11 Aprile 2021 - II Domenica di Pasqua Anno B
- don luigi
- 11 apr 2021
- Tempo di lettura: 7 min
At4,32-35; Sal 117/118; 1Gv 5,1-6; Gv 20,19-31
Alle origini della vita nuova in Cristo

Il cammino di conversione, tracciato durante il tempo di Quaresima, trova il suo compimento, nell’esperienza della Pasqua. Questa segna nella vita relazionale di coloro che ne fanno esperienza un’autentica sterzata, determinando l’inizio di una nuova vita, che san Paolo traduce ed esprime in termini di vita nuova in Cristo (cf. Rm 6,4). Non si tratta di una vita diversa rispetto a quella di prima, ma profondamente impregnata della rinnovata esistenza di Cristo. Questi non viene più esperito fisicamente, nella forma storica, ma spiritualmente, in quella gloriosa del Risorto. La sua è un’esistenza ecclesiale che accade nell’amore reciproco dei suoi discepoli ed irraggia nel mondo la vita stessa di Dio.
Prove di questa nuova e reale forma di esistenza di Cristo sono le cosiddette “apparizioni”, che costellano tutto il tempo che va dalla Risurrezione di Gesù, fino alla sua Ascensione al Cielo. Esse sono all’origine dell’esperienza pasquale. Ed è grazie ad esse che i discepoli prendono coscienza di questa nuova esistenza di Cristo. Se c’è dunque una ragione che genera nei discepoli un cambiamento radicale di mentalità e di vita, questa è da individuare proprio nelle frequenti manifestazioni di Cristo, nel vissuto quotidiano dei discepoli.
Su alcune di queste apparizioni ci siamo già soffermati domenica scorsa, come quella alla Maddalena (cf. Gv 20,11-18) e ai Discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13-35), grazie alle quali abbiamo messo in evidenza le condizioni che hanno favorito la percezione (cf. Gv 20,14; Lc 24,31), la comprensione (cf. Gv, 20,16; Lc 24,32) e la partecipazione alla vita gloriosa di Cristo (cf. Lc 24,30;). Ma è soprattutto nel brano dell’evangelista Giovanni e precisamente nella discesa nel sepolcro vuoto (cf. Gv 20,1-10), che noi abbiamo individuato l’atto fondativo e decisivo dell’Evento Pasquale.
Un’esperienza analoga a quella di Giovanni viene compiuta anche da Tommaso, otto giorni dopo la risurrezione di Cristo (cf. Gv 20,26). L’evangelista la esprime con un gesto: “Tendi la tua mano e mettila nel mio fianco” (Gv 20,27), e una brevissima formula di fede: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28). Nel commento che segue cercheremo di sviscerare il senso di queste espressioni, collocandole nel contesto dell’intero brano evangelico e poi anche in quello più generale dell’esperienza Pasquale. Per stimolare la vostra intelligenza spirituale vi propongo di estendere le vostre letture anche alle altre apparizioni, raccontate dagli evangelisti. Sono sicuro che sarà una lettura utile, se non altro per acquisire una familiarità con tali racconti, durante questo tempo pasquale. Per favorire una lettura più intelligente vi suggerisco di andare all’essenza di ogni brano: evidenziando il modo con cui i discepoli giungono alla loro esperienza di fede e alle formule che ne esprimono il contenuto. Una volta compiuta questa operazione potreste approfondire il loro significato, comparandole: indicando le affinità e le differenze. Questo modo di procedere vi aiuterà a mettere a fuoco la vostra personale esperienza di fede, a verificarla sulla base di quella degli apostoli e quindi a capire il modo con cui viverla nella Chiesa.
Per cominciare vi invito fare un esercizio. Esso consiste nel mettere a confronto l’esperienza di Giovanni (cf. Gv 20,3-7) con quella di Tommaso (cf. Gv 20, 25.27). Ciascuno fa una personale esperienza della passione e morte di Cristo: l’uno scendendo nel sepolcro, l’altro mettendo la mano nel costato. Entrambi esplicitano il senso della loro esperienza con una formula: “vide e credette” (Gv 20,8); “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20,28). Una volta compiuto questo esercizio provate a rileggere la vostra esperienza di fede alla luce di quella dei due apostoli; quindi a trascriverla su un quaderno e infine a rileggerla di tanto in tanto, così da ripercorrere con la memoria il vostro itinerario di fede. Vi accorgerete che così facendo i contenuti cominceranno a depositarsi nel vostro cuore e nella vostra mente, fino al punto da diventare luce per i vostri passi e cibo per la vostra vita spirituale.
