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10 Ottobre 2021 - XXVIII Domenica del Tempo Ordinario Anno B


Sap 7,7-11; Sal 89/90; Eb 4,12-13; Mc 10,17-30


Quello sguardo d’amore infinito



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“Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e disse: una sola cosa ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi! Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò triste” (Mc 10,21-22). Questa citazione che prendiamo dal Vangelo di Marco, sembra qualificare l’alveo entro cui ogni vocazione nella Chiesa ha origine, senso e fine. Fuori da questo sguardo d’amore di Cristo, ogni scelta di sequela, sia pure la più sacra, rischia di rivelarsi solo una iniziativa umana, e quindi destinata al fallimento, come si evince dal brano.

Ma proviamo a ricostruire la scena evangelica, per evitare che questo principio rimanga astratto e avulso dalla realtà quotidiana. Essa ci riferisce di “un tale” (Mc 10,17) che Marco preferisce lasciare nell’anonimato per tutto la durata del racconto, benché abbia avuto con Gesù un colloquio, come pochissimi altri. I vangeli ci raccontano di questi colloqui di Gesù solo in casi eccezionali, neppure di quelli che Gesù ebbe con tutti gli apostoli. In questo caso Marco invece si sofferma su di esso, come a voler attirare la nostra attenzione, su un aspetto decisivo a ogni forma vocazionale. Ebbene questo “tale” gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio, gli domandò: “Maestro buono cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10,17). Una domanda fondamentale quella che motiva l’incontro di questo tale con Gesù, ma che sembra aver perso ogni mordente e interesse nell’attuale contesto sociale e perfino religioso; alla quale forse faremmo bene a prestare maggiore attenzione, specie quelli che sono abituati a “consumare” tutta la propria esistenza nel “qui ed ora” della vita terrena. La “vita eterna” è una domanda decisiva per chi intende dare un senso a quella presente. Se non ci sovviene significa che riteniamo la vita presente l’unica forma di vita da vivere.

Chi la pone in questo caso non è un peccatore che chiede di cambiare vita, ma un pio ebreo osservante. Egli non chiede di passare dal male al bene, ma dal bene al meglio. Non si tratta di una svolta morale, ma religiosa e spirituale. Una sorta di ‘nuovo esodo’, col quale Marco sembra volerci descrivere il passaggio dalla fede mosaica alla fede cristiana. L’evangelista tratteggia la situazione di chi è giunto al limite di un sistema religioso, per il quale ha dato l’anima, ma che si rivela limitato e inappagante. Quel tale è come animato da ‘un più’ che nessuno riesce più ad offrirgli. Da qui l’idea di rivolgersi a Gesù. Ma lo fa in modo concitato, con affanno, tipico di chi è giunto al collasso di un’esperienza religiosa e morale fallimentare, della quale non regge più il peso. Perciò in ginocchio, come a prostrarsi, si getta ai piedi di Gesù, supplicandolo. Gesù nel vederlo prova compassione per lui. Lo ascolta e saggiandolo lo riporta all’origine della sua scelta religiosa, facendogli fare memoria del suo itinerario morale e spirituale, attraverso l’osservanza dei comandamenti, che lui subito precisa di aver vissuto fedelmente: “Maestro tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza” (Mc 10,20). È importante questa operazione. Dinanzi alle grandi scelte esistenziali, si rivela decisivo ripercorrere a ritroso i momenti fondamentali della nostra vita. Riandare alle origini delle nostre decisioni, significa capire la ragione originaria che motiva ogni nostra scelta. Solo lì ritroviamo il senso della nostra esistenza e la forza per continuare a perseverare nelle vicende della vita.

Una volta verificata questa condizione, Gesù gli propone di compiere un passaggio ardito, non più determinato da un atto di volontà, nella quale lui era più che ferrato, ma da una scelta di libertà. Gli chiede di passare da una religione precettistica, fondata sull’imperativo categorico: fai! Che induce ad assoggettarsi ai precetti religiosi e alle prescrizioni morali, ad una vita di fede animata dalla libertà dell’amore evangelico. La legge è stata fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge (cf. Mc 2,27), sembra ribadirgli Gesù. Ecco la nuova dimensione religiosa relazionale alla quale Gesù intende portarlo e per la quale egli si rivela impreparato.

La mentalità religiosa che aveva ereditato dal suo ambiente e nella quale egli era cresciuto, lo aveva abituato a concepire la vita eterna come la ricompensa dei suoi impegni morali, una sorta di premio finale, conquistato per mezzo della sua volontà individuale. Lo voglio, dunque l’ottengo. È il motto di quelli che fondano tutto sulla forza di volontà. Gesù invece lo disarma con un atteggiamento che lo porta all’origine e all’essenza dell’esperienza religiosa. E lo fa senza proferire una parola: “fissatolo lo amò”. Con uno sguardo intenso e pregno d’amore, Gesù lo rende partecipe di quella bontà di Dio che lui riconosce anche a Gesù, tanto da chiamarlo: “Maestro buono” (Mc 10,17).

“Fissatolo lo amò”, non è un sentimento, sia pure profondo, che Gesù prova per quel tale, ma la condizione fondativa che precede, favorisce e accompagna tutte le scelte fondamentali della vita. Nessuna decisione, ancora meno quella di salvarsi, può compiersi fuori dall’amore di Dio. Fuori da questo amore la salvezza è solo una proiezione religiosa di un desiderio umano. Col solo sguardo Gesù gli fa capire che la salvezza non era il risultato dei suoi sforzi religiosi e neppure delle sue virtù morali, ma un dono gratuito di Dio. Semmai avesse voluto fare ancora qualcosa, allora gliene rimaneva solo una: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri … poi vieni! Seguimi!” (Mc 10,21).

