11 Agosto 2024 - Anno B - XIX Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 10 ago 2024
- Tempo di lettura: 8 min
1Re 19,4-8; Sal 33; Ef 4,30-5,2; Gv 6,41-51
Una pericolosa mormorazione

“Allora i Giudei si misero a mormorare contro di lui perché aveva detto: ‘Io sono il pane di vita disceso dal cielo’. E dicevano: ‘Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui conosciamo il padre e la madre. Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?’. Gesù rispose: ‘Non mormorate tra di voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; … Sta scritto nei profeti: E tutti saranno ammaestrati da Dio. Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non che alcuno abbia visto il Padre, ma solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità vi dico: chi crede ha la vita eterna” (Gv 6,41-47).
Dinanzi all’esplicita affermazione di Gesù: “Io sono il pane della vita” che Giovanni ribadisce a più riprese in questo capitolo, i Giudei reagiscono con una strisciante e pericolosa “mormorazione” che li condurrà prima a definire “troppo duro il discorso di Gesù” e poi a prendere la decisione di interrompere la loro sequela (cf. Gv 6,66), come vedremo nelle prossime domeniche. In realtà già domenica scorsa abbiamo accennato a questo atteggiamento, riportando alcune citazioni bibliche, nelle quali la mormorazione appare come una caratteristica del popolo d’Israele, specie durante la sua permanenza nel deserto, nel quale, dinanzi ai disagi che esso comporta, manifesta continue lamentele nei confronti di Mosè e di Aronne, dei quali disapprova la decisione di averli fatti uscire dall’Egitto[1]. Si tratta di un atteggiamento che emerge ogni qualvolta il popolo si trova in una situazione nuova e di bisogno, nelle quali fa fatica perfino a fidarsi di Dio, mettendone in discussione la reale presenza in mezzo a loro, come attesta l’episodio di Massa e Meriba, dove “misero alla prova il Signore, dicendo: il Signore è in mezzo a noi sì o no?” (Es 17,7). Gli autori biblici non esitano a evidenziare questo limite caratteriale degli Israeliti, attribuendolo soprattutto alla loro dura cervice. Neppure Dio rimane insensibile dinanzi ad esso, tant’è che è costretto spesso a intervenire, come ci ricorda il profeta Isaia (cf. Is 42,14-16; 48,4).
Quest’oggi ci soffermeremo in particolare su questo atteggiamento che, a giudicare dei numerosi interventi di papa Francesco, sembra essere un aspetto molto frequente anche tra i cristiani. La mormorazione è un atteggiamento tipico delle persone irrisolte, frustrate, deluse, insoddisfatte delle loro prestazioni, per la mancata realizzazione della loro vita. Esse stanno continuamente a rimproverare gli altri, denunciando i loro errori, accusandole delle disattenzioni nei loro confronti. Tali persone continuano a lamentarsi anche quando ricevono ciò che chiedono. La mormorazione diventa così abituale da non riuscire a vedere già nella mano sinistra ciò che chiedono con la destra. Si tratta di persone poco inclini a considerare i doni di cui dispongono e ricevono, per cui stanno continuamente a rimpiangere quello che non hanno. Si considerano spesso vittime di una mentalità discriminante, in realtà soffrono di evidenti complessi di inferiorità, che trovano particolarmente difficile risolvere attraverso un reale confronto con gli altri e con la realtà, perché alla fin fine è un atteggiamento di comodo, col quale giustificare i loro fallimenti. La mormorazione si manifesta perlopiù in coloro che non avendo il coraggio di esporsi personalmente ed esplicitamente, preferiscono sparlare sotto voce dei loro disagi, piuttosto che denunciarli esplicitamente. A livello giornalistico questo modo di fare viene tradotto con un termine onomatopeico tipicamente napoletano: “inciuciare”, divenuto ormai anche patrimonio del lessico nazionale. Esso dice l’intrigo sotterraneo, fatto per lo più in modo bisbigliato, sottovoce, quasi mai apertamente, col quale si insinua il dubbio e il sospetto verso chi si nutre antipatia, intolleranza, insofferenza. In ambito ecclesiale esso è spesso segno di disagio spirituale e relazionale, nei confronti delle autorità di cui si disapprovano i metodi e scelte pastorali o delle strutture ecclesiastiche considerate obsolete e non all’altezza dei tempi, diventando in non pochi casi motivo di “asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità” (Ef 4,31). Si capisce allora il richiamo di Paolo ai Filippesi, quando dice: “Fate tutto senza mormorazioni e senza dispute (cf. Fil 2,14).
