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1 Novembre 2023 - Anno A - Tutti i Santi

Aggiornamento: 4 nov 2023


Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12


La santità: un’ideale di vita ancora attuale?



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“Carissimi, vedete quale grande amore ci ha

dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. Fin d’ora noi siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro” (1Gv 3,1-3).

Diversamente dal solito quest’oggi attingiamo il tema della Solennità di Tutti i Santi dalla letteratura epistolare di Giovanni. Il brano della prima lettera che la liturgia ci propone per l’occasione, ci consente infatti di addentrarci nella realtà della “filialità divina”, quale condizione spirituale della santità. Grazie alla sua riflessione noi prendiamo atto di questo meraviglioso dono che Dio ci ha elargito per mezzo di Cristo. Un dono così profondo e abissale da risultare tutt’ora inesplorato perfino a noi che “siamo figli di Dio”, ma che Giovanni ci assicura di poter conoscere e gustare in tutta la sua pienezza, “quando Cristo si manifesterà” totalmente a noi nella parusia[1], perché lì, “saremo simili a lui” e grazie a lui “potremo vedere Dio così come egli è”. Per il momento però tutto ciò rimane una “speranza”, sebbene essa costituisca l’anelito verso il quale, parafrasando l’istanza del primo comandamento, occorre tendere con tutto il nostro cuore, con tutta la nostra anima e con tutta la nostra mente (cf. Mt 22,37).

Si tratta allora di capire se la “santità di Dio” sia effettivamente oggetto della nostra speranza, ideale della nostra vita spirituale ed ecclesiale, nel vissuto delle nostre relazioni quotidiane. Ma osservando la realtà sociale che ci circonda e il clima culturale che respiriamo viene da chiedersi: è ancora attuale la santità? È veramente possibile sperimentarla come comunione d’amore che la Chiesa riconosce e proclama con la solennità di oggi, ovvero tra coloro che partecipano già della vita gloriosa del Cristo e noi che ci ritroviamo ad essere ancora ‘affaticati pellegrini’, nella difficile realtà della vita quotidiana? Tenendo allora come sfondo questo brano giovanneo cercheremo di capire cos’è la santità? Quali affinità ha con la filialità divina di cui parla Giovanni? E quali sono le condizioni per realizzarla, qualora ci sia ancora qualcuno disposto a conseguirla?

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Non è facile cogliere il senso originario di questa festa, specie nell’attuale contesto sociale, profondamente intriso di una cultura individualista e scientista che, in diversi modi e forme, si insinua e s’espande dentro di noi, nella nostra mentalità fino a farci ritenere l’ideale della santità come un qualcosa di utopistico e fuori luogo. È opportuno perciò richiamare alla memoria le ragioni che hanno portato la Chiesa ad istituirla, per capire il rapporto che essa ha con la nostra vita spirituale e le possibili conseguenze su quella culturale e sociale[2]. Una memoria che però per ragioni di tempo, rimando alla nota esplicativa che vi invito a leggere, e alla cui luce ci chiediamo se la santità non faccia ormai parte di una visione cristiana del mondo, che non ha più nulla a che vedere con la nostra mentalità attuale, anzi, spesso ce la fa ritenere un ideale sì di vita suggestivo, ma fatto solo per pochi eletti, o come si dice oggi, di nicchia. Lo scopo di questa festa invece è quello di fare della santità un lievito della vita divina nel mondo, affinché tutta l’umanità sia fermentata dall’amore di Dio. Naturalmente per farlo è importante cogliere il senso della logica evangelica, ovvero quella del chicco di grano (cf. Gv 12, 24s), secondo la quale solo chi muore a se stesso e ai proprio progetti egemonici, anche religiosi, può dare origine alla vita in Cristo, che per Giovanni consiste nel vivere da figlio, come il Figlio di Dio.

Ancora prima di essere un ideale umano la santità, allora, è una chiamata di Dio, che lui stesso rivolge a ciascuno di noi: “Siate santi, perché io, il Signore vostro Dio, sono santo” (Lv 19,2). La santità dunque definisce la natura di Dio, come sottolinea anche il profeta Isaia che ne percepisce la presenza, al momento della sua chiamata nel tempio: “Santo, santo, santo … tutta la terra è piena della sua gloria” (Is 6,3). Tuttavia la santità, pur essendo una qualità specifica di Dio, non viene custodita da lui come un tesoro geloso, al contrario la manifesta e la rende partecipe ad ogni creatura. Ma in cosa consiste la santità di Dio? Cos’è che la caratterizza? L’evangelista Giovanni quando cerca di rispondere a questo tipo di domande dice che: “Dio è amore” (1Gv 4,8). L’amore dunque è ciò che qualifica la santità di Dio: Dio è santo perché è amore. In questa prospettiva chiunque si accinge a vivere la propria vita nell’ottica dell’amore divino, conforma la propria esistenza alla santità di Dio, e diviene santo come lui è santo.

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Gesù riprende e traduce questa formula in: “Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5, 48). Come a voler suggerirci che la santità non è solo un dono d’amore che Dio condivide liberamente con noi, ma anche una realtà verso la quale noi siamo chiamati a tendere con tutte le nostre forze. La santità è perciò al contempo una realtà divino-umana. Divina perché è un dono di grazia che viene da Dio; umana perché è una forza trasfiguratrice, capace di rinnovare dal di dentro la nostra umanità. Nell’uno e nell’altro caso essa ci invita a uscire fuori di noi, per condividere la nostra vita intima con l’altro da noi. Allo stesso modo di Dio anche noi non possiamo conservare il suo amore dentro di noi come un tesoro geloso (cf. Fil 2,6), ma esternarlo e condividerlo con gli altri. Tutto ciò traccia il percorso di un cammino di vita spirituale, durante il quale noi siamo chiamati continuamente, come Abramo (cf. Gen 12,1-9), di uscire fuori dal nostro io, dalla nostra terra, dalla nostra famiglia, dalla nostra cultura, dalla nostra mentalità, verso un io, una terra, una famiglia, una cultura, una mentalità che Gesù fa convergere verso la sua vita evangelica. La santità diventa così stile di vita relazionale. Pertanto essa non si riduce a un atto morale, il cui scopo è quello di evitare il male o purificarsi dal peccato, ma esplicita e realizza il nostro desiderio spirituale più profondo, quello cioè di conformarci alla santità di Dio, esattamente come Gesù ci ha testimoniato col suo stile di vita filiale. In altre parole, il discepolo diviene santo non tanto perché si allontana dal peccato, per mezzo delle sue virtù, ma si allontana dal peccato perché amato da Dio, e si lascia impregnare del suo amore salvifico. È l’amore di Dio che purifica e santifica. Il santo non è un eroe nel pieno esercizio delle sue virtù eccezionali, ma una persona pienamente consapevole delle sue fragilità, che sperimenta, nel proprio vissuto quotidiano, la straordinaria forza della Parola di Dio, che gli consente di trasformare i propri limiti personali in occasioni di superamento di sé. In questo senso le virtù non sono dimostrazioni della sua eroicità, ma segni della reale azione dello Spirito in lui. Egli è colui che lascia fermentare l’amore di Dio nel proprio cuore. Santo è chi fa spazio nel proprio io all’io di Cristo. Esattamente come fa Paolo, quando afferma: “non sono più io che vivo, ma Cristo in me” (Gal 2,20).

Ma come facciamo a conformarci a Cristo, da divenire, come Paolo, una sola cosa con lui? La via, la via maestra è quella Gesù stesso traccia nelle sue Beatitudini[3] e in modo particolare quando al termine delle quali giunge a dire: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli” (Mt 5,11-12). Il santo è colui che passa attraverso la “persecuzione” o la “grande tribolazione” (Ap 7,14), come la definisce Giovanni; durante la quale ci viene chiesto di dare prova della nostra fede in Cristo. Probabilmente la “persecuzione” o la “grande tribolazione”, difficilmente si manifesta in modo cruento nella nostra vita, come accadeva per i primi discepoli o come accade tutt’ora in certe aree geografiche della fede cristiana. Ma certamente essa comporta per noi, per ciascuno di noi, lo sforzo di lasciarsi lavare quotidianamente dallo Spirito, le “vesti” della nostra mentalità culturale e religiosa, all’interno delle quali spesso ci abbarbichiamo per sottrarci a tutto quel cambiamento che ci viene chiesto dal Vangelo. La santità dunque non consiste nel compiere una serie di opere virtuose, ma nel lasciarsi modellare la propria mentalità dallo Spirito, per conformarla a quella filiale di Cristo. E questa operazione non si compie una volta e per sempre, ma si distende lungo tutto l’arco della nostra vita.

Qualcuno potrebbe ritenere questo processo come una riduzione della libertà o perdita della dimensione umana a favore di quella divina, al contrario esso ne consente la pienezza e compimento. L’amore è ciò che ci fa pienamente e autenticamente noi stessi. Si tratta perciò di impregnare l’amore umano di quello divino, secondo le modalità compiute da Cristo alle Nozze di Cana (cf. Gv 2, 1-25), dove impregnò così tanto l’acqua dell’amore divino da trasformarlo in vino. Divenire santi significa perciò lasciarsi progressivamente impregnare dalla Grazia, che Dio effonde su di noi per mezzo dello Spirito, così che ogni ambito della vita personale, relazionale e sociale, perfino quello più increscioso del peccato, diventi un riflesso dell’amore trinitario. Chi è allora il santo? Mi piace rispondere a questa domanda con le parole di C. Lubich, che sottolinea la sua costante attualità nella storia: Il santo è Cristo dispiegato nel tempo.