Introduciamoci ora nel nostro commento con qualche domanda: perché mai Giovanni ci racconta quest’episodio di Tommaso? Cosa intende mettere in evidenza con esso? Come va intesa questa esigenza empirica da parte di Tommaso? Perché egli non si accontenta del racconto degli apostoli? Quale passaggio compie mettendo la mano nella piaga di Cristo? Cosa comporta nella sua vita questa sua esperienza? La risposta a queste domande, ci offre la possibilità di ripercorrere la metodologia rivelativa di Gesù. Stando al Vangelo di Giovanni, Gesù era apparso a Maria Maddalena, il mattino del primo giorno dopo il sabato; mentre secondo il Vangelo di Luca egli, verso l’imbrunire dello stesso giorno, era apparso a due discepoli, mentre facevano ritorno da Gerusalemme ad Emmaus.
Strano modo di manifestarsi quello di Gesù: egli non rispetta i protocolli e neppure le gerarchie, come ci saremmo aspettati. Non si rivela prima a Pietro, in qualità di responsabile della sua comunità ecclesiale; e neppure alla madre, alla quale era legato con un vincolo consanguineo. Predilige la Maddalena, col suo passato alquanto immorale e due discepoli, che per altro non appartenevano neppure alla cerchia ristretta degli apostoli. Solo al termine del giorno di Pasqua appare anche agli undici (cf. Gv 20,19). E lo fa con una formula: “Pace a voi” che ripete per ben tre volte (cf. Gv 20,19.21.26) e un gesto: “mostrò loro le mani e il fianco” (Gv 20,20). Proviamo a commentare questi due aspetti.
La pace che Gesù trasmette ai suoi apostoli non si riduce a quella di un generico saluto amicale; non è neppure quella del mondo che si stabilisce tra le persone e i popoli, durante i periodi di tregua tra un conflitto e l’altro. La pace che egli comunica loro è la definitiva riconciliazione con Dio, che mette fine a quella inquietudine esistenziale originata dal peccato. Agostino ce la lascia intendere quando dice: “Il nostro cuore è inquieto finchè non riposa in te”. Nel Cristo risorto ciascuno ha modo di sperimentare quella pacificazione interiore che mette fine ad ogni tensione, ansia, preoccupazione e paura di vivere. In lui riscopriamo la tranquillità tipica del figlio che vive nella totale fiducia del Padre. Questa pace costituisce la forma più alta del ben-essere umano, quella che gli consente di vivere e realizzare appieno la propria umanità. San Francesco l’aveva intuito perfettamente, coniugandola al “bene”, nella sua celebre formula di saluto: “Pace e bene”.
Col gesto delle mani Gesù mostra invece i segni della passione: gli unici con cui gli apostoli avrebbero potuto ricollegare il Cristo a Gesù. Sono segni che garantiscono la continuità tra Gesù sofferente e il Cristo glorioso. Il Risorto non è un “fantasma” (cf. Lc 24,37.39), ma lo stesso Gesù. Questa nuova esistenza è qualitativamente diversa rispetto a quella storica, ma anche in continuità con essa. Sorprende tuttavia che questi segni permangano, nonostante il corpo abbia subito una profonda trasformazione: da corpo terreno a corpo spirituale. Così come sorprende che Gesù pur disponendo di un corpo spirituale, continui a svolgere alcune attività biologiche, come mangiare (cf. Gv 21,5.12). Questa sua nuova forma esistenziale sfugge alla nostra comprensione razionale, senza tuttavia sottrarsi a quella generata dalla fede.