Anche Gesù sperimenta questo atteggiamento nei suoi confronti (cf. Gv 6,43) e, a suo giudizio, esso scaturisce da una mancata conoscenza del Padre e soprattutto da una scarsa vita relazionale con lui (cf. Gv 6,43-44). Tale mancanza impedisce di acquisire quei criteri divini che consentono di comprendere il vero significato dei suoi segni, e quindi di giungere alla comprensione della sua identità divina: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). Solo chi è chiamato da Dio può “ascoltare”, ovvero “comprendere” il senso dei gesti e delle parole di Gesù: “Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me” (Gv 6,45). Non è possibile credere a quello che Gesù afferma di sé senza “essere attirati dal Padre” (cf. Gv 6, 43). Fuori da questa comunione trinitaria, nella quale si viene chiamati dal Padre e resi partecipi dal Cristo per mezzo dello Spirito, non è possibile fare esperienza di fede cristianamente intesa. Solo chi si dispone a questa intima e profonda relazione col Padre nello Spirito può concretamente entrare in sintonia con Cristo.
Già i profeti insistevano su questa fondamentale disposizione verso lo Spirito di Dio, senza la quale tutte le interpretazioni umane, nei confronti di Dio, pur meritevoli di conoscenza straordinarie, risultano vane. Gesù traduce questa disposizione in termini di “chiamata”, riconoscendo a Dio il primato della conoscenza divina. Senza la chiamata di Dio nessuno può entrare in sintonia con Gesù, ancor meno conoscere il significato delle sue parole. Sussiste dunque un legame intimo e profondo e persuasivo fra l’attrazione del Padre, la fiducia personale in Gesù, l’azione rivelativa dello Spirito e la comprensione intellettiva del discepolo. Chi aderisce a questa logica relazionale si ritrova coinvolto all’interno di una dinamica rivelativa che rende partecipe della vita stessa di Dio. È in questa prospettiva che viene colto la dimensione trinitaria e pericoretica della vita divina. Chi entra in questa dinamica di vita viene come istruito direttamente da Dio (cf Gv 6, 44). Nel senso che essa permette di giungere a un tale grado di familiarità con Dio da partecipare direttamente della sua conoscenza (cf. Gv 6,45).
Tra Gesù è il Padre sussiste dunque una tale simbiosi che nel mentre egli esplicita il linguaggio comunicativo del Padre e ne rende manifesta la sua intima e misteriosa volontà salvifica, il Padre rivela a quanti entrano in intimità con lui, l’identità di Gesù[2]. Per questa ragione la conoscenza del Padre non è possibile senza la mediazione di Cristo e la comunione con Cristo non è possibile senza la chiamata del Padre. Egli è l’unico ad averlo visto, in quanto viene da Dio (cf. Gv 6,46). La conoscenza che egli svela è perciò motivo di salvezza. Questa conoscenza straordinaria che Gesù ascrive a se stesso diventa per i Giudei motivo di contesa. La cosa più inaudita, infatti, per loro non è tanto il segno dei pani, quanto l’aver affermato: “io sono il pane disceso dal cielo” (Gv 6,41). È questa identificazione col ‘pane salvifico’ che diventa per loro motivo di mormorazione. Essa suona alle loro orecchie come un’orgogliosa presunzione dal sapore di bestemmia. In realtà anche Mosè, come gli fanno notare, diede agli ebrei un pane che veniva dal cielo[3], ma non osò minimamente giungere ad identificarsi con esso, come invece fa Gesù. Da qui la loro mormorazione: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?” (Gv 6,42). Essi fanno appello solo alla loro esperienza personale e alle loro conoscenze familiari e non si lasciano neppure sfiorare dall’idea di verificare cosa attesti la vericità delle parole di Gesù[4]. Per loro la sua affermazione è solo un atto di presunzione. Per Gesù invece essa viene comprovata dal segno dei pani che l’ha preceduta. Da qui la necessità di interpretare l’affermazione di Gesù alla luce del segno dei pani e di comprendere quest’ultimo alla luce della sua affermazione.
