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1 Dicembre 2024 - Anno C - I Domenica di Avvento


Ger 33,14-16; Sal 24/25; 1Ts 3,12-4,2; Lc 21,25-28.34-36



Vivere l’attesa nell’oggi della fede


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“Gesù disse ai suoi discepoli: in quel tempo le potenze del cielo saranno sconvolte … e sulla terra (vi sarà)angoscia di popoli … gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.

Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso.

… Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo” (Lc 21,25-28.34-36).

È sorprendente la chiarezza con cui Gesù parla del suo ritorno alla fine dei tempi. Meno chiaro, anzi, piuttosto sconvolgente, è invece il linguaggio di cui fa uso nel parlare di questo evento. I segni che precederanno la sua venuta saranno tali, infatti, da procurare “ansia”, “paura” e “angoscia”. Dinanzi a questi effetti viene da chiedersi se si tratta di una descrizione realistica oppure simbolica. Ciò che è evidente è il linguaggio escatologico ed apocalittico, del quale purtroppo abbiamo perso la sensibilità interpretativa. Da qui lo sconvolgimento che ne deriva. Esso è sì enigmatico, ma ciò non toglie la possibilità di recuperare la mentalità che lo ha concepito e acquisirne i criteri per decifrarlo.

L’Avvento si rivela così come un “tempo favorevole” (cf. 2Cor 6,2) per compiere questo recupero. La Chiesa ce lo ripropone con una cadenza ritmica, all’inizio di ogni anno liturgico, per vivere con maggiore consapevolezza l’atteggiamento fondamentale della fede nell’oggi della storia: l’attesa[1]. Più specificamente, noi attendiamo il compimento della promessa di Cristo, secondo le sue parole: “Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria” (Lc 21,27; cf. Dn 7,13-14). Stando a questa promessa si capisce che l’attesa non va limitata alla sola celebrazione del Natale, ma estesa a tutta la nostra esistenza, fino alla fine dei tempi. Tutta la nostra vita, infatti, è nient’altro che un’attesa del Cristo che viene, come evidenzia anche la preghiera che l’apostolo Giovanni formula al termine del libro dell’Apocalisse: “Maranatha, vieni, Signore Gesù” (Ap 20,20).

Purtroppo, però, l’attesa si rivela, oggi, un atteggiamento quanto mai difficile e impegnativo, non solo sotto l’aspetto spirituale, ma anche umano. Abituati come siamo ad essere impazienti e a pretendere tutto e subito, nel qui ed ora, non siamo più allenati a rispettare i tempi di crescita e di maturazione delle cose, delle persone, delle relazioni. Perfino della natura abbiamo sovvertito i cicli, pretendendo i frutti fuori stagione. Viviamo la storia come se il presente fosse l’unico tempo da declinare; esigiamo ogni cosa nel momento stesso in cui le pensiamo e le desideriamo. L’esperienza quotidiana, invece, ci insegna che nulla accade in modo istantaneo, ma tutto è soggetto ad un processo di crescita e di maturazione. E ciò vale anche per le cose spirituali, come le promesse di Dio, delle quali non sappiamo più attendere il compimento, specie quando queste sembrano tardare a realizzarsi, come accade di sperimentare ai destinatari della seconda lettera di Pietro, ai quali l’apostolo, nel tentativo di far luce su questo punto, dice: “negli ultimi giorni verranno schernitori che si befferanno di voi, dicendo: Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come prima …”. A costoro Pietro risponde: “Una cosa non dovete perdere di vista, carissimi: davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo (cf. Sal 89,4). Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi … Perciò … nell’attesa di questi eventi, cercate d’essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace. La magnanimità del Signore giudicatela come salvezza” (cf. 2Pt 3,1-9). Pietro insomma sembra invitarci a vivere l’attesa secondo i tempi di Dio e a lasciarci modellare dall’azione del suo Spirito santificativo.   

La Bibbia ci attesta che l’attesa di questo compimento non è mai tranquilla e serena, avulsa dalle difficoltà, ma caratterizzata sempre da prove che verificano la consistenza della nostra pazienza, come testimonia il brano del profeta Geremia che preannuncia al popolo d’Israele la realizzazione della libertà solo al termine di un prolungato periodo di esilio di 70 anni (cf. Ger 33,14-16). Non da meno è stato l’evento dell’Esodo avvenuto solo al termine di un periodo di 450 anni di schiavitù in Egitto. La stessa libertà del popolo viene raggiunta solo dopo un cammino di 40 anni nel deserto. Anche Gesù ci fa capire che la sua promessa si compirà solo dopo un periodo di grandi tribolazioni e sconvolgimenti spirituali, terreni e cosmi (cf. Ap 7,14). A quanto pare, non solo i pensieri, ma anche i tempi di Dio non sono affatto i nostri tempi.

La mancata capacità interpretativa, propria della mentalità escatologica, ci fa intendere questi eventi solo in chiave letterale, mentre essi hanno una valenza simbolica, allusivi come sono di tutto quel processo di trasformazione che è già presente nei cicli biologici della vita. Basti pensare a quella trasformazione fisica a cui sono soggetti tutti gli esseri viventi, durante il periodo che va dal concepimento alla morte, compresa la totale dissoluzione del corpo. Un discorso analogo vale anche a livello spirituale, per quel che riguarda il processo di trasformazione che subisce la persona durante la conversione. È interessante notare il cambiamento di mentalità che avviene in questi casi, sebbene fisicamente la persona sia sempre la stessa. In altre parole questi eventi catastrofici non fanno che descrivere, in maniera figurata, quel processo di trasfigurazione che ci predisporrà, compreso il cosmo, alla salvezza di Cristo. Pