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1 Gennaio 2022 - Anno C - Maria Madre di Dio


Nm 6,22-27; Sal 66/67; Gal 4,4-7; Lc 2,16-21


Maternità divina di Maria

Maternità spirituale della Chiesa

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Dopo l’evento dell’Incarnazione di Cristo e la festa della Santa famiglia di Nazaret, la Chiesa ci propone un altro grande tema: la Maternità divina di Maria. La teologia esprime questo mistero con un termine greco: Theotókos (composto da Theos = Dio e tókos = madre), letteralmente colei che genera Dio. Il termine fu usato per la prima volta durante il Concilio di Efeso, nel 431, per dire che Maria non è solo madre di Gesù, ma anche madre di Dio. In questo modo Maria diventa luogo d’incontro della divinità con l’umanità, perciò simbolo della divinoumanità.

La possibilità di commentare questo dogma mariano ci invita a prendere in seria considerazione la nostra reale disposizione alla fecondità spirituale. Un aspetto questo della vita che siamo soliti riconoscere solo ai santi, mentre in realtà riguarda ciascuno di noi. Anche noi, come Maria, siamo chiamati a generare Gesù nell’oggi della nostra fede, o meglio, a continuare l’opera incarnativa di Cristo nel mondo. È a questo livello che abbiamo modo di esercitare la maternità e la paternità ecclesiale.

La liturgia della parola, tuttavia, fa spazio anche ad altri due grandi temi, uno è quello della filialità divina (cf. Gal 4,4-7), l’altro invece è quello della benedizione di Dio (cf. Nm 6,22-27). Cominciamo da quest’ultimo, nella speranza di evidenziare il filo conduttore tra questi temi.

Quello di benedire è un atto proprio di Dio. Il riferimento ad esso all’inizio dell’anno solare si profila per noi come un segno di auspicio da parte di chi, come Dio, si prodiga a nostro favore per una più profonda elargizione dei suoi beni e della sua protezione. La sua effusione su di noi è indice di splendore, di grazia e di pace, come evidenzia il libro dei Numeri: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia splendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Nm 6,24-26). Stando alla testimonianza biblica la benedizione di Dio è strettamente legata al dono della vita. Nel libro della Genesi e precisamente nel racconto della creazione, troviamo che Dio ripete per tre volte questo gesto: la prima è rivolta agli animali: “Dio li benedisse: Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari” (Gen 1,22); la seconda è rivolta ad Adamo ed Eva: “Dio li benedisse e disse loro: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela, dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere che striscia sulla terra” (Gen 1,28), la terza, invece, riguarda la festa religiosa del sabato: “Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli aveva fatto creando” (Gen 2,3).

Nel primo e nel secondo caso notiamo, dunque, che la benedizione è connessa alla fecondità e alla generazione della vita biologica, come a dire che non basta essere creati da Dio, occorre la sua benedizione per ricevere il potere di trasmetterla. La nostra mentalità scientifica ci abitua a considerare l’atto di generare solo come un processo naturale del tutto ovvio, facendoci dimenticare completamente la sua ineffabile, ma discreta origine divina. Nei testi biblici, invece, traspare lo straordinario stupore che l’autore prova dinanzi alla meravigliosa opera con cui Dio dà origine alla vita e alla sua delicata opera di provvidenza. Dio non si limita alla sola azione creativa, ma si adopera anche per quella conservativa del creato, provvedendo al suo mantenimento, come evidenzia, tra l’altro, lo stesso nome di Dio Yhavhé, che significa: “io sono colui che sono” (Es 3,14). La sua presenza si manifesta nella continua e incessante opera della vita che si perpetua, senza sosta, nel tempo. Egli costituisce così il principio della vita biologica, ma al tempo stesso, anche il suo fondamento spirituale. Si comprende in questa prospettiva la benedizione del “sabato” (dall’ebraico šabbāt che significa “giorno di riposo”), con la quale l’autore biblico allude a tutta quella condizione religiosa che consente all’uomo di relazionarsi col suo creatore, grazie alla quale egli ha modo di sperimentare una nuova forma di fecondità, quella spirituale. Tuttavia, mentre la fecondità biologica accade secondo le disposizioni naturali, quella spirituale necessita di una relazione intima e profonda con Dio.

L’evangelista Luca, nell’attuale brano evangelico, sembra suggerirci le condizioni che rendono possibile una simile fecondità. Nel tratteggiare gli atteggiamenti fondamentali che contraddistinguono la vita spirituale di Maria egli dice che si stupiva, custodiva e meditava nel suo cuore tutto quello che lo Spirito andava operando in merito al suo bambino e alla sua maternità divina. Attraverso il significato di questi verbi ci sforzeremo di conoscere e praticare anche noi quelle condizioni che rendono possibile la fecondità spirituale all’interno della Chiesa.

Il nostro contesto culturale e sociale sembra riservare lo “stupore” – come la meraviglia, la sorpresa, lo sbalordimento – solo ai bambini e a chi come loro conserva ancora una certa ingenuità. Atteggiamenti che si ritengono suscitati da quel clima magico e fiabesco, tipico di questa fase della vita. In realtà Maria non è né una bambina, né un’ingenua, tantomeno vive una vita ovattata, avulsa dalla realtà e priva di esperienze dolorose; al contrario, a differenza di tanti adulti che ritengono di dover abbandonare questi atteggiamenti, a favore di una seriosa e drammatica responsabilità della vita, lei ha il coraggio di lasciarsi sorprendere ancora dalla vita e ancora più da Dio, al punto da rimanere attonita non solo dinanzi al modo con cui Dio interviene nella sua storia, ma anche dinanzi alle parole che le venivano continuamente proferite sul bambino (cf. Lc 2,17-18). Per avere un’idea dello stupore di Maria basterebbe contemplare il Magnificat (cf. Lc 1,46-55), autentico canto di lode a Dio, per tutte le meraviglie che egli ha operato in lei. Lo stupore tuttavia è un atteggiamento non solo delle creature, ma anche Dio. Qualche anno fa il comico Benigni nel commentare il XXXIII canto del Paradiso della Divina Commedia, e precisamente il verso dove Dante, attraverso le parole di san Bernardo, dice di Maria: “Tu se’ colei che l’umana natura / nobilitasti sì, che ‘l suo fattore / non disdegnò di farsi sua fattura”, tentò di esprimere lo stupore che Dio provò dinanzi a Maria sua creatura, in questi termini: “madonna com’è bella questa cosa che ho fatto, quasi quasi mi faccio far da lei! Mi piace così tanto … che mi faccio far da lei …”.

Al pari di noi anche Maria non capisce immediatamente tutto quello che le riferivano, ma a differenza di noi non lascia andare a vuoto nessuna di quelle parole (cf. 1Sam 3,19), per questo motivo le custodiva nel suo cuore, in attesa che il loro significato le si dischiudesse. Custodire significa conservare con cura un oggetto prezioso che viene donato; difenderlo contro le insidie, i nemici. A livello spirituale la custodia riguarda anzitutto la fede - così da conservarla intatta, pura, contro le alterazioni. Non basta credere, occorre anche verificare se quello che si capisce della parola di Dio corrisponde all’esatta interpretazione ecclesiale.

Oltre a stupirsi e custodire, Luca ci dice che Maria meditava anche. Il verbo originario che viene tradotto con “meditare” è symballein che letteralmente significa “mettere insieme”. In altre parole Maria non solo custodiva con cura l’opera di Dio in lei, ma cercava anche di coglierne il significato. Il suo è l’atteggiamento di chi sviluppa l’intelligenza spirituale, ovvero coglie i legami tra gli eventi e le parole che Dio compie e pronuncia nella storia degli uomini. Li mette insieme e li interpreta in unità. Non basta assistere a quello che Dio fa e dice, occorre anche capirlo per crescere nella fede.

Con la sua prassi spirituale Maria ci fa capire che per vivere autenticamente la fede all’interno della Chiesa occorre, come lei, lasciarsi fecondare dallo Spirito. Solo un amore fecondato dallo Spirito è in grado di dare luogo alla maternità e paternità spirituale. Occorre più che mai scoprire questo straordinario dono di Dio se si vuole rendere evidente la fecondità ecclesiale. È attraverso di essa che si comprende il mistero della nostra filialità divina di cui parla san Paolo: “Quando venne la pienezza del tempo – dice san Paolo – Dio mandò il suo Figlio, nato da donna … perché ricevessimo l’adozione a figli”. La prova di questa filialità ci viene offerta – continua ancora san Paolo – dalla presenza dello Spirito di Dio nei nostri cuori: “Che voi siete figli lo prova il fatto che Dio mandò nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio, il quale grida: Abba! Padre!” (cf. Gal 4, 4-7). Dentro di noi vive lo stesso Spirito di Dio. È lui che conforma progressivamente la nostra creaturalità alla filialità di Cristo. Lo Spirito filiale di Cristo costituisce, dunque, per noi l’eredità dalla quale, più che mai, oggi, siamo chiamati a lasciarci stupire, il tesoro da custodire e la realtà sulla quale meditare, in vista di un autentico stile di vita evangelico.

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