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10 Novembre 2024 - Anno B - XXXII Domenica del Tempo Ordinario


1Re 17,10-16; Sal 146/145; Eb 9,24-28; Mc 12,38-44



Una fede no limits


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Bernardo Strozzi, Il profeta Elia e la vedova di Zarepta (1630), Kunsthistorisches Museum di Vienna.

“Seduto di fronte al tesoro (Gesù), osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva … per vivere” (Mc 12,43-44).

“Elia si alzò e andò a Zarepta. Entrato nella città vide una donna … la chiamò e le disse: Prendimi un po’ d’acqua in un vaso perché io possa bere. Poi … le gridò: Prendimi anche un pezzo di pane. Quella rispose: “… non ho nulla … ho solo un pugno di farina … e un po’ di olio … preparo (una focaccia) per me e mio figlio: la mangeremo e poi moriremo. Elia le disse: “Non temere, fa come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela … poiché dice il Signore: “La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà”. “Quella andò e fece come aveva detto Elia. Mangiarono essa, lui e il figlio per diversi giorni” (1Re 17,12-15).

Dopo l’episodio del “notabile ricco” (cf. Lc 18,18-30), o più semplicemente del “tale”, come lo definisce Marco 10,17-20, col quale – qualche domenica fa – abbiamo imparato a conoscere i rischi a cui ci espone la ricchezza e la relazione evangelica che siamo chiamati a stabilire con essa, la Liturgia ci propone, quest’oggi, due brani biblici che trattano di un argomento totalmente opposto: la povertà. Si tratta di due brani dal contenuto piuttosto simile, sebbene siano caratterizzati da trame narrative del tutto diverse e ambientati in contesti geografici altrettanto diversi. Il primo brano riguarda, una vedova gerosolomitana, contemporanea di Gesù; il secondo, invece, ci riferisce l’episodio della vedova di Zarepta[1] di Sidone, avvenuto nel IX secolo a.C. Due casi in cui sono protagoniste due donne, entrambe vedove – prive cioè di qualsiasi forma di assistenza familiare e sociale – e entrambe ritratte in una situazione di estrema povertà.

Dinanzi a questa proposta biblica viene da chiedersi: come mai la Liturgia ci offre questi due episodi? Su che cosa intende farci riflettere? Nel tentativo di rispondere a queste domande proviamo a zumare la nostra attenzione, cominciando dall’episodio della vedova di Sarepta. L’autore del primo libro dei Re – dal quale l’episodio è tratto – ci informa che questa donna, giunta all’estremo della propria indigenza, incontra un uomo che noi sappiamo essere il profeta Elia, il quale mosso dalla fede nella parola di Dio (cf. 1Re 17,9-10), si accosta a lei per chiederle da bere, e lei, malgrado tutto, non si sottrae alla richiesta, manifestando in questo modo quell’ospitalità tipicamente semitica. Elia, tuttavia, non si ferma qui, ma comincia pian piano ad essere più esigente. Dopo l’acqua le chiede: “Prendimi anche un pezzo di pane” (1Re 17,11). La donna a questa ulteriore richiesta, avrebbe potuto reagire lamentando la propria condizione, o brontolando, come di solito facciamo con chi non si accontenta di quello che gli diamo, e invece rimane sorprendentemente mite. Ciò però non le impedisce di far presenta la sua situazione: “non ho nulla … ho solo un pugno di farina … e un po’ di olio … preparo (una focaccia) per me e mio figlio: la mangeremo e poi moriremo” (1Re 17,12). A queste parole il profeta soggiunge: “Non temere, fa come hai detto, ma prepara prima una piccola focaccia per me e portamela …”. Notate la disponibilità di Elia a lasciarsi raccontare la grave situazione descrittale dalla vedova e la delicatezza che mostra nel lasciarla libera di fare ciò che ritiene necessario: “fa come hai detto”. Ciò nonostante non desiste dal metterla alla prova: “ma prepara prima per me una focaccia”. Come a dire: sentiti pure libera di fare come dici, ma prima fidati della parola di Dio e vedrai che avrai il centuplo (cf. Mt 19,29). “Poiché dice il Signore: La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà” (1Re 17,14). “Quella andò e fece come aveva detto Elia”. Per essersi fidata “Mangiarono essa, lui e il figlio per diversi giorni” (1Re 17,15).

L’episodio evangelico invece viene collocato all’interno del tempio di Gerusalemme, dove Gesù, “osservando la folla che gettava monete nel tesoro”, viene colpito dal gesto di una povera vedova, che nel compiere la sua offerta, dona solo due monetine. Il gesto potrebbe apparirci insignificante e proporzionato alla sua condizione sociale. Quanti poveri facevano offerte che rimanevano del tutto trascurate e ignorate dalla gente o irrilevanti per attirare la loro attenzione. Invece Gesù, nel commentarlo ai suoi discepoli, fa notare l’estrema generosità di questa donna, e dice: “questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva … per vivere”.

