11 Giugno 2023 - Anno A - Santissimo Corpo e Sangue di Cristo
- don luigi
- 10 giu 2023
- Tempo di lettura: 7 min
Dt 8,2-3.14-16; Sal 147; 1Cor 10,16-17; Gv 6,51-58
Eucaristia: via per l’eternità

“Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51). Trovandoci a celebrare la solennità del Corpo e Sangue di Cristo ci saremmo aspettati un brano relativo all’Ultima Cena e invece la Chiesa ce ne propone uno tratto dal capitolo sesto di Giovanni. Apparentemente questa scelta non sembra avere un immediato nesso logico, in realtà si rivela assai significativa, poiché le questioni narrate da Giovanni in questo capitolo, costituiscono un’introduzione necessaria alle disposizioni spirituali per chi si accinge ad accostarsi al mistero dell’Eucaristia.
Il discorso che Gesù tiene nella sinagoga di Cafarnao a seguito della moltiplicazione dei pani e soprattutto le dichiarazioni che egli fa sulla sua identità divina, suscitano, infatti, un aspro dibattito che fa venire a galla le reali difficoltà che impediscono ai Giudei, ai discepoli e perfino agli apostoli di cogliere il significato autentico del miracolo del pane e delle parole di Gesù. La sua affermazione “Io sono il pane della vita”, ripetuta per ben tre volte (cf. Gv 6,34.48.51), sia pure con qualche variante, costituisce effettivamente una dichiarazione audace, profonda, impegnativa, che suona dura e pretenziosa alle orecchie non solo degli astanti di Gesù, ma degli ascoltatori di tutti i tempi. Un’autentica sfida che Gesù lancia a chiunque anela all’eternità e a trovare la via per accedervi.
È importante quindi comprendere il senso autentico di questa dichiarazione, per uscire da quella professione di fede abitudinaria, legata al sentito dire, che troppo spesso dà per scontata la divinità di Gesù, senza farla scaturire da quella ragionevolezza che Giovanni, invece, si preoccupa di esplicitare in questo capitolo e più estesamente in tutto il suo vangelo. Non è possibile perciò comprenderla senza collocarla nel giusto orizzonte esistenziale. L’affermazione di Gesù, infatti, altro non è che la risposta a quell’anelito profondo che alberga in ciascuno di noi e che i Sinottici esprimono in modo emblematico, attraverso l’interrogativo di quel tale che chiede a Gesù: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna” (Mc 10,17; Mt 19,16; Lc 18,18), e alla quale, come lui, facciamo fatica a comprendere la via per prenderne parte. Non sono pochi quelli che continuano a credere di entrarvi in virtù della propria forza di volontà, o facendo appello all’osservanza dei precetti religiosi, o perseguendo l’originaria tentazione adamitica. Tutti modi che rivelano l’illusione di accedervi in modo autonomo e indipendente da Dio, esattamente come pensa di fare Adamo quando ritiene di appagare la sua sete di eternità impossessandosi della conoscenza del bene e del male e dell’albero della vita (cf. Gen 3,22).
