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11 Settembre 2022 - Anno C - XXIV Domenica del Tempo Ordinario


Es 32,7-11.13-14; Sal 50/51; 1 Tm 1,12-17; Lc 15,1-32


La gioia salvifica di Gesù



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“Vi sarà più gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7). Basterebbe quest’affermazione per renderci conto dello spirito gaudioso che anima la predicazione di Gesù. Egli si mostra così felice nel vedere un solo peccatore che si salva da anteporre tutto a suo favore. Questa particolare attenzione che egli mostra nei confronti del singolo e della gioia che la sua salvezza procura a Dio, mette in discussione la metodologia che siamo soliti seguire nei nostri progetti pastorali, preoccupati più del numero e del rigore morale che delle singole persone e degli effetti che l’azione di Dio procura al nostro spirito. Così mentre noi tendiamo ad esaltare l’aspetto “penitenziale” della conversione, concentrando l’attenzione sul “pentimento”, la “contrizione”, il “rimorso”, il “dolore”, il “sacrificio”, nella speranza che essi favoriscano nei nostri interlocutori la presa di coscienza del peccato, ritenuta condizione fondamentale per giungere alla conversione, Gesù, senza escludere o minimizzare queste tappe intermedie, ritiene fondamentale proiettare l’attenzione del peccatore direttamente sugli effetti spirituali e psicologici che scaturiscono dalla ritrovata conciliazione con Dio. Essi sono così benefici da indurci a chiedere se non sia opportuno prestarle attenzione e prenderla seriamente in considerazione nella nostra prassi pastorale.

Sotto l’aspetto metodologico, dunque, a quanto pare, la gioia si rivela molto più efficace del rigore moralistico. Evidentemente ciò è dovuto all’irresistibile forza di attrazione e coinvolgimento personale che la bellezza della salvezza genera in ciascuno di noi, specie quando avvertiamo una considerevole distanza da Dio, dovuta al nostro peccato. Se c’è dunque un elemento evangelico che dovremmo urgentemente recuperare nella nostra prassi pastorale, questa è la gioia. Si tratta evidentemente di un elemento comune, eppure così poco praticato da noi cristiani, fondamentalmente seriosi, se non tristi e perennemente scontenti di noi, degli altri e della realtà che ci circonda. Sempre gravati dal peso della salvezza del mondo, come se essa dipendesse da noi. Gesù, invece, attraverso le sue “opere e parole”, non fa che promuovere ed esplicitare continuamente, in diversi modi e forme, quest’elemento distintivo del volto di Dio, considerato lo scopo specifico della sua volontà. Solo chi partecipa di questa gioia divina è a sua volta in grado di rinnovare anche la metodologia di approccio alla conversione propria e altrui. Diversamente si rimane ancorati ad una prassi moralistica che per quanto sia ineccepibile sotto l’aspetto teologico, si rivela assai limitata sotto quello pratico e spirituale, finendo col creare effetti esattamente contrari a quelli sperati. Non sono pochi i casi, infatti, di coloro che a seguito di un’eccessiva educazione moralistica, si rivelano i più aspri e rabbiosi critici della prassi religiosa. Lo scopo della conversione, pertanto, non è solo il cambiamento della mentalità e dello stile di vita, come spesso ribadiamo nelle nostre catechesi penitenziali, ma la partecipazione alla vita di Dio. Questa è la ragione principale: gioire di Dio, con Dio in Dio! La conversione pertanto è solo una condizione atta a favorire la partecipazione alla gioia di Dio, come dirà lo stesso Gesù ai suoi discepoli, dopo aver esposto il suo comandamento d’amore: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). È l’amore di Dio che muove le persone al cambiamento, specie quando questo viene compiuto sulla base di una libera e volontaria iniziativa personale. Non basta dunque impugnare l’elsa della giustizia, come fanno i rigidi sostenitori della prassi moralistica, per indurre le persone alla conversione. Oggi, più che mai, abbiamo bisogno di irraggiare la luce della misericordia, come ci ricorda ripetutamente papa Francesco. Della gioia di Dio, però, a quanto pare, noi ne abbiamo piene le orecchie, ma solo raramente ne facciamo realmente esperienza, e spesso siamo così distratti da dimenticare presto quello che lo Spirito compie in noi. La ragione, dunque, che spiega l’insistenza di Gesù sulla gioia, dipende dalla sua costante frequentazione di quella divina. La gioia, dunque, di cui parla Gesù non è certamente quella che scaturisce da un’esperienza idilliaca della vita, ma quella che fluisce da un’adesione piena alla volontà divina, specie quando questa ci invita a passare attraverso le sofferenze umane, necessarie per la sua realizzazione, come attesta il passo degli Atti, dove Luca nel raccontare le primissime forme di persecuzioni subite dagli Apostoli, da parte del Sinedrio, annota: “Allora essi se ne andarono via dal sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù” (At 5,41).

Non è un caso, dunque, che “tutti i pubblicani e i peccatori”, affascinati dalla metodologia evangelica di Gesù si “avvicinavano a lui per ascoltarlo” (Lc 15,1), bisognosi com’erano di ridare senso alla loro vita attraverso la riconciliazione con Dio. Diversamente chi, come i farisei, si riteneva esentato da questa pratica spirituale, a causa della presunta “giustizia morale” personale, si sentiva autorizzato persino a “mormorare”, criticando non solo i contenuti, ma soprattutto la metodologia evangelica di Gesù, attento a comportarsi più come un “peccatore tra i peccatori” che come un “giudice divino” (cf. Lc 15,2). Ne deriva una diversità di visione e di approccio alla conversione che costituisce la ragione principale del conflitto tra Gesù e i farisei, preoccupati più di esigere dagli altri che non da se stessi, come rileva lo stesso Gesù nel capitolo 23 del Vangelo di Matteo. Quindi mentre costoro sostenevano prevalentemente il rigore moralistico, incentrato sulla necessità di seguire fedelmente tutte le norme e i precetti stabiliti dalla legge mosaica, per Gesù la legge costituiva solo uno strumento “pedagogico”, predisposto da Dio in vista della salvezza dei peccatori, come dirà in seguito san Paolo nella lettera ai Galati 3,22-29. Secondo Gesù, quindi, l’incipit della conversione non proviene dalla morale, ma dall’amore di Dio che origina nelle persone il desiderio di conformarsi alla sua vita divina. È lasciandosi amare da lui che il peccatore viene mosso al pentimento e alla riconciliazione e quindi al cambiamento di vita. Pertanto più che fare leva sull’azione morale, occorre pro-muovere l’azione dello Spirito di Dio in noi e lasciare che egli ci coinvolga nell’amore personale di Dio. È qui il principio della morale. Diversamente si rischia di ridurre tutto ad un’iniziativa umana.

È alla luce di questa prospettiva d’amore evangelico che si coglie il senso delle varie parabole raccontate da Gesù, in questo brano evangelico di Luca, tutte caratterizzate dalla ‘dinamica della perdita e del ritrovamento’: chi di una “pecora”, chi di una “moneta”, chi di un “figlio”; in ogni caso tutte allusive all’ansia riconciliativa che anima l’azione misericordiosa di Dio verso le sue creature; ansia che vede nell’opera di Gesù una straordinaria testimonianza salvifica. Cosa provoca nel “pastore”, nella “donna” e nel “padre” il desiderio della ricerca e del ritrovamento, se non l’attenzione per il singolo elemento? Così mentre i farisei, pur chiamati a guidare il popolo alla salvezza, erano intendi al numero e alla massa – come purtroppo accade ancora oggi a livello ecclesiale – Gesù volge l’attenzione al singolo. E mentre essi istituivano un rapporto generico e superficiale col popolo, Gesù si procurava di stabilirne uno personale e diretto con le singole persone. Si capisce dunque che la metodologia perseguita da Gesù, durante la sua predicazione evangelica, è caratterizzata da una chiara ed evidente relazione che pone al centro dell’attenzione la persona. Gli apostoli, forti di questa eredità di Cristo, hanno dato origine ad una predicazione che ha permesso al cristianesimo di diffondersi in tutto il mondo allora conosciuto. Lo stesso discorso vale anche per noi, oggi, se s’intende mettere mano alla nuova evangelizzazione, promossa già a suo tempo da Paolo VI e più estesamente da Giovanni Paolo II. Non vi è altra via evangelizzatrice se non quella praticata da Gesù. Disattenderla a livello sociale e persino a livello ecclesiale significa precluderci la gioia della salvezza evangelica. Cosa impedisce ai nostri progetti pastorali di decollare se non l’assenza di questa relazione interpersonale, spesso elusa perfino da tanti preti che preferiscono mediarla con i social, piuttosto che impregnarla dell’ardore evangelico? E cos’è la gioia evangelica se non quell’intimo sentimento che scaturisce dalla profonda partecipazione all’amore di Dio? Non è un caso allora che le prime due parabole si concludono proprio con un’espressione di gioia, pronunciata direttamente dai rispettivi protagonisti: il “pastore” e la “donna”: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la pecora che era perduta”, esattamente la stessa pronunciata dalla donna per la moneta (Lc 15,6.9). Assai simile è il clima di “allegria” che pervade il cuore del padre, per l’inattesa gioia del ritrovamento del figlio, descritto nella terza parabola[1]: “Presto … facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa” (Lc 15,22-24).

Ciascuna parabola a suo modo ci offre una declinazione di questo sentimento gioioso che Dio prova per la salvezza, anche se dovesse trattarsi di una sola sua creatura. Ma come conciliare la “gioia” di Dio con i sentimenti di “ira” che il libro dell’Esodo non esita ad attribuirgli, in questo brano della prima lettura (Es 32,7-11.13-14)? Esso ci delinea, infatti, i tratti di un volto di Dio così “indignato e deciso a sterminare il suo popolo”[2], che facciamo fatica a riconoscerla allo stesso Dio. Si tratta naturalmente di un linguaggio antropomorfico che riflette molto da vicino il processo di maturazione religiosa degli autori biblici e, quindi, il modo di interpretare il volto di Dio alla luce dei propri sentimenti viscerali. L’“indignazione”, come l’“ira”, lo “sdegno”, la “collera”, la “gelosia” fanno parte di un vocabolario pedagogico-religioso col quale essi, come i profeti che se ne fanno interpreti, cercano di infondere nel popolo la coscienza della necessaria relazione con Dio, intesa come condizione fondamentale alla salvezza. E mentre tali sentimenti, sono temporanei, relativi, cioè, al dolore che Dio prova per il comportamento ribelle del suo popolo, la “gioia”, la “misericordia”, il “perdono” ci danno l’idea, invece, dei tratti originari, costitutivi ed eterni della realtà di Dio (cf. Dt 5,10). Ciò non toglie che il popolo abbia faticato ad assimilarli nel corso della storia della salvezza. Lo stesso Mosè, pur consapevole dell’infinita ed eterna misericordia di Dio, non esita ad usare un linguaggio dai toni aspri e duri, pur di incidere profondamente il processo di conversione nel popolo. Commuovente si rivela perciò il modo con cui egli riesce a distogliere la decisione di Dio di sterminare il popolo per mezzo della sua ira (cf. Es 32,10), grazie al ricordo della “promessa fatta ad Abramo, Isacco e Giacobbe” (cf. Es 32,13-14). Con Gesù questo processo di maturazione religiosa raggiunge il suo vertice. Si spiega così la sua insistenza sul carattere misericordioso e gioioso di Dio, come a voler mettere in evidenzia l’essenza della divinità di Dio e lo scopo della sua volontà salvifica.

A testimonianza della misericordia di Dio ci viene incontro anche la lettera di Paolo ai Galati, dove l’apostolo, nel raccontare la sua esperienza personale, dice di essere stato oggetto di un tale dono, in un momento in cui avrebbe meritato invece di essere condannato, per aver ingiustamente bestemmiato e perseguitato Cristo e la sua dottrina. Egli riconosce di non aver subito compreso Cristo e l’autenticità del suo Vangelo, e di aver agito per ignoranza. Ma nonostante tutto Dio ha usato misericordia verso di lui, gratuitamente, anzi, sovrabbondando col dono della fede, della grazia e della carità in Cristo Gesù. Ed è proprio questa straordinaria esperienza d’amore a costituire il nucleo della sua fede in Cristo e il fondamento del suo ministero apostolico. Di questo mandato perciò egli si sente responsabile: la salvezza degli altri dipende ora anche da lui.

Gioire della salvezza altrui. Sembra racchiuso qui il segreto della nostra prassi pastorale e del nostro gaudio spirituale. Gioire! Affinché la gioia di Cristo sia in noi e la nostra gioia sia piena (cf. Gv 15,11).




[1] Per un commento più esteso e approfondito di questa parabola rimando al mio libro Insieme nella fede. Itinerario biblico per una spiritualità ecclesiale, ed. Paoline, Milano 2021, [2] Il brano ci riferisce di uno degli episodi emblematici della facile volubilità del popolo d’Israele a darsi all’idolatria, nonostante le numerose testimonianze divine, e a rimanere caparbiamente convinto delle proprie scelte religiose. “Ostinazione” che viene formulata in termini di “dura cervice” (Es 32,9), espressione tipica per dire il carattere testardo di quel popolo, dura a piegarsi alla volontà di Dio.

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