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12 Febbraio 2023 - Anno A - VI Domenica del Tempo Ordinario


Sir 15,15-20; Sal 118/119; 1Cor 2,6-10; Mt 5,17-37


La legge perfetta dell’amore




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“Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento” (Mt 5,17). Quella espressa in questa affermazione è una delle questioni più scottanti della predicazione di Gesù: il rapporto con la legge mosaica. Il Discorso di Gesù sulle Beatitudini si rivelò ben presto così innovativo da divenire motivo di scontro con gli scribi, secondo i quali Gesù sembrava voler mettere in discussione l’autorità dei testi fondamentali della fede ebraica: la Legge o i Profeti. Dianzi a questa accusa Gesù dichiara espressamente: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti … ma per dare compimento”. E a coloro che lo ritenevano trasgressore della legge Gesù afferma in modo emblematico: “Chi trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli” (Mt 5, 19). Gesù, dunque, è convinto della solidità della legge e nulla di essa andrà perduto: “In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto” (Mt 5,18).

Ciò non toglie che egli faccia una dichiarazione alquanto provocatoria e apparentemente pretenziosa che lascia emergere la coscienza di essere un legislatore superiore allo stesso Mosè: “Avete inteso che fu detto: … ma io vi dico” (Mt 5,21-22). Egli dunque non intende distruggere la legge, ma neppure considerarla come intangibile. Viene perciò da chiedersi: come va inteso questo “compimento” di cui lui parla? Cos’è questo “di più” che, a suo giudizio, dovrebbe perfezionare la legge? Nel rispondere a queste domande cercheremo di capire in primo luogo il senso della legge mosaica e quindi la ragione per cui egli ritiene importante giungere a un simile intervento.

A differenza degli scribi[1], Gesù non ha mai svolto una funzione giuridica, nel senso che non ha scritto nuove norme, né ha apportato modifiche o adattamenti al codice legislativo mosaico, ma si è preoccupato invece di esplicitarne il senso originario e recondito. La questione, dunque, che egli intende mettere a fuoco è che la legge, nella sua essenza, non fa che manifestare la chiara volontà di Dio nei confronti dell’uomo. Pertanto l’aspetto principale che va considerato è l’intimo rapporto che sussiste tra la legge di Dio e la libertà dell’uomo. Secondo Gesù Dio non ha dato la legge per assoggettare l’uomo a sé e neppure per costringerlo, come un despota, ad obbedire alla sua volontà, bensì per rivelargli la sua giustizia, così che praticandola l’uomo potesse sperimentare la pienezza della sua libertà[2]. Il giusto agli occhi di Gesù è essenzialmente un uomo libero. Il suo profilo è quello dell’innocente che agisce senza doppi fini, perciò libero di aderire volontariamente agli insegnamenti di Dio. La legge, quindi, non va considerata come limitativa della libertà dell’uomo, semmai come limitativa della sua capacità di fare il male. E anche in questo caso più che uno strumento di giudizio e di condanna, va intesa come una disposizione per mettere il peccatore nella condizione di essere redento (cf. Ez 33,11). Lo scopo in ogni caso è quello di manifestare la giustizia salvifica di Dio. Da qui il dono della legge, come ciò che predispone il cuore dell’uomo a conoscere e attuare la volontà di Dio. Si capisce allora la richiesta di un’intelligenza che consenta di scrutarla e sviscerarne le profondità, così come fa il salmista: “Aprimi gli occhi perché io consideri / le meraviglie della tua legge. / Insegnami, Signore, la via dei tuoi decreti / e la custodirò sino alla fine. / Dammi intelligenza, perché io custodisca la tua legge / e la osservi con tutto il cuore”. Questo esplicito desiderio di aderire con tutta la propria intelligenza e libertà alla legge, ci conferma ulteriormente che essa non è data per piegare la volontà dell’uomo o per verificare la docilità del pio ebreo alla volontà di Dio, quanto per renderlo partecipe della vita divina: “Sii benevolo con il tuo servo e avrò vita”. Per questa ragione essa è motivo di beatitudine: “Beato chi è integro nella sua via e cammina nella legge del Signore. / Beato chi custodisce i suoi insegnamenti e lo cerca con tutto il cuore” (Sal 118/119).

L’uomo dunque è veramente libero non quando decide di vivere in modo indipendente dalla relazione con Dio, ma, paradossalmente, quando stabilisce un rapporto intimo e vitale con lui. Quindi la legge, lungi dal vincolare l’uomo, intende aiutarlo ad acquisire quella facoltà che gli consente di discernere il bene dal male. Dio, come afferma, l’autore del libro del Siracide, pone davanti a noi due possibilità: la “vita e la morte” e a “ciascuno sarà dato quello che a lui piace” (Sir 15,17). Il che significa che la “vita” o la “morte” sono le immediate conseguenze delle nostre scelte. Detto in altri termini: chi sceglie di vivere secondo gli insegnamenti divini si apre alla possibilità di sperimentare la pienezza della vita; diversamente chi decide di vivere secondo la logica egocentrica del peccato, si espone alla possibilità della morte, ovvero a un’esistenza disperata, misera e priva di senso. Ciascuno deve perciò decidersi verso cosa orientare la propria vita. Noi siamo ciò che pensiamo e ciò che decidiamo di essere. La nostra esistenza è il risultato delle nostre piccole e grandi scelte di vita. Si tratta allora di capire quante di queste scelte sono condizionate dal male, e quante di esse sono motivate e vengono realmente compiute in vista del bene.

