opportuno dire che quella trinitaria è una verità di fede alla quale la Chiesa accede gradualmente, nella misura in cui si sviluppa al suo interno la ricerca teologica, e lo fa non in virtù di una mente brillante ed eccelsa che la induce a sviluppare una speculazione razionale autonoma, tale da affermare verità diverse dalla dottrina di Cristo, ma grazie ad una ricerca, criticamente condotta dallo Spirito, che scaturisce dal vissuto relazionale ed ecclesiale e dall’esperienza pratica dell’amore evangelico. Pertanto è ripercorrendo la vita di Gesù e rivisitando le sue relazioni, specie quelle intessute con Dio, che possiamo intuire l’esistenza di questa verità. Si tratta perciò di sviluppare una metodologia di indagine esplicativa che rifletta quella evangelica di Gesù, con la quale, egli, senza mai parlare esplicitamente della Trinità, l’ha rivelata attraverso la sua stessa testimonianza di vita. In questo senso solo chi intesse con Cristo una relazione d’amore ha la possibilità di intuire questa verità, non come una formula astratta di fede, ma come una realtà che costituisce il nucleo vitale della sua identità divina. La Trinità prima ancora di un concetto teologico è uno stile di vita; un principio vitale che spiega la tipologia delle relazioni umane e divine di Gesù e dà origine, senso e compimento alla sua missione salvifica nel mondo.
Lungi dal pretendere di esaurire una simile verità nel breve spazio di un commento omiletico, vorremmo invece offrire i presupposti che ci consentono per lo meno di accostarci ad essa in punta di piedi, esattamente come Dio chiede di fare a Mosè quando si rivelò a lui nel roveto ardete. “Togliti i sandali dai piedi, poiché il luogo sul quale stai è una terra santa” (Es 3,5). Occorre allora spogliarsi di tutte le presunzioni intellettive e razionali, per accostarsi a questo mistero così grande, poiché “Dio nasconde queste cose sapienti e ai dotti, ma le rivela ai semplici” (Mt 11,25)[1].
Ma a cosa si riferisce Gesù quando, rivolgendosi ai suoi apostoli, dice: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso”? Di quale verità parla, da risultare così profonda, misteriosa e incomprensibile all’intelligenza dei discepoli? Cosa gli impediva di parlarne più chiaramente? Non sarebbe stato più opportuno farne almeno un minimo accenno? Non è facile rispondere a queste domande e il rischio di un’interpretazione personale è molto alto, tuttavia se la Chiesa ci propone un simile brano, allora significa che ci autorizza a pensare che tra le cose di cui i discepoli non potevano ancora comprendere il senso ci sia anche la relazione intima che Gesù intesseva col Padre, una relazione così unica e speciale che necessitava del particolare intervento dello Spirito per essere compresa[2].
Intanto è interessante notare come Gesù, a differenza di tutti i fondatori religiosi, non si preoccupi di essere esaustivo nel definire i contorni della sua dottrina, ma delega allo Spirito il mandato di far comprendere il senso del suo insegnamento e portare a termine lo sviluppo pieno di questa operazione, come a voler testimoniare che la sua non è una missione che nasce e si esaurisce con lui, ma che ha origine in Dio, si incarna con l’ausilio dello Spirito e si completa con la testimonianza dei discepoli, ai quali affida la responsabilità di portare a compimento il suo disegno, fino alla fine dei tempi. Ne scaturisce una testimonianza di vita relazionale che ci dà modo di capire l’origine della vita di Cristo e della sua missione trinitaria nel mondo. Egli, pur essendo l’artefice della salvezza è perfettamente consapevole di non essersi incarnato per una sua iniziativa personale, ma per realizzare il piano salvifico del Padre, e di farlo non in forza delle sue qualità, ma per mezzo dello Spirito. Allo stesso modo lo Spirito, pur essendo colui che scruta le profondità del pensiero di Dio non tiene gelosamente con sé la conoscenza di Dio, ma la condivide con l’intelligenza degli apostoli e di quanti dopo di loro si sforzano di indagare il mistero trinitario di Dio. Si capiscono così le parole di Gesù quando dice che egli “non parlerà da se stesso”, nel senso che non formulerà una verità diversa da quella insegnata da Cristo, ma “dirà tutto ciò che avrà udito (da lui) e annuncerà le cose future”. In altre parole, come Cristo consegna allo Spirito il compimento e la realizzazione della propria missione nel mondo, così lo Spirito consegna all’intelligenza dei discepoli e della Chiesa la comprensione della verità di Cristo. Una consegna quella vissuta da Cristo e dallo Spirito che rivelano un atto di estrema fiducia nell’altro. È in questa reciproca consegna di sé all’altro che possiamo cogliere il dinamismo trinitario della vita divina rivelata da Cristo. Si assiste così ad una sorta di reciproco nascondimento-rivelativo tra le persone della Trinità, che è all’origine anche della vita relazionale nella Chiesa: il Padre si nasconde dietro la missione salvifica del Figlio; il Figlio si nasconde dietro l’azione redentiva dello Spirito; lo Spirito si nasconde dietro la missione santificativa della Chiesa nel mondo. Ciascuno si nasconde lasciandosi rivelare dall’altro. Non è forse questa la logica trinitaria che dovrebbe caratterizzare anche le nostre relazioni ecclesiali?