Una richiesta questa di Gesù che gli “trafigge” il cuore, come una spada a doppio taglio che giunge fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, fino a discernere i sentimenti e i pensieri più profondi del cuore (cf. Eb 4,12); come le parole di Simeone a Maria (cf. Lc 2,35) e di Pietro agli astanti durante il suo discorso nel giorno di Pentecoste (cf. At 2,37), ma che a differenza di costoro egli si sottrae, perché incapace di resistere all’amore. Quanto è difficile per chi è abituato ad immaginare l’amore solo come un’attività pastorale o addirittura ‘fisica’, lasciarsi amare gratuitamente da qualcuno. Eppure la salvezza è tutta qui, come ribadisce il celebre passo di Isaia: “O voi tutti assetati venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente; comprate e mangiate senza denaro” (Is 55,1). Per salvarsi non occorre realizzare una straordinaria impresa religiosa o compiere chissà quale sacrificio morale, basta lasciarsi amare da Dio … gratuitamente. Quel tale, invece, si era impegnato ad osservare i comandamenti, ma non ad amare Dio, ancor meno a sentirsi amato da lui. Lasciarsi andare all’amore di Dio, era ciò che mancava a quel tale. È questa la svolta alla quale lo conduce Gesù, ma lui abituato solo ad osservare i precetti, trova difficile lasciarsi liberare dall’amore.

La richiesta di Gesù lo aveva frastornato, disorientato, confuso. All’improvviso tutta quell’architettura religiosa che si era faticosamente costruita negli anni e che gli aveva fatto credere d’essere un uomo pio, zelante, diligente, volenteroso, capace di ottenere tutto ciò che voleva, viene a cadere sotto i colpi dell’amore gratuito, libero e liberante di Gesù. La percezione della libertà lo sconvolge, lo destabilizza. Abituato com’era ad avere tutto schematizzato, prestabilito e ad eseguire solo quello che gli altri decidevano per lui, per la prima volta si ritrova catapultato nella dimensione della libertà. Un’esperienza inebriante, da vertigini, da estasi che solo chi è abituato a stare in Dio può sostenere. Ma dinanzi a questo abisso di libertà scopre di aver paura d’amare. La gratuità, la libertà, l’amore, si rivelano per lui beni molto diversi da quelli che era abituato a gestire. Esse sfuggono al suo controllo. Perciò si ritrae. Così, quell’incontro che lo aveva condotto sull’abisso dell’amore si vanifica nel nulla. Incapace di fidarsi di Cristo, non riuscì a varcare la soglia della libertà.

Dinanzi ad un simile epilogo Gesù coglie l’occasione di fare una considerazione alquanto dura: “Quanto è difficile per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!”. E come se ciò non bastasse rincara la dose con uno dei suoi paradossi: “E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio” (Mc 10,24-25). Dinanzi a simili affermazioni i discepoli, costernati dicono: “E chi mai può essere salvato” (Mc 10,26). Ma Gesù, quasi ad intuire il loro panico, riaccende in loro la speranza: “Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché a Dio tutto è possibile” (Mc 10,27). È interessante notare che gli apostoli non dicono: “E chi mai può salvarsi?”, bensì: “Chi di noi può essere salvato?”. Marco sembra voler farci capire che la situazione dei discepoli non è più quella del tale che domanda: “Cosa devo fare”, come se la salvezza dipendesse da loro, ma essi hanno capito che dipende da Dio.

Anche noi come quel “tale” ci ritroviamo ad aver ereditato una dimensione religiosa cristiana che per vari motivi abbiamo ridotto solo ad una tradizione culturale. Una tradizione che per quanto conservi ancora qualche elemento positivo, necessita di essere rinnovata dall’interno, attraverso una svolta che solo un autentico amore evangelico può compiere. Pertanto se qualcuno dovesse trovarsi in una situazione morale tale da essere indotto a ritenere impossibile la propria salvezza, non perdi mai la speranza: Dio è più grande di ogni peccato. E se dovesse capitare di trovarci, come quel “tale”, ad un passo dalla libertà, dalla riconciliazione con Dio, dalla salvezza, non esitiamo a fidarci di Cristo, egli è più grande delle nostre paure. Non permettiamo al nemico di precluderci la possibilità di varcare la soglia dei nostri dubbi, delle nostre resistenze, delle nostre idee: Cristo è più grande delle nostre convinzioni. E per chi come Pietro dovesse rimanere ancora perplesso della propria scelta di vita, tanto da ribadire a Cristo: “Ecco noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito” (Mc 10,38), a costui Gesù conferma ancora una volta la sua parola: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato … per causa mia e del Vangelo che non riceva già ora … cento volte tanto” (Mc 10,29-30). Tuttavia solo chi ha il coraggio di considerare la propria sapienza culturale e religiosa “spazzatura”, come amava affermare san Paolo (cf. Fil 3,8), ha la possibilità di giungere a cogliere la vera Sapienza, dinanzi alla quale i tesori più inestimabili e perfino la salute, la bellezza, la luce risultano solo un po’ di sabbia (cf. Sap 7,7-11).

Chi dona con amore riceverà amore, chi si dona per amore riceverà la vita eterna, ovvero la pienezza della vita divina … insieme a persecuzioni. Ecco lo specifico dell’amore evangelico. Esso non è mai idilliaco, ma sempre attraversato dalla croce. È questa la via dell’amore, dell’amore paradossale di Dio. Perciò non abbiate paura di essere liberi.

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