12 Dicembre 2021 - Anno C - III Domenica di Avvento
- don luigi
- 11 dic 2021
- Tempo di lettura: 6 min
Aggiornamento: 12 dic 2021
Sof 3,14-17; Sal (Is 12,2-6); Fil 4,4-7; Lc 3,10-18
Vivere l’attesa nella gioia della conversione

La terza domenica di Avvento viene qualificata come “Gaudete” (letteralmente rallegratevi, dal latino gaudium che significa godere, gioire). “Siate lieti”, dice san Paolo ai Filippesi. Il suo non è solo un invito, ma un imperativo: “Gioite! Ve lo ripeto, rallegratevi!” (Fil 4,4). Questa sorta di ‘comando’ traspare ancora più chiaramente dal brano del profeta Sofonia, quando rivolgendosi al popolo d’Israele in esilio, ridotto a schiavitù a causa del proprio peccato, dice: “Rallegrati … grida di gioia Israele, esulta … perché il Signore ha revocato la tua condanna, ha disperso il tuo nemico. Il Signore è in mezzo a te, non temere alcuna sventura … non lasciarti cadere le braccia. Il Signore in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia” (Sof 3,4-7). Entrambi i brani biblici ci esplicitano dunque le ragioni della gioia di questa domenica: per Sofonia, essa consiste nella revoca della condanna e nella dispersione del nemico; per san Paolo, invece, consiste nella percezione dell’imminente venuta del Signore, come lui stesso afferma: “Il Signore è vicino” (Fil 4,5).
Anche il brano evangelico partecipa, a suo modo, a questo argomento. Per il Battista, per esempio, la gioia consiste nella remissione dei peccati. Essa ha perciò un riferimento alla vita battesimale (cf. Lc 3,16). Egli sembra perfino voler svelarci il segreto per giungere alla gioia, come vedremo. Il Battista, inoltre, ci propone anche un altro argomento: la conversione. In questo senso gioia e conversione si rivelano come ulteriori atteggiamenti con cui vivere l’attesa nel tempo dell’Avvento.
Per introdurci in questi argomenti ci lasciamo guidare dalla domanda che le folle posero al Battista: “Che cosa dobbiamo fare?” (Lc 3,10). È la domanda che ci porta direttamente nel cuore del messaggio evangelico di quest’oggi. Si tratta di una domanda molto concreta che rivela il desiderio di tradurre in pratica il cammino di conversione, suscitato dal Battista. Vi invito perciò a soffermarvi attentamente sulle indicazioni pratiche da lui suggerite.
Spesso quando parliamo di conversione ci riferiamo direttamente al cambiamento radicale di vita che essa esige, come traspare, per esempio, dai racconti della chiamata dei primi discepoli di Gesù o di alcuni santi che conosciamo, come Francesco, Domenico, Ignazio ... La loro immediatezza spesso ci spaventa, specie se consideriamo la distanza che ha creato la comoda agiatezza in cui viviamo. In realtà Giovanni ci fa capire che radicalità e totalità richiedono gradualità, alla quale anche noi possiamo prepararci, attraverso una progressiva disponibilità alla volontà di Dio, praticata nel vissuto quotidiano. Ai pubblicani e ai soldati Giovanni, infatti, non chiede di cambiare vita o mestiere, come farà Gesù con i suoi discepoli, ma di svolgere in modo onesto il proprio lavoro. Il senso autentico e lo scopo ultimo della conversione in fondo altro non è che: pensare e vivere in modo diverso le cose di prima, viverle cioè alla luce della volontà di Dio, sforzandosi di conformarle alla realtà evangelica. A nessuno degli astanti Giovanni chiede di lasciare tutto e di seguire il suo stile di vita, ma di vivere appieno, con giustizia ed onestà, il loro stato di vita. Così alle folle non chiede di praticare la giustizia distributiva, intesa come dare ad ognuno il proprio, ma di mettere in comune i propri beni; ai pubblicani chiede di non esigere dai connazionali Israeliti più di quanto essi disponevano già attraverso il loro lavoro di esattori; ai soldati di non estorcere, ovvero sottrarre con inganno e ricatto i beni degli altri, in virtù del proprio potere militare, ma di accontentarsi solo delle loro paghe. In altre parole Giovanni ci invita a capire che una comunità sociale fa di più, se ciascuno fa quello che deve fare.
Le indicazioni che il Battista dà a coloro che si lasciano interpellare dalla sua rigorosa e autentica testimonianza di vita morale e spirituale, ci inducono a pensare e soprattutto a cercare le vie per tradurre la salvezza, nell’oggi della nostra realtà sociale e culturale. Si tratta allora di capire se realmente la salvezza costituisce anche per noi il bene a cui aspiriamo e, al contempo, la causa della nostra gioia piena. La conversione costituisce perciò il modo più efficace per tradurre in una condizione di vita stabile e duratura la salvezza, e quindi la libertà e la felicità.