Il problema nasce allora quando la legge viene assolutizzata, tanto da assoggettarle l’uomo, fino a renderlo schiavo. Dinanzi a questo evidente pericolo, al quale esponevano gli insegnamenti dei rabbini e dei farisei, Gesù interviene dicendo: “Io vi dico: se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5,20). Per costoro, infatti, la giustizia consisteva esclusivamente nel rispettare fedelmente e minuziosamente tutte le norme previste dalla legge mosaica. Per cui una volta osservata la legge ci si sentiva autorizzati ad essere salvati. Per Gesù invece la salvezza è un dono gratuito che non dipende dall’osservanza giuridica delle norme, ma dalla conformità del cuore alla volontà di Dio. È a questo livello che l’uomo deve esprimere il proprio assenso a Dio. Ed è a questa legge intima, scritta nel profondo del cuore, che l’uomo deve aderire per giungere alla salvezza. Pertanto se la legge prevede di “non uccidere”, non basta limitarsi a evitare questo gesto, bensì occorre giungere perfino a non “adirarsi” nei confronti del prossimo (cf. Mt 5,21). Se la legge prevede di “non commettere adulterio”, a Gesù non basta astenersi da questo atto, ma occorre giungere perfino a “non nutrire desiderio verso la donna d’altri” (cf. Mt 5,27). Se la legge prevede di non “giurare il falso” (Mt 5,33), non basta evitare il giuramento, ma limitarsi a dire “sì” o “no” per attestare l’autenticità della propria parola. Non bastano allora la rinuncia, il sacrificio, l’atto di culto, l’osservanza dei precetti come prevede la legge, ma occorre manifestare con la propria testimonianza la giustizia e la misericordia di Dio. Questo è il “di più” richiesto da Gesù. E ciò nessuna legge può esigerlo se non quella dello Spirito dentro di noi. Se c’è dunque una legge perfetta questa è quella del Padre che è nei cieli (cf. Mt 5,48), ovvero la legge dell’amore. L’unica in grado di rendere l’uomo autenticamente libero.


[1] Gli scribi, o dottori della legge, svolgevano un ruolo importante all’interno della comunità ebraica. Essi erano per lo più teologi, avvocati ma anche e guide del popolo. La loro presenza si comprese in modo particolare durante l’esilio in Babilonia, quando cioè, il popolo d’Israele capì che avrebbe continuato ad esistere nella misura in cui sarebbe rimasto fedele alla Legge mosaica. La questione però che fece subito emergere la loro importanza era quella di tradurre gli imperativi divini in un contesto culturale del tutto diverso da quello israelita. Occorreva perciò conoscere la legge, interpretarla in modo autentico e formulare norme giuridiche che permettessero al popolo di tradurla nel vissuto quotidiano. Il lavoro non era per nulla facile perché si trattava di decretare norme per i vari ambiti della vita: da quello giuridico a quello sociale, da quello religioso a quello morale. Occorreva allora di adattare la Legge a situazioni nuove, non contemplate dalle prescrizioni mosaiche. Si capisce dunque la necessità di aggiungere norme nuove che permettessero di offrire una più agile interpretazione di quei casi controversi e difficili che man mano si venivano a creare nella vita. Tutto ciò dava adito a questioni che comportavano discussioni interminabili e cavillose. Col ritorno in patria del popolo d’Israele essi, dopo la seconda metà del V secolo, furono chiamati a far parte dei tribunali, come stimati consulenti. Al tempo di Gesù il luogo dove essi svolgevano il loro lavoro e dove erano maggiormente consultati, erano le Sinagoghe. Qui avvenivano discussioni che vertevano principalmente intorno alla questione di identificare la volontà divina nelle circostanze della vita quotidiana. E queste erano spesso motivi di conflitti interpretativi. Conflitti nei quali, come attestano i Vangeli, viene coinvolto lo stesso Gesù.


[2] Rispetto al diritto romano, dove la giustizia assume una connotazione specificamente giuridica, la giustizia nella Bibbia sta a indicare la fedeltà di Dio alla sua parola e, di conseguenza, la conformità dell’uomo alla volontà di Dio. Quando Gesù dichiara di essere venuto per gli ingiusti e i peccatori, non chiede loro di espiare i peccati attraverso un sacrificio, né chiede di essere moralmente retti secondo una legge morale, ma di lasciarsi amare per essere reintrodotti nell’alveo originario della relazione con Dio.

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