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10 Marzo 2024 - Anno B - IV Domenica di Quaresima



2Cr 36,14-16.19-23; Sal 136/137; Ef 2,4-10; Gv 3,14-21


La croce: via della risurrezione


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Walter Rane, Gesù e Nicodemo, Collezione privata

“Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,14-15).

Quest’affermazione di Gesù ci offre l’occasione per mettere a fuoco il tema della quarta domenica di Quaresima. Giunti a questo punto del nostro cammino spirituale, avvertiamo come l’esigenza di fare una verifica: facendo memoria dei temi e delle tappe finora affrontati. Forse questi temi e tappe sono già chiari alla maggioranza, ad altri invece lo saranno di meno. Da qui l’idea di ricapitolarli per costoro, almeno nelle linee essenziali.

Un sottile filo conduttore lega i brani liturgici di questo tempo quaresimale, attraverso i quali la Chiesa sembra volerci dischiudere il piano teologico che giustifica il cammino spirituale che stiamo compiendo. Pertanto al tema della Conversione e dei relativi strumenti per metterla in atto, come il digiuno, la preghiera e l’elemosina – propri della prima settimana – sono seguiti gli episodi profetici ed escatologici della Trasfigurazione e del Gesto di Gesù nel Tempio – della seconda e terza settimana – episodi che ci hanno non solo lasciato intravedere la gloriosa vita della Risurrezione, ma perfino offertaci la possibilità di parteciparla, già nell’oggi della nostra fede in Cristo. Queste tappe rischierebbero di rimanere irrisolte se non avessimo chiara la “via” concreta da percorrere, per portarle a compimento. Questa via è quella della croce. Si profila così il tema della quarta tappa del nostro cammino di conversione, che noi individuiamo appunto in questa affermazione di Gesù, tratta dal Vangelo di Giovanni: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”.

Quelle appena citate sono le parole che Gesù rivolge a Nicodemo, durante un colloquio notturno, di cui ci informa l’evangelista Giovanni. Si tratta di un colloquio tutto incentrato sul battesimo, nel quale Gesù spiega a Nicodemo le condizioni per comprendere la sua messianicità e il modo per conseguirne la salvezza. Dinanzi alle evidenti difficoltà che Nicodemo manifesta nel cogliere il simbolismo battesimale, Gesù ricorre all’immagine veterotestamentaria del “serpente di bronzo”, fatto realizzare da Mosè, su suggerimento di Dio, per salvare il popolo da una tragica invasione di serpenti velenosi che lo avevano letteralmente decimato: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita” (Nm 21,8). Gesù usa questa immagine come metafora della sua “passione e morte”, come a dire che senza la disponibilità a morire a se stessi, difficilmente Nicodemo avrebbe potuto capire il simbolismo battesimale, quale condizione previa della salvezza che lui era venuto a portare.

Si chiariscono così anche per noi le condizioni per sperimentare la nostra salvezza in Cristo: non basta riconoscerlo come maestro venuto da Dio, come fa Nicodemo: “nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui” (Gv 3,2), ma occorre essere disponibili a seguire le condizioni previste da Gesù e che Giovanni sembra delineare in queste due affermazioni, apparentemente simili tra di loro: “Se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio” (Gv 3,3); e “Se uno non nasce da acqua e Spirito non può entrare nel regno di Dio” (Gv 3,5). L’uso di questi due verbi: “vedere” e “entrare”, ci fa capire la duplice forma di conversione che siamo chiamati ad attuare. La prima prevede una ‘conversione mentale’, che consiste nel ‘pensare come Gesù’ e quindi nel condividere la logica della sua croce. È grazie ad essa che cominciamo a vedere il regno di Dio, ovvero a intuire la realtà verso la quale Gesù ci invita a volgere la nostra vita. La seconda tappa prevede una ‘conversione morale e spirituale’ che consiste nel ripercorrere concretamente, insieme a lui, la via della “passione e morte” di sé. È a queste condizioni che noi “nasciamo dall’alto”, nel senso che veniamo nuovamente “generati da Dio” (cf. Gv 1,12-13) a livello spirituale. La crocifissione, preannunciata a Nicodemo, dunque, lungi dall’essere ridotta solo a una forma di supplizio, viene vista da Gesù, paradossalmente, come un ‘segno di attrazione’: “Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Il significato del termine “innalzamento” a cui si riferisce Gesù, in questo caso, non è quello fisico della croce sulla quale viene elevato, ma quello teologico dell’esaltazione gloriosa proveniente dalla risurrezione. Questo fatto si rivela determinante per comprendere l’identità divina di Cristo: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono[1]” (Gv 8,28). È chiaro dunque che ad attirare l’attenzione non è la croce in sé – che rimane comunque una forma di supplizio riluttante e ripugnante – ma la disponibilità di Gesù a dare la sua vita per noi: “Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici” (Gv 15,13). La croce diventa così la massima manifestazione dell’amore di Dio, il quale “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16). In tale senso come Mosè trasformò il serpente da simbolo del peccato in simbolo di salvezza, cosi Cristo trasforma la croce da simbolo di morte in simbolo di redenzione.

Giunti a questo punto del nostro commento, notiamo che Giovanni, come è suo solito, non si limita alla sola descrizione dell’episodio o a registrare semplicemente le parole di Gesù, ma si inoltra in una personale riflessione teologica, con la quale cerca di scrutare il significato profondo delle affermazioni di Gesù, dalle quali, in questo caso, fa scaturire una chiara considerazione sulla fede, che consiste nel riconoscere Gesù come il Figlio che “Dio ha mandato nel mondo non per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17). Pertanto “chiunque crede in lui ha la vita eterna” (Gv 3,15). Aderire alla via della croce diventa allora motivo di salvezza. Il rifiuto di questa condizione rischia invece di precludere una simile possibilità: “Chi crede non è condannato, ma chi non crede è già condannato” (Gv 3,18). Un’affermazione questa che sembra evocare la profezia del vecchio Simeone: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2,34-35). Agli occhi di Giovanni Gesù diventa un vero e proprio spartiacque, dal quale dipende la “rovina” o la “risurrezione” di molti. L’una o l’altra possibilità scaturisce dalla fede in lui e soprattutto dall’adesione alla logica della croce, alla cui luce saranno svelati “i pensieri di molti cuori”, nel senso che essa costituisce il criterio sapienziale per verificare la loro autenticità. Il rifiuto, da parte di alcuni, di confrontarsi con questa logica, lascia intendere che essi non solo “preferiscono le tenebre alla luce”, ma intendono perfino impedire che venga verificata l’autenticità delle loro opere “perché erano malvage”. Diversamente, “chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (cf. Gv 3,19-21).

La questione nevralgica dunque non è la salvezza alla quale tutti in un modo o in un altro aspiriamo – c’è chi parla addirittura di salvezza laica, come una sorta di autoliberazione umana – ma la salvezza che Dio offre a ciascuno per mezzo di Cristo. Egli costituisce il criterio e la cifra della salvezza di Dio. Ecco lo zoccolo duro di tutto il discorso che Nicodemo e tanti come lui, faticano a comprendere. Gesù si propone a Nicodemo come “l’unigenito Figlio di Dio nel quale c’è salvezza” (cf. Gv 3,16). Questa affermazione che per noi è del tutto scontata, suona alle orecchie di Nicodemo come un’autentica pretesa, dalla quale però lui, a differenza dei farisei suoi colleghi, si lascia interpellare. L’atteggiamento di Nicodemo diventa perciò emblematico per quanti, come lui, intravedono in Gesù la presenza di Dio: “sappiamo che sei venuto da Dio …”, ma non hanno il coraggio di decidersi definitivamente per lui. Questo timido atteggiamento di Nicodemo riflette molto da vicino quello che anche noi assumiamo durante il nostro cammino di conversione, quando ci scopriamo impauriti e insicuri dinanzi alle opinioni e ai pregiudizi della gente su Gesù. Convertirsi comporta allora lo sforzo di uscire da questi luoghi comuni e lasciarsi condurre, come dice Gesù, dallo Spirito. Egli opera sì in modo misterioso, tanto da non sapere “da dove viene dove va” (Gv 3,8), ma la sua guida si rivela determinate. È lui che illuminando la nostra mente, ci persuade interiormente a riconoscere la verità di Cristo. È lui che ci fa capire che la salvezza non è il risultato dei nostri meriti, ma dono di grazia mediante la fede: “per grazia siete stati salvati” (Ef 2,5). “Essa non viene da noi, né viene dalle nostre opere, perché nessuno possa vantarsene” (Ef 2,9). La conversione allora è vera solo se accade a queste condizioni. Diversamente ogni percorso spirituale, per quanto sincero, pio e devoto, rischia di ridursi solo ad una pratica gnostica, intimista e devozionista che non determina alcuna svolta esistenziale e spirituale.  


[1] “Io Sono” è il nome con cui Dio si rivela a Mosè: “Io sono colui che sono” (Es 3,14).

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