Nel tentativo di favorire questo tipo di riflessione vi suggerisco alcune domande. Proviamo quindi a chiederci: qual è la causa della nostra gioia? Cosa nella vita ci rende veramente felici? Qual è il tipo di benessere a cui aspiriamo e associamo la nostra felicità? Quale forma di benessere riteniamo pienamente appagante della nostra sete di felicità? La gioia può costituire un moto dello spirito stabile e duraturo nel tempo? Cosa ci consente di permanere nella gioia? Cosa dovremmo fare per custodire la gioia e cosa evitare per sottrarla al logorio e all’usura del tempo? Quanti considerano Dio come il principio della propria felicità? Quanti hanno avuto veramente modo di sperimentarlo come il motivo della propria gioia? Può Dio appagare il nostro desiderio di felicità? Cosa di lui ci rende veramente felici? Per quanti di noi Dio costituisce realmente il bene sommo a cui tendere con tutte le proprie forze?
La risposta a questo tipo di domande non va cercata in quel moralismo culturale, tipico di chi ritiene la fede cristiana una forma di vita avulsa dalla realtà, concentrata esclusivamente su una dimensione spirituale che esula da qualsiasi rapporto col benessere fisico e materiale. Lo stesso discorso vale per la povertà evangelica: non va intesa come una sorta di deresponsabilizzazione totale nei confronti dei beni materiali, ma è uno stile di vita che si acquista fidandosi totalmente all’azione provvidenziale di Dio. Questa fiducia non si raggiunge dall’oggi al domani, ma necessità di una costante, graduale e progressiva relazione con Dio-Padre, vissuta in tutte le circostanze della vita quotidiana. Per quanto nel passato ci siano state persone che hanno realmente vissuto la povertà evangelica e l’abbiano scoperta come via della propria santità e salvezza, la rinnovata struttura sociale ed economica, nel quale ci ritroviamo immersi, ci induce a trovare nuove vie e forme di testimonianza di vita cristiana. Questo non significa che non sia più possibile attuare la povertà evangelica, al contrario necessita di una rinnovata forma di attualizzazione. Il benessere raggiunto dalla nostra società civile, costituisce, senza dubbio, un indubitabile traguardo, di cui tutti, più o meno, godiamo. Con ciò non possiamo negare la presenza di drammatiche sacche di povertà, che costituiscono vere e proprie forme di sopravvivenza; d’altra parte è anche vero che non è più possibile continuare a sostenere il tenore di vita generato da questo benessere; caratterizzato, peraltro, da esigenze superflue delle quali, francamente, non so quanti di noi siano realmente disposti a rinunciare. Dobbiamo ritenere allora la povertà evangelica solo una pura utopia? Lungi da me considerare una simile cosa, specie se pensiamo a ciò che lo Spirito è capace di fare nella vita personale ed ecclesiale delle persone. Tuttavia, considerando l’attuale condizione di vita, più che ad una rinuncia totale dei beni, oggi, siamo chiamati a una rinnovata gestione evangelica del benessere. Come ci attestano le diverse forme di economia che si vanno sperimentando nella Chiesa e nel mondo, ispirate alla fratellanza universale e più specificamente alla realtà evangelica[1]. La questione comunque non è riducibile solo ad una trasparente gestione economica dei beni. Saremmo dei perfetti ingenui se pensassimo di raggiungere una tale atarassia (immunità dalle passioni), da ritenerci esonerati da qualsiasi forma di suggestione. Si tratta allora di acquisire quella mentalità evangelica che il Battista lascia intravedere dalle sue risposte.
Egli non si limita a proporre solo una vita moralmente onesta, fatta di rispetto delle leggi, ma chiede che la vita sociale sia il riflesso di quella interiore, generata dalla conversione. Un simile cambiamento scaturisce solo dall’amore. Infatti, l’osservanza della norma genera obbligo, mentre l’amore genera libertà. E solo chi è libero decide di cambiare la propria vita. La gioia che ci propone Giovanni consiste allora nell’essere salvati e più chiaramente nell’essere salvati da Cristo. È partecipando di questa salvezza, attraverso la sua vita battesimale, che abbiamo già ora modo di gustare la pienezza della sua gioia, come lui stesso afferma: “Vi ho detto questo perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Si tratta allora di una gioia che scaturisce dalla conversione, ovvero dallo sforzo di conformare la propria vita alla volontà di Dio. È in questo percorso di conversione che si comprende il senso della remissione dei peccati di cui parla Giovanni. Rimettere il peccato col battesimo diventa così: partecipare della stessa vita di Dio e quindi della sua gioia. La partecipazione a questa forma di pienezza non dipende da un momentaneo desiderio di cambiare, ma scaturisce da un rinnovato stile di vita che ha nel vangelo la sua fonte ispirativa più autentica e vera. È qui che si capisce la ragione della radicalità che Cristo chiede ai suoi discepoli. Qui è anche la ragione che garantisce una gioia stabile e duratura nella nostra vita. Vi auguro perciò di cogliere, sia pure per un solo istante, la pienezza della gioia di Cristo.
[1] Vedi l’Economia di Comunione proposta dal Movimento dei Focolari o l’Economia di Francesco, suggerita dall’attuale pontefice agli imprenditori e agli economisti nel recente incontro ad Assisi del 19-21 novembre del 2020.




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