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10 Dicembre 2023 - Anno B - II Domenica di Avvento


Is 40,1-5.9-11; Sal 84/85; 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8


Le Voci dell’Avvento



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“Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli preparerà la tua via. Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddirizzate i suoi sentieri” (Mc 1,2-3).

È con questa solenne proclamazione profetica, tratta dal libro di Isaia 40,3 che l’evangelista Marco apre il suo Vangelo e traccia il cammino d’Avvento che ogni cristiano è chiamato a percorrere durante tutta la sua vita, nel corso della quale egli ha un compito prioritario da svolgere: continuare, come il Battista, a preparare nella storia la via al Messia, ovvero predisporre le persone ad accogliere il Cristo che viene nella Parusia. Un simile compito comporta un impegno non indifferente, che Marco esplicita nel versetto successivo, quando, descrivendo l’attività del Battista dice che egli “predicava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati” (Mc 1,4). Un compito sostanzialmente simile a quello che svolgerà il Cristo, quando all’inizio della sua attività pubblica, dirà: “Convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1,15). Il compito del cristiano, dunque, durante l’attesa escatologica, consiste nel “convertirsi e credere nel Vangelo” di Cristo[1].

Ma come attuare nella vita un simile compito? La domanda ci induce a rivolgerci direttamente ai principali protagonisti dell’attuale liturgia della Parola: al profeta Isaia, al Battista e all’apostolo Pietro. A ciascuno di essi poniamo delle domande specifiche, sebbene abbiano tutte come scopo quello di aiutarci a comprendere il senso e le ragioni della nostra conversione. A Isaia chiediamo: in che modo è riuscito a rianimare la speranza del popolo d’Israele, dopo la triste a amara esperienza dell’esilio babilonese? Al Battista chiediamo invece: come ha fatto a riconoscere il Messia, in un contesto religioso in cui tanti sembravano volersi identificare con questa figura? A Pietro, infine, chiediamo quali atteggiamenti occorre coltivare per attendere il Cristo nell’oggi della nostra fede? Ogni domanda, com’è evidente, riguarda un aspetto della nostra conversione: con la prima, chiediamo la capacità di leggere i segni dei tempi; con la seconda, chiediamo il criterio di discernimento vocazionale; con la terza, infine, chiediamo le condizioni per sviluppare l’atteggiamento dell’attesa nel corso della nostra vita terrena.

Il clima religioso dove Isaia esercita la sua missione profetica è caratterizzato da profondi sentimenti di delusione. L’esperienza babilonese si era rivelata terribilmente dolorosa e sconfortante per il futuro della fede mosaica: privo dei rotoli della Legge, del Tempio e delle Sacre Liturgie il popolo sembrava aver perso ogni speranza in un possibile intervento futuro di Dio. Un contesto, dunque, quello di Isaia che sembra avere molte affinità col nostro dove, chiusi nel nostro individualismo, facciamo fatica a nutrire la speranza in un futuro incoraggiante. Malgrado tutto, invece, Isaia ha il coraggio di rivolgersi al suo popolo con queste parole: “Consolate, consolate il mio popolo … gridatele che la sua tribolazione è compiuta” (Is 40,1-2). Si tratta di un grido di gioia che nasce dalla consapevolezza di un rinnovato intervento di Dio che Isaia coglie nell’inatteso editto di Ciro, col quale l’imperatore decreta la fine dell’esilio babilonese e il ritorno in patria di tutti i deportati. Forse anche noi, come Isaia, abbiamo bisogno di imparare a leggere i segni con cui Dio suscita dentro di noi e intorno a noi, pensieri e sentimenti di fiducia, di attesa, di speranza coi quali imparare a vedere oltre il deserto della nostra esistenza, spesso inaridita della tristezza, dal pessimismo, dalla sfiducia, dalla diffidenza che attingiamo quotidianamente dalla nostra cultura, che sovente tende a svuotare ogni tensione trascendente della vita.  

In un simile contesto sociale comprendiamo quanto sia importante rileggere la nostra vita alla luce della Parola di Dio e del suo piano di salvezza. Si rivela perciò interessante il modo con cui il Battista giunge a comprendere la sua vocazione di “Precursore del Messia”, nel contesto di quella tradizione biblica che nutriva la propria fede con l’attesa messianica. E lo fa studiando e meditando il profeta Isaia, dal quale attinge il versetto che traccia la sua missione presso il popolo giudaico: “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata, ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata” (Is 40,3-4)[2]. Ciò che traspare da questo testo è la conoscenza che il Battista aveva di Isaia, grazie alla quale egli discerne la propria vocazione profetica, riuscendo così a ritagliare, o meglio a scoprire, il proprio ruolo nella tradizione biblica della storia d’Israele, all’interno della quale, egli, pur disponendo di tutte le prerogative profetiche per poter essere identificato col Messia, mantenne chiara la coscienza del proprio ruolo di precursore, come si rileva dalla sua seguente affermazione: “Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo” (Mc 1,7-8). La sua missione, dunque, non nasceva da un’iniziativa personale, né veniva dagli uomini, come pensavano i Giudei, ma dal cielo, come riconobbe Gesù (cf. Mc 11,30). Un simile discernimento è possibile solo attraverso uno studio attento e profondo della Parola di Dio, esattamente quello di cui anche noi abbiamo estremamente bisogno, oggi, non solo per discernere la volontà di Dio su di noi, ma anche per imparare a interpretare i segni che caratterizzano il nostro tempo, in questo passaggio epocale così apparentemente contraddittorio e caotico, nel quale facciamo fatica a riconoscere l’opera di Dio, a causa degli innumerevoli dubbi dai quali, anche noi come il Battista (cf. Mt 11,3), veniamo assaliti quotidianamente. Del resto che senso avrebbe guardare al Battista senza cogliere questa sua capacità di farsi interprete dell’azione di Dio nella storia, e capire il modo con cui essa va esercitata nell’oggi della Chiesa e del mondo?