È significativo pertanto che veniamo introdotti in questo mistero dopo aver contemplato i tre grandi eventi della vita di Cristo: la Pasqua, l’Ascensione e la Pentecoste. Tre eventi che dischiudono gradualmente e progressivamente il mistero della sua identità divina. La Pasqua ci dice la via, l’Ascensione ci indica la vita, la Pentecoste ci lascia intravedere la verità della realtà relazionale di Cristo. La via è quella della croce: Cristo morendo rivela l’azione potente del Padre; la vita è quella gloriosa che Cristo recupera con il suo ritorno al Padre, la verità è quella della relazione d’amore reciproca che intercorre tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Tutto è caratterizzato da un dinamismo di morte e vita, di nascondimento e rivelazione, di consegna e ritrovamento. Nessuno dei tre si afferma da sé, ma ciascuno è manifestato dall’altro e nell’altro. Una vita quella divina di Cristo che inaugura una nuova forma relazionale tra le persone nel mondo. È chiaro allora che la Trinità non si riduce ad un concetto astratto, ma è una verità viva, costituita da un dinamismo relazionale di persone vere e concrete. Il che significa che per indagare, argomentare e spiegare la sua verità occorre disporre di una mente trinitaria, capace cioè di pensare in modo relazionale non solo con l’altro, ma anche nell’altro, dando origine così ad un’argomentazione che scaturisce dalla consegna della propria conoscenza all’altro, convinto di ritrovarla arricchita nel gioco della reciprocità.
Non è un caso allora che la Chiesa ci fa celebrare il mistero della Trinità subito dopo la solennità della Pentecoste, come a volere dire che solo chi dispone del dono dello Spirito di Dio ed è testimone della Risurrezione di Cristo, può scrutare e indagare il mistero della vita divina. “Nessuno infatti può dire che Gesù è Signore se non è sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3b) e nessuno può avere accesso alla pienezza della comunione trinitaria, se non partecipa della grazia relazionale che scaturisce dalla vita evangelica di Cristo. Grazia che è stata riversata nei nostri cuori dallo Spirito di Cristo (cf. Rm 5,2).
Questo modo di approcciarci alla verità della vita trinitaria di Dio è quello che possiamo qualificare in termini di Sapienza, che nelle modalità con cui viene proposta dalla Bibbia non si riduce ad una conoscenza di tipo culturale o teorico, ma implica una vita esperienziale, capace di tradurre i suoi contenuti in un vissuto relazionale. Si capisce allora il senso della prima lettura tratta dal libro dei Proverbi 8,22-31 e del Salmo 8 che fanno luce sui presupposti esperienziali e spirituale di un simile approccio. Per questa ragione i testi biblici che descrivono l’essenza della Sapienza sono impregnati di saggezza, ovvero di quella conoscenza che scaturisce dall’esperienza pratica della vita, dalla quale chiunque, indipendentemente dal grado culturale e livello intellettivo, può attingere, per dare senso e compimento alla propria vita e alla vita di fede.
La Trinità, malgrado i nostri sforzi razionali, è e rimane un mistero e forse mai come in questo caso la sua comprensione è strettamente legata alla nostra testimonianza di vita evangelica nel mondo. Vale quindi per essa ciò che Gesù dice dei suoi discepoli: “da come vi amerete l’un l’altro sapranno che siete miei discepoli” (Gv 13,35). Se Dio è amore trinitario la sua verità diviene comprensibile solo all’interno di un contesto ecclesiale d’amore relazionale. Nulla come l’amore reciproco rende ragione del mistero trinitario di Dio. Nulla lo rende visibile e attraente ancora oggi nel mondo.