È chiaro allora che il cibo di cui parla Gesù non è solo quello che si presenta sotto le specie del pane e del vino, ma soprattutto della Parola che esce dalla sua bocca (cf. Mt 4,4). È essa che dà senso alla nostra esistenza. Pertanto, oggi più che mai, la sua Parola ci interpella fortemente, chiedendoci di scrollarci di tutta quella sovrastruttura culturale e devozionistica che mentre dà per scontata la divinità di Cristo ci impedisce di cogliere il senso autentico delle sue dichiarazioni: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51): ecco l’affermazione che scuote la nostra intelligenza, invitandoci a dare ragione della nostra fede in lui. Si tratta di affermazioni di un uomo presuntuoso, come ritennero i Giudei (cf Gv 6, 42s), oppure di un testimone autentico della vita divina del Padre? È a questa domanda che, allora come oggi, siamo chiamati a dare una risposta. Ed è in questa risposta che ci mettiamo in gioco ed esponiamo al rischio la nostra esistenza. Solo chi ha il coraggio di credere in lui ha modo di portare a termine, come Elia, il cammino della propria esistenza e giungere fino al monte di Dio, ovvero alla pienezza della vita eterna, nella comunione d’amore con lui (cf. 1Re 19,7-8).
[1] Basterebbe leggere i racconti dell’esodo nei vari libri del Pentateuco, per renderci conto di quanto fosse frequente questo atteggiamento.
[2] Non è facile esplicitare questa dinamica rivelativa di Cristo. L’evangelista Giovanni si sforza continuamente di farlo attraverso una metodologia argomentativa circolare, nella quale si susseguono, senza soluzione di continuità, disposizioni umane e rivelazioni divine. Esse convergono interagendo l’una con l’altra e l’una nell’altra, fino a creare un’inscindibile sinergia tra la rivelazione dello Spirito e l’intelligenza dell’uomo. Entrare in questa dinamica rivelativa significa partecipare di quella vita relazionale trinitaria che a giudizio di Giovanni consente di sperimentare la salvezza già nell’oggi della fede in Cristo. La relazione con Cristo diventa perciò non solo fonte di conoscenza divina, ma anche luogo di salvezza. La conoscenza che egli consente di acquisire attraverso la sua rivelazione non si riduce solo ad un appagamento intellettivo, ma diventa essa stessa fonte di vita eterna. Chi si nutre di essa, o meglio, “chi mangia di questo pane vivrà in terno” (Gv 6,51).
[3] La manna benché sia un fenomeno naturale, viene interpretata dai Giudei come un segno proveniente dal cielo, di cui Mosè è riconosciuto mediatore e artefice. Un fenomeno che per quanto sia perfettamente spiegabile sotto il piano razionale e scientifico, conferisce a Mosè un’autorevolezza divina incontestabile. Agli occhi dei Giudei ciò che avalla il gesto compiuto da Mosè è la prodigiosità dell’intervento: in pieno deserto egli è stato capace di far scaturire la manna attraverso un gesto miracoloso. Nel caso di Gesù, invece, il prodigio, senz’altro straordinario, anzi ancora più prodigioso di quello mosaico, sembra passare in secondo piano a favore del significato che lui gli attribuisce. Per Gesù il gesto è solo un pretesto per affermare in modo chiaro e inequivocabile: “Io sono il pane di vita eterna”. Egli non si limita a dare solo un pane, come fa Mosè, ma a dare se stesso, o meglio a consegnare se stesso nel pane. Il pane è lui stesso. In questo senso, poiché egli viene dal Padre, è “il pane vero che viene dal cielo”, l’unico capace di garantire la vita eterna.
[4] La conoscenza che i Giudei presumono di avere della vita quotidiana di Gesù viene assunta a criterio di giudizio nei suoi confronti. In realtà questo criterio è lo stesso che anche noi usiamo nei confronti degli uomini di Dio nell’oggi. È inutile nasconderlo: l’umanità di Gesù ci scandalizza. Siamo molto più propensi a credere in un “uomo perfettamente Dio” che in un “Dio semplicemente uomo”. Pur riconoscendo Gesù come Dio, siamo ancora lontani dal riconoscere Dio come Gesù. E Cristo non è uomo fatto Dio, ma Dio fatto uomo. Questo è lo scandalo dell’incarnazione. Questo è lo scandalo della nostra fede. Il che significa che non ci si può fermare allo scandalo provocato dalle sue parole, ma cogliere le ragioni che lo spingono a fare affermazioni così inaudite. E per farlo occorre aprire il proprio cuore e la propria intelligenza all’azione rivelativa del Padre: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato (Gv 6, 43). Occorre cioè entrare in una relazione di fiducia che non è mai cieca, ma, al contrario, si fonda su una capacità di lettura critica ed ispirata dei gesti.




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