Le difficoltà manifestate dai Giudei, dai discepoli e dagli apostoli sono perciò anche le nostre difficoltà. Anche noi probabilmente trovandoci davanti all’affermazione di Gesù: “Io sono il pane disceso dal cielo”, avremmo risposto come loro: “Quale segno tu fai perché possiamo crederti?” (Gv 6,30). Anche noi più che un segno che ci aiuti a credere, cerchiamo solo pretesti per continuare a giustificare le nostre convinzioni, a difendere i nostri dubbi, magari fondando il nostro scetticismo su alcuni dati di fatto, come quelli descritti dall’evangelista: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe. Di lui conosciamo il padre e la madre”, ovvero non è un uomo come tutti gli altri? Come può dunque dire: sono disceso dal cielo?” (Gv 6,42), “Come può costui darci la sua carne da mangiare?” (Gv 6,52). Queste difficoltà sono le stesse che anche noi rileviamo a Gesù, quando percepiamo che il suo Vangelo mette seriamente in discussione il nostro stile di vita borghese, che ci induce a ripetere nell’oggi della mentalità liberale e indipendente: “questo linguaggio è duro; chi può intenderlo? (Gv 6,60). E quante volte, dinanzi al discorso di Gesù, maturiamo perfino la decisione di allontanarci da lui, come fecero molti dei suoi discepoli (cf. Gv 6,66), convinti, come loro, di dare sfogo alla nostra libertà e di avere finalmente la possibilità di esprimere in modo pieno la nostra identità e i nostri ideali di vita. Ma quante volte, pur sperimentando la meschinità delle nostre scelte, la delusione delle nostre attese nel drammatico esito del peccato, facciamo fatica a compiere la svolta alla quale perviene Pietro: “Signore da chi andremo, tu solo hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6,68-69). La sua esperienza costituisce allora per noi un’autentica testimonianza di fede, dalla quale vogliamo lasciarci ispirare e guidare nel nostro cammino spirituale, personale ed ecclesiale.
Due sono allora le questioni che sembrano emergere in modo chiaro da questo brano evangelico e che noi potremmo formulare con altrettanti interrogativi: Cos’è la vita eterna? E qual è la via per raggiungerla? Dall’affermazione di Gesù comprendiamo che essa non corrisponde all’immortalità (dell’anima) come certuni credono, e neppure alla vita che viene dopo la morte, come promettono tutte le esperienze religiose, ma a quella comunione d’amore che lui condivide col Padre: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio e colui che tu hai inviato: Gesù Cristo” (Gv 17,3). La vita eterna dunque è essenzialmente una vita relazionale, che presuppone una conoscenza, non nel senso filosofico del termine, dove viene ridotta solo a un sapere intellettivo, ma è una partecipazione integrale alla vita di Dio attraverso l’amore, fino a diventare con lui una sola cosa. Da qui l’impossibilità di accedervi da soli, col nostro tipico individualismo spirituale. Si capisce allora che senza la fede in Gesù, compreso come Figlio, non è possibile accedervi: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha inviato” (Gv 6,29).
Ecco allora che l’affermazione di Gesù: “Io sono il pane della vita”, riletta alla luce delle altre dichiarazioni: “Io sono la porta” (Gv 10,9) e “Io sono la via” (Gv 14,6), rivela la coscienza di essere l’unica “via” che consente di prendere parte alla comunione col Padre. Si tratta tuttavia di una relazione di fiducia alla quale non è possibile pervenire senza essere stati chiamati dal Padre: “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,6) o “Nessuno viene a me se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,6.44), perché “Io e il Padre siamo una sola cosa” (Gv 10, 30)[1]. La chiamata di Dio è imprescindibile, fondamentale. Senza di essa nessuna fede in Cristo è possibile, benché meno nell’eucaristia. Si tratta perciò di un dinamismo relazionale nel quale bisogna entrare se si vuole cogliere l’autorità divina di Gesù e il valore profondo del suo dono eucaristico.
A questa comunione d’amore non si giunge in modo idilliaco, ma solo passando attraverso il deserto, ovvero le prove della vita, la cui funzione viene emblematicamente descritta nella prima lettura: “Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame … per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (cf. Dt 8,2-3). Il deserto, nel quale Dio introduce il suo popolo non è appena un luogo geografico, ma una prova necessaria, nella quale viene condotto chiunque decide di intraprendere seriamente un cammino di vita spirituale ed ecclesiale. Si tratta di entrare in una logica di purificazione della mente, del cuore e della memoria, attraverso un cammino di precarietà esistenziale, di nomadismo spirituale e di intelligenza pellegrinante, col quale Dio ci abitua a scoprire l’essenzialità della vita, spogliandoci gradualmente di tutto, perfino del necessario, per giungere solo all’indispensabile. Il deserto nel quale Dio introduce anche noi può assumere diverse forme, come quella di una crisi spirituale personale, con la quale ci educa a scoprire il senso della vita e a maturare le nostre scelte esistenziali. Abituati come siamo a vivere una vita complessa e articolata come la nostra, questa esperienza del deserto ci appare lontana e per certi versi ci spaventa un po’, eppure si rivela quanto mai indispensabile, per prendere coscienza della presenza operante di Cristo in noi, e di quanto egli sia determinate per la salvezza eterna.

È alla luce di questa prolungata introduzione che si coglie la ragione per cui la Chiesa ci fa celebrare la solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo dopo quella della Pentecoste e della Santissima Trinità, come a dire che solo invocando lo Spirito Santo possiamo accedere alla comunione d’amore della vita divina e solo partecipando di questo mistero possiamo cominciare a intuire la profondità abissale del dono d’amore che Gesù ci fa di sé attraverso l’Eucaristia. Paolo, nella sua prima lettera ai Corinzi, ce lo spiega in termini di comunione col corpo di Cristo (cf. 1Cor 10,16-17), condizione fondamentale che porta il discepolo a condividere la stessa logica di vita di Gesù che si fa dono per l’altro. L’Eucaristia diventa allora per noi il volto della trasparenza divina che ci lascia intravedere, sin d’ora, la bellezza della comunione trinitaria e della vita eterna. Essa costituisce perciò il segreto che rende possibile l’unità all’interno della Chiesa e la ragione che fonda e motiva il nostro amore oblativo per l’uomo e per il mondo.
[1] Lo scetticismo dei Giudei nei confronti Gesù ha radici ben più profonde. Esso si fonda su quello verso Dio. Essi infatti non credono in Gesù perché prima di tutto non credono nel Padre, come colui che lo ha inviato: “Voi non avete mai udito la sua voce né avete visto il suo volto, e non avete la sua parola che dimora in voi, perché non credete a colui che egli ha inviato” (Gv 5, 37-38). In altre parole, essi non credono in Gesù perché non sono disposti a riconoscere che le sue opere vengono dal Padre (cf. Gv 10, 30-38; 14, 10-11), al contempo, non credono nel Padre perché non intendono riconoscere l’intima relazione che sussiste tra Gesù e il Padre: “Io e il Padre siamo una sola cosa” (Gv 10,30). Le resistenze e le difficoltà che si provano nell’accedere a questa relazione intima e divina tra Dio e Gesù sono provate anche dal fatto che l’evangelista Giovanni torna spesso sull’argomento, in tutto il suo Vangelo, quasi a lasciarci intendere il modo con cui egli concepisce la fede. Più che un cammino lineare scandito da tappe, essa consiste in una dinamica relazionale, caratterizzata da esperienze sempre più profonde di Dio, che si susseguono con un andamento sinfonico: il Padre rivela l’autorità del Figlio nella comunione dello Spirito (cf. Lc 9,35) e il Figlio rivela l’identità paterna di Dio, nella comunione dello stesso Spirito (Gv 14,11). Fuori da questa relazione ci si espone al rischio dello scetticismo razionale, tipico di coloro che come i Giudei si sottraggono alla comunione d’amore dello stesso Spirito. Giovanni sviluppa questa dinamica attraverso un linguaggio simbolico, dove ogni significato si risolve sulla base di un duplice livello: esteriore e interiore, visibile e invisibile. Essi si richiamano a vicenda, l’uno nell’altro, in modo complementare. Il primo offre una serie di segni che hanno la funzione di orientare il cammino del discepolo verso una progressiva maturazione. Attraverso questi segni Giovanni invita costantemente a compiere il passaggio da una comprensione empirica ad una teologica. Solo chi giunge a questa seconda comprensione ha modo di radicarsi nella fede in Cristo. È a questo secondo livello che lo Spirito ci schiude il significato del pane eucaristico.




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