1 Ottobre 2023 - Anno A - XXVI Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 30 set 2023
- Tempo di lettura: 6 min
Ez 18,25-28; Sal 24; Fil 2,1-11; Mt 21,28-32
Criterio primo della salvezza:
fare la volontà di Dio

“Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Si, signore, ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Dicono: l’ultimo” (Mt 21,28-31).
Questo brevissimo racconto fa parte di una serie di parabole, quattro per la precisione: quella degli operai mandati nella vigna (cf. Mt 20,1-16), che abbiamo avuto modo di commentare già domenica scorsa; quella dei due figli (cf. Mt 21,28-32), che commenteremo appunto quest’oggi; quella dei vignaioli omicidi (cf. Mt 21,33-46) e del banchetto nuziale (cf. Mt 22,1-14) che commenteremo invece le prossime due domeniche. Tutte ruotano intorno ad un unico tema: il rifiuto dell’identità messianica di Gesù da parte dei capi dei sacerdoti, scribi, anziani del popolo e da parte del popolo eletto (cf. Mt 21,23). Costoro vengono ritenuti da Gesù come i principali responsabili della mancata salvezza di Dio verso gli altri popoli. Ogni parabola, infatti, contiene un’espressione che allude al loro ufficio salvifico che avrebbero dovuto avere nel mondo. Essi, infatti, vengono definiti come “operai della prima ora” (Mt 20,1); o come primi “invitati alle nozze” (Mt 22,3), ovvero come coloro che Dio ha scelto come principali destinatari della sua salvezza. Nonostante ciò essi come il “primo figlio” (Mt 21,28) rifiutano questo dono divino e come i “vignaioli omicidi” (Mt 21,38), si appropriano addirittura della vigna, fino ad “ucciderne l’erede”. Da qui la decisione di Gesù di rivolgere agli “operai dell’ultima ora” (Mt 20,6-7), o “al secondo figlio” (Mt 21,30), ovvero ai pubblicani, alle prostitute … a coloro cioè che erano ritenuti indegni a causa della condotta morale, l’annuncio della salvezza. Ma la decisione di Gesù non viene condivisa, al contrario, viene fortemente osteggiata, creando un clima di aperta opposizione: “Chi ti ha dato l’autorità per fare queste cose?”. La domanda viene formulata chiaramente nel brano precedente al nostro (cf. Mt 21,23), dove Gesù viene invitato a dare una risposta al gesto compiuto nel tempio (cf. Mt 21,12-13), al termine del quale guarisce diversi “ciechi e zoppi”, come a voler confermare la sua decisione.
Si profila in questo modo il contesto e la questione teologica in cui Matteo colloca la nostra parabola. Egli narra di due figli, entrambi vengono invitati dal padre a lavorare nella sua vigna. Ma ognuno reagisce in modo diverso. Il primo, dopo un iniziale consenso si sottrae al suo compito; il secondo, invece, dopo aver manifestato il suo aperto dissenso, si pente e decide di aderire all’invito del padre. Nella conclusione Gesù spiega anche la ragione di questo duplice atteggiamento che consiste nella mancata disposizione a “compiere la volontà di Dio” (cf. Mt 21,31). A giudizio di Gesù la salvezza, dunque, non è più garantita dall’osservanza della legge mosaica, come predicavano i capi dei sacerdoti, gli scribi, i farisei e gli anziani del popolo, né dall’elezione, come rivendicavano i Giudei, ma dalla disposizione a compiere la volontà di Dio, che ora si manifesta attraverso la sua persona. Ecco la novità che sconvolge la loro mentalità religiosa: finora essi credevano di poter ottenere la salvezza per mezzo della rivelazione mosaica, ora invece la salvezza dipende dalla disposizione a seguire Gesù e a vivere secondo il suo vangelo. Egli, ancora più di Mosè, costituisce la manifestazione piena e definitiva della volontà di Dio. In lui la volontà di Dio raggiunge la sua massima esplicitazione. Contrastarlo o rifiutarlo significa perciò precludersi l’accesso al regno. Per conoscerla occorre però ammettere la sua identità messianica. Dichiarazione che i Giudei non sono disposti a concedere. Si capisce allora il riferimento al Battista come a colui che lo ha preceduto in questo compito rivelativo: “È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, non vi siete nemmeno pentiti per credergli” Mt 21,32). Il mancato riconoscimento del Battista (cf. Mt 21,25) conferma la loro innata disposizione a rifiutare anche la statura profetica di Gesù. In realtà, come Gesù fa notare in altri contesti, quello dei Giudei è un atteggiamento costante che assumono regolarmente nei confronti di tutti i profeti (cf. Mt 23,29-31).