[1] Il termine “parusia”, pur essendo di origine greca viene assunto nella teologia cristiana per indicare la venuta di Cristo alla fine dei tempi, per instaurare definitivamente il regno di Dio. [2] La sua origine risale al X secolo, quando il papa Bonifacio IV, su autorizzazione dell’Imperatore Foca, trasformò il Pantheon – il tempio dedicato a tutti gli dei – in una chiesa consacrata a tutti i Santi e a Maria. Questo episodio divenne nel tempo l’espressione del passaggio dalla religiosità pagana a quella cristiana. L’incidenza del cristianesimo nei vari ambiti della vita sociale andava radicalmente trasformando la visione culturale e religiosa della vita. Questo processo ha continuato, non senza ostacoli, nel corso dei secoli, fino a determinare una vera e propria visione cristiana del mondo, che a livello sociale ha dato origine ad un progetto che va sotto il nome di “cristianità”, in vista del quale si è cercato di organizzare la vita del mondo come un riflesso di quella divina. Ma sia pure suggestivo e nobile nelle intenzioni il progetto ha avuto spesso una traduzione pratica non sempre all’altezza. La logica politica che ne ha accompagnato la realizzazione ha finito, in diverse circostanze, per strumentalizzare persino la stessa fede a fini puramente terreni. L’avvento del laicismo, nel tempo moderno, ne ha poi decretato la fine, tanto che, oggi, assistiamo addirittura a fenomeni, come halloween, che sembrano invertire la rotta verso un ritorno al passato pagano. Ed è proprio alla luce di questa rivalsa culturale che si avverte più che mai l’esigenza di mettere a fuoco il senso della santità che scaturisce dalla nostra celebrazione, per capire se essa risponde ancora alle istanze esistenziali dell’uomo contemporaneo; se costituisce realmente uno stile di vita credibile e alternativo a quello immanente della nostra cultura; e quindi in che termini essa può essere tradotta nell’attuale vita relazionale. Si rivela allora fondamentale cogliere lo specifico del suo significato evangelico, senza il quale, tutti gli sforzi personali e sociali rischiano di rivelarsi fallimentari. [3] Si capisce allora perché Gesù considera la povertà, l’afflizione, la mitezza, la fame, la misericordia, la purezza di cuore, il desiderio di pace e di giustizia e perfino la persecuzione che abitualmente detestiamo, non come circostanze limiti, ma paradossalmente, come motivi di beatitudine. In questo senso la povertà lungi dall’essere ridotta a una forma di indigenza umana, costituisce la condizione fondamentale per acquisire l’autentico spirito evangelico, come giustamente fa notare l’aggiunta di Matteo rispetto alla stessa beatitudine descritta da Luca: “Beati i poveri in spirito” (cf. Mt 5, 3; cf. Lc 6, 20). Il povero in spirito non è tanto l’indigente materiale, ma chi si mostra docile all’azione dello Spirito di Dio. E così gli afflitti (cf. Mt 5, 4) non sono tanto coloro che sperimentano sulla propria pelle le conseguenze dell’ingiustizia e della prepotenza umana, quanto coloro che nutrono nel cuore la certezza che Dio costituirà per loro la consolazione più grande. Così anche i miti (cf. Mt 5, 5), non sono coloro che si lasciano coinvolgere dall’avidità del potere, dal piacere del successo o dalla conquista della fama, o nutrono il desiderio di rivalsa personale e sociale, ma coloro che pongono tutta la loro speranza nella logica evangelica del granello di senape, secondo la quale Dio “disperde i superbi nei pensieri del loro cuore, rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili, ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote (cf. Lc 1, 51-53). Il mite è colui che vive secondo il detto di Gesù: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde o rovina se stesso?” (Lc 9, 25). E così anche gli operatori della giustizia e della pace (cf. Mt 5, 6.9.10), più che gli idealisti che conseguono sogni utopistici, sono coloro che credono fortemente nella logica relazionale del Regno di Dio. E ancora i misericordiosi (cf. Mt 5, 7), non sono affatto i deboli, ma coloro che elargiscono con eccedenza l’amore di Dio che vive in essi. E quindi i puri (cf. Mt 5, 8) che solitamente il mondo considera ingenui, sono coloro che più di tutti sanno scorgere la presenza operante di Dio nelle vicende della vita e della storia.

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