[1]Tra gli atteggiamenti previ che sembrano emergere da questi due passi biblici, di Esodo e di Matteo, vi sono senza dubbio quello dell’umiltà, della semplicità e della purezza di cuore, che prima ancora di avere una connotazione morale e spirituale, dicono l’atteggiamento intellettivo con cui ciascuno è chiamato ad accostarsi ad un simile mistero. L’umiltà è la prerogativa con la quale l’uomo riconosce i propri limiti e prende le distanze da ogni forma di orgoglio, superbia, presunzione, superiorità o sopraffazione nei confronti degli altri e del creato. Quando viene esercitata a livello religioso allora diventa “timore di Dio” che, lungi dall’essere confuso con la paura, è l’atteggiamento col quale l’uomo prende coscienza della smisurata e inconfrontabile grandezza di Dio e per questa ragione è degno di rispetto. L’umiltà è forse l’atteggiamento che più di ogni altro va necessariamente recuperato, specie nel nostro occidente, dove la formazione culturale ci abitua ad aggredire scientificamente tutto ciò che entra nell’orizzonte della nostra conoscenza razionale e a svalutare o minimizzare, invece, tutto ciò che sfugge ai nostri parametri intellettivi. “Il timore di Dio è il principio della sapienza” dice il libro dei Proverbi 9,10. Grazie ad esso Dio rende partecipe l’uomo di quel misterioso piano d’amore che va sotto il nome di Sapienza, ovvero di quella forma di conoscenza divina con la quale egli ha dato origine ed esistenza ad ogni cosa, impregnandone tutto il creato. A questo proposito vi invito a meditare la luminosa pagina che sant’Ilario vescovo scrive sul “timore di Dio”, che la Chiesa ci propone nell’Ufficio delle letture di Giovedì della seconda settimana di Quaresima. La semplicità è invece quell’atteggiamento che nasce dalla franchezza evangelica e consente di pensare, parlare, agire, relazionarsi con gli altri nella carità evangelica, consapevole che la propria testimonianza di vita, per quanto contrasti con la logica del mondo, costituisce un’occasione benefica di correzione salutare. La purezza di cuore infine è quello sguardo spirituale che consente di vedere Dio nelle persone, nelle circostanze della vita, specie quando sono caratterizzate da situazioni moralmente incresciose. È a questo sguardo che fa riferimento Gesù nel Discorso della montagna, quando lo definisce perfino una beatitudine: “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5,8). [2] È proprio grazie a questo intervento che Giovanni, rispetto agli altri evangelisti, si spinge ad indagare con la sua intelligenza spirituale e illuminata dallo Spirito, il mistero della vita relazionale di Cristo col Padre. Ne sono testimoni i suoi discorsi come quello di Addio, che stiamo leggendo in queste domeniche, dove giunge a scrutare le profondità abissali di questo mistero, con dei dialoghi che solo chi è ispirato dallo Spirito di Dio, può descrivere in quei termini. Mi piace immaginare che tra i contenuti della sapienza di cui lo stesso Paolo fu fatto oggetto della rivelazione di Cristo (cf 1Cor 2) ci fosse anche il mistero trinitario. Certo neppure lui ne parla in modo così chiaro, ma diverse formule di fede, come quella adottata dalla Chiesa per il saluto introduttivo alle celebrazioni liturgiche: “La grazia del Signore Gesù Cristo e l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” (2Cor 13,13), ci lasciano intendere che lui l’avesse in qualche modo intuito. La vita trinitaria di Dio è perciò tra quelle verità che è rimasta nascosta ai sapienti di questo mondo, poiché la loro logica conoscitiva è del tutto diversa da quella rivelativa di Cristo, tant’è che la sua sapienza messianica, manifestata attraverso la croce, è risultata assurda e incomprensibile al punto da crocifiggerlo. Tuttavia “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano” (1Cor 2,9; Is 64,3, Ger 3,16; Sal 19,4; Sir 1,8), egli infatti le rivela a quanti, come gli apostoli, si mostrano docili all’azione dello Spirito, quello Spirito che scruta le profondità di Dio. “Di queste cose noi parliamo, con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali” (1Cor 2,13).




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