Questo comportamento ostile, infatti, viene rilevato già a suo tempo dal profeta Ezechiele, il quale è accusato di non seguire la tradizionale via della “giustizia retributiva”, secondo la quale Dio deve premiare i giusti e punire i peccatori. Ai loro occhi, infatti, “non è retto il modo di agire del Signore” (Ez 18,25), poiché si mostra clemente anche nei confronti dei peccatori. Egli, infatti, “non gode della morte dell’empio, ma che l’empio desista dalla sua condotta e viva” (Ez 33,11). Facendosi interprete della volontà di Dio Ezechiele ritiene allora che ciascuno è responsabile delle proprie scelte di vita, pertanto “se il giusto si allontana dalla giustizia per commettere l’iniquità e a causa di questa muore, egli muore appunto per l’iniquità che ha commessa” (Ez 18,26). D’altra parte “se l’ingiusto desiste dall’ingiustizia che ha commessa e agisce con giustizia e rettitudine, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà” (Ez 18,27-28). Ezechiele chiarisce in questo modo il ruolo della responsabilità individuale rispetto a quella collettiva che invece riteneva l’individuo destinatario delle conseguenze del peccato commesso dalla comunità. Secondo la sua rivelazione, la salvezza o la perdizione di un individuo non dipende dai suoi antenati (cf. Ez 18,2-4), né da suoi parenti più prossimi, come i genitori o i fratelli (cf. Ez 18,5-18), e neppure dal suo passato (cf. Ez 18,21-23), ciò che conta è sempre la costante disposizione del cuore a rompere col peccato e con la logica di vita che ne deriva (cf. Ez 18,19.27-28). È a queste condizioni che egli riceve il perdono e la salvezza. Questi due principi di solidarietà collettiva e responsabilità personale saranno poi armonizzati da Gesù. Da qui il senso di giustizia inteso come giustificazione[1], che teologicamente dice l’opera con cui Dio discolpa e perdona le colpe del peccatore rendendolo giusto, non già in merito alle sue opere, bensì per mezzo della grazia che elargisce liberamente e gratuitamente attraverso la fede in Cristo (cf. Rm 8,33-34).
Qual è in definitiva il messaggio che Gesù ha inteso esprimere attraverso questa parabola? Ci sono due modi di perseguire la volontà di Dio: a parole (primo figlio) e con i fatti (secondo figlio). Per Gesù non basta capire la volontà di Dio, occorre incarnarla nel vissuto quotidiano. E questa non si riduce al rispetto intransigente della legge, come ritenevano i Giudei, ma nella totale disponibilità a compierla fino in fondo. È qui il senso della giustizia divina. Pertanto l’uomo è giusto non quando osserva la legge, ma quando compie fino in fondo la volontà di Dio. La giustizia perciò, prima ancora che una connotazione giuridica e morale, ha un significato teologico ed esistenziale. È compiendo la volontà di Dio che l’uomo viene reso giusto. La fedeltà prima ancora che alla norma morale o giuridica va manifestata nei confronti della volontà di Dio. La fedeltà è la garanzia della giustizia divina. Dio stesso è giusto perché fedele alla sua promessa. Per Gesù, dunque, l’uomo è giusto quando è fedele a Dio. Nulla più di questa fedeltà consente di accedere al regno di Dio. Fare la volontà di Dio costituisce perciò il criterio primo della salvezza.
E per farla occorre procurarsi di avere – come afferma san Paolo nella lettera ai Filippesi – gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù. Infatti egli pur essendo Dio non propose la via della divinità per conseguire la salvezza, ma scelse di salvare l’uomo secondo la via della kenosi, ovvero annientando la sua volontà e solidarizzando totalmente con la condizione umana. Egli è rimasto fedele alla volontà di Dio fino in fondo, anche quando questa comportò la morte e la morte violenta della croce (cf. Fil 2,1-11). Per questa ragione compiere la volontà di Dio secondo la logica kenotica di Cristo, costituisce il principio primo della nostra salvezza; ovvero il criterio per essere giustificati da Dio. È qui la radicale novità del messaggio evangelico proclamato da san Paolo nelle sue lettere ai Galati e ai Romani.
[1] Per capire meglio questo comportamento di Dio, potremmo osservare quello di molte mamme quando diventano oggetto delle offese dai figli, oppure a quello di molti di noi, quando veniamo oltraggiati da una persona estremamente cara. In simili casi siamo portati quasi istintivamente a giustificare l’altro, per via del forte amore che nutriamo per lui. Questo comportamento che noi di solito assumiamo solo nei confronti delle persone care, Dio lo assume consapevolmente, liberamente e gratuitamente anche nei confronti dei peccatori. Esso si spiega in base al fatto che Dio ha sempre come obiettivo la persona e la sua promozione, più che l’osservanza rigorosa della norma morale fine a se stessa.




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