Ma c’è ancora un altro aspetto che è opportuno evidenziare, prima di commentare l’esperienza di Tommaso. Giovanni lo spiega attraverso un’altra formula, altrettanto pregna di significato teologico: “Stette in mezzo a loro” (Gv 20,19.26). Non c’è altro modo migliore per descrivere quella che potremmo definire la prima “apparizione ecclesiale” di Gesù tra i suoi discepoli. Essa sembra segnare l’apice di tutto un percorso rivelativo. È interessante infatti rilevare, attraverso i brani evangelici sin ora commentati, il modo con cui Gesù dischiude il mistero della sua identità gloriosa: egli si rivela prima alla Maddalena, come a dire la necessità della dimensione personale, quale fondamento di ogni itinerario di fede. Ciascuno è chiamato a stabilire, prima di tutto, un rapporto personale con Cristo. Successivamente si rivela ai due discepoli di Emmaus. Questa ulteriore apparizione sembra invece evidenziare l’amore reciproco, inteso come la luce che fa vedere (comprendere) e rende possibile la presenza di Cristo tra i suoi discepoli. Infine l’apparizione agli undici, quale condizione ecclesiale per renderlo vivo e vero nel mondo. Questo crescendo rivelativo ci lascia intuire le tappe, le condizioni e i criteri per lo sviluppo di una spiritualità ecclesiale.
Ed eccoci finalmente a Tommaso. La sua fede viene di solito definita “empirica”, come sembra emergere dalla sua esigenza: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo” (Gv 20,25). Questa richiesta pare essere confermata anche dall’atteggiamento scettico che egli manifesta nei confronti dell’annuncio dei suoi amici apostoli; proprio come questi si erano mostrati tali all’annuncio della Maddalena (cf. Lc 24,10-11) e a quello dei due discepoli di Emmaus (cf. Mc 16,12-14). In realtà Giovanni, attraverso l’esperienza di Tommaso, non fa che riprendere e oggettivare il percorso di fede che Gesù fa compiere a tutti i discepoli, quando mostra loro le mani e il costato. Egli traccia tale percorso con una serie di verbi: vedere, toccare, credere. Verbi che troviamo alla base di qualsiasi scienza positiva, ma intrisi di una profonda valenza teologica. Tommaso infatti non chiede di toccare il corpo di Gesù, ma le sue piaghe. Ciò significa mettere le mani nella sofferenza di Gesù. La sua fede ha raggiunto un livello tale da non poter essere più soddisfatta dal sentito dire. Non gli basta più quello che dicono gli altri. Egli avverte la necessità di un’esperienza personale. Mettere le mani nel costato significa condividere personalmente la passione e morte di Cristo, aderire alla sua logica salvifica. È qui che accade la salvezza. Qui essa si dischiude alla sua intelligenza. La formula con la quale egli esplicita questo complesso e misterioso processo di comprensione è: “Mio Signore e mio Dio”. Gesù viene compreso come “Signore e Dio”, ovvero come Sovrano che dispone del potere salvifico, tipico di Dio. In lui ha origine la vita eterna.
Quest’esperienza di fede di Tommaso traccia anche il nostro itinerario pasquale. Anche noi siamo invitati a compiere la stessa esperienza di fede: vedendo e toccando le ferite di quanti, in diversi modi e forme, rinnovano nell’oggi dell’umanità la stessa sofferenza di Cristo. È in questa attualizzazione della passione e morte di Cristo che noi veniamo generati in Dio (cf. 1Gv 5,1), partecipando della stessa relazione filiale di Cristo. Essa informa la nostra vita relazionale dell’amore divino, inaugurando un nuovo modo d’essere nel mondo: quello trinitario. La vita ecclesiale che Luca ci lascia trapelare dal suo brano degli Atti, dipende da quanti decidono di sposare la logica relazionale che scaturisce dalla comunione d’amore trinitario. Egli ci dà un’idea di questa realtà ecclesiale quando, nel tratteggiare il suo profilo, ci dice che “la moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune” (At 4,32). L’unità e la comunione dei beni sono i segni distintivi della comunità di Cristo e il criterio di credibilità di ogni comunità ecclesiale. Essi diventano i termini di riferimento coi quali ciascuno è chiamato a confrontarsi. Un’autentica provocazione per quanti, come noi, fanno fatica a liberarsi di quell’individualismo e consumismo culturale che svilisce e rende poco attendibile la fede cristiana.




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