Gli episodi descrivano chiaramente due situazione di estrema povertà, piuttosto comune a quei tempi. Ma noi ci chiediamo: è possibile che i due narratori si siano limitati a trasmetterci solo due fatti di cronaca? Oppure il loro intendo era diverso? In realtà prendiamo atto che essi sono solo un pretesto per invitarci a riflettere sulla nostra fiducia in Dio, specie nelle situazioni limiti della vita. Fino a che punto ci fidiamo di Dio quando ci ritroviamo in situazioni di estrema povertà, nelle quali sperimentiamo di aver esaurito ogni possibilità di appellarci alle nostre risorse. Anche la povertà, al pari della ricchezza, se mal vissuta, rischia di precluderci il nostro cammino di fede. Per alcuni, infatti, essa viene percepita come una forma di ingiustizia sociale e come tale costituisce solo un motivo di sofferenza, atta a provocare sentimenti di rabbia, disprezzo, invidia nei confronti degli altri. Per altri, invece, la stessa povertà, si rivela come un’occasione provvidenziale. Vissuta nella fede può essere trasformata da limite sociale a possibilità di crescita spirituale. Ed è proprio in questa prospettiva che siamo chiamati a interpretare questi due casi biblici. La povertà può diventare così una situazione di cui il Signore si serve per verificare il limite della nostra fiducia in lui. Si tratta, allora, di una situazione estrema, necessaria per il progresso della nostra fede, senza la quale rischieremmo di avere una fede blanda e superficiale. Per aver creduto alla parola del profeta, la vedova di Zarepta sperimenta una nuova forma di benessere, che va oltre ogni rosea immaginazione. Questo è ciò che fa la provvidenza: crea nuove possibilità, là dove solo fino a qualche attimo prima sembrava non esserci alcun margine di soluzione. È in queste circostanze quotidiane che Dio entra a far parte della nostra vita, in modo concreto e stabile, generando una relazione vera, autentica e personale.

La situazione di queste due vedove si rivela allora un motivo di riflessione personale: anche a noi accade di sperimentare situazioni simili nelle quali, proprio quando ci sentiamo all’estremo delle nostre possibilità, Dio sembra rivelarsi più esigente che mai. Vorremmo sottrarci al peso di quella richiesta, e invece proprio essa si rivela decisiva per la fede in lui. Una situazione analoga è anche quella capitata a Giairo, capo della sinagoga di Cafarnao, il quale si recò da Gesù per chiedergli di guarire la figlia che stava per morire, ma proprio quando stava manifestando a Gesù la sua richiesta, venne a sapere che sua figlia era morta. In preda alla disperazione Gesù gli disse: “Non temere, continua solo ad avere fede”. Anche a noi il profeta, o chi per lui, ci dice: “Non temere, Dio è più grande della tua povertà, della tua difficoltà, della tua ansia, della tua preoccupazione. Abbi il coraggio di fidarti di lui, anche quando le evidenze dicono il contrario e vedrai che la farina, ovvero la fede nella giara del tuo cuore non si esaurirà e l’olio, ovvero la speranza nell’orcio del tuo animo non diminuirà (cf. 1Re 17,14). Dona le ultime tue monete, ovvero le tue ultime forze, le tue ultime possibilità, le tue ultime speranze a Dio, convinto che proprio in questo atto di estrema generosità Dio rivela tutta la potenza della sua provvidenza. Fidati di lui, come la vedova nel tempio. Consegna a lui ogni tua preoccupazione perché egli ha cura di te (cf. 1Pt 5,7).

Alla luce di queste considerazioni si capisce allora la ragione per cui Gesù, nella prima parte del nostro brano evangelico, dica alla folla: “Guardatevi dagli scribi che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze …”, come a dire: “Guardatevi dal lievito dei farisei” (Lc 12,1), ovvero dall’ipocrisia e dal quel formalismo religioso che di fatto preclude lo sviluppo della fede, riducendola all’osservanza esteriore dei precetti e delle norme, ma impedisce al cuore di aderire totalmente alla volontà di Dio.  La fede, sembrano volerci dire questi due brani, non dipende dall’osservanza della legge, né dalla pratica dei precetti, ma dalla fiducia nella parola di Dio e dal totale affidamento a lui. San Paolo ci dice che occorre stare attenti a vivere bene la religiosità, poiché “ciascuno raccoglie quello che semina” (Gal 6,7).

Tutto questo discorso viene tradotto dall’autore della lettera agli ebrei in linguaggio liturgico ed esistenziale, secondo il quale l’atteggiamento che siamo chiamati ad assumere nella fede non è appena quello di donare qualcosa di nostro, ma consegnare tutto se stessi a Dio, come Cristo. Anche a noi Dio non chiede qualcosa di proprio, ma la nostra vita (cf. Eb 9,26-28). È attraverso questo gesto di consegna estrema che Dio compie la salvezza nostra e quella delle persone intorno a noi.

 

[1] Zarepta – oggi conosciuta col nome di Sarafand, era una cittadina portuale dell’antica Fenicia, che si trovava a metà strada tra Tiro e Sidone (odierno Libano).

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