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Alla stessa opera di discernimento sembra essere chiamato anche Pietro, quando dinanzi ad alcuni equivoci provocati da sedicenti predicatori, prese atto di dover chiarire una questione che stava rischiando di mettere a dura prova l’attesa escatologica delle nuove generazioni cristiane: “Questo anzitutto dovete sapere: negli ultimi giorni si farà avanti gente che si inganna e inganna gli altri … Diranno: Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (2Pt 3,4). Si tratta di un sentimento di delusione, dovuto alla mancata realizzazione della promessa di Dio, nei tempi previsti da coloro che erano convinti di un ritorno imminente di Cristo. Dinanzi al rischio di una reale confusione dottrinale, Pietro avverte la necessità di intervenire a scopo chiarificatore, affermando che “Davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3,8)[3]. La risposta di Pietro si rivela decisiva. Col suo tempestivo intervento e soprattutto con la sua interpretazione teologica, offre una visione capace di far spostare l’attenzione dal “quando”, al “come” dovrà compiersi la promessa, e soprattutto al “perché” Dio ritarda il tempo della venuta di Cristo. L’importante, fa notare Pietro, non è sapere “il tempo” in cui Dio realizzerà la sua promessa, ma cogliere le condizioni e le possibilità che lui offre durante l’attesa, affinché ciascuno si salvi: “Egli usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi”. La pazienza a quanto pare si rivela decisiva ai fini dell’attesa e quindi al modo con cui conseguire la salvezza nell’oggi. Dio è paziente non perché è capace di estendere all’infinito la sua sopportazione, bensì perché vuole che nessuno perisca e che tutti abbiano modo di salvarsi. La pazienza di Dio sta nella capacità di stemperare, con la sua magnanima misericordia, l’insostenibile negligenza spirituale delle persone che si sottraggono costantemente alla sua salvezza. Consapevole di ciò Pietro, dunque, non si limita ad un’esortazione moralistica, ma offre una visione escatologica con la quale dà ragione della speranza. Una certezza la sua che scaturisce dall’intima convinzione della sua fede in Cristo. Si comprende così ancora meglio quello che l’Apostolo dice all’inizio della sua lettera: “Mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità” (2Pt 1,5-7). È evidente che anche noi dinanzi ai numerosi malcontenti, delusioni, pessimismi che serpeggiano nelle nostre comunità, non possiamo limitarci a chiedere alle persone una maggiore partecipazione ai sacramenti o un più attento impegno morale e liturgico, occorre, più che mai giungere a dare, come Pietro, una risposta che fondi e motivi le ragioni dell’attesa. È a queste condizioni che possiamo riaccendere nel cuore delle persone, la speranza nell’attendere i “cieli nuovi e terra nuova, nei quali abita la giustizia di Dio” (2Pt 3,13). La pazienza tuttavia costituisce anche il modo con cui Dio mette alla prova la nostra attesa, per saggiare la nostra perseveranza nel conseguire la salvezza, proprio come afferma Gesù: “Solo chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” (Mc 13,13).

Riconsiderando attentamente queste tre figure bibliche prendiamo atto che esse più che mai hanno qualcosa da insegnarci, nel convertire la nostra mentalità da una religiosità concentrata esclusivamente nel presente della vita terrena, a una mentalità religiosa proiettata nel futuro dell’attesa escatologica. È qui che s’origina quella speranza nello Spirito che ancora una volta grida: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5), quello Spirito che ci permette di credere che Dio verrà! Certamente verrà! “Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia” (2Pt 3,14).


[1] Contrariamente all’opinione di molti cristiani la conversione, lungi dal ridursi alla breva fase della vita che precede la fede in Cristo, costituisce un’opera che impegna tutta la vita, in quanto comporta una progressiva aderenza e conformazione alla mentalità evangelica di Cristo. Non di rado accade, invece, che essa venga interpretata come un’attività morale da rivolgere prevalentemente agli altri, magari corredata anche da discorsi forbiti e stringenti, come se potesse ridursi a una pratica persuasiva. In realtà essa è un annuncio destinato a coinvolgere, in primo luogo, noi stessi, personalmente, e solo dopo ad essere rivolta ai nostri interlocutori. Non si tratta, dunque, solo di persuadere, ma di rendere attraente e affascinante il Cristo e il suo Vangelo, con la propria testimonianza di vita, così da indurli a cambiare il proprio modo di pensare e conformarlo a quello evangelico di Cristo. Esattamente come il Battista fece nei confronti dei suoi discepoli Giovanni e Andrea, quando dopo averlo riconosciuto come l’“Agnello di Dio”, lo propose loro come il Messia da seguire, e questi lasciato il loro maestro, si misero alla sequela di Cristo (cf. Gv 1,35-39).

[2] Notiamo subito una differenza tra i due testi, che ci fa rendere conto del modo con cui Marco attualizza il versetto profetico di Isaia, adattandolo al vissuto del Battista, quando trasforma: “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore” in “Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore”. Quel deserto che nel testo di Isaia costituiva un luogo simbolico, col quale alludere all’esilio babilonese, durante il quale il popolo aveva sperimentato l’assenza di Dio nella propria vita, diventa per il Battista il lugo in cui egli vive e svolge effettivamente la sua vita e la sua attività predicativa.

[3] È interessante notare che la difficoltà manifestata dalla comunità è la stessa che in più occasioni hanno evidenziato anche gli apostoli, come attestano le varie domande che essi pongono a Gesù circa i tempi in cui dovranno realizzarsi gli eventi escatologici (cf. Lc 21,7; Mt 24,34; At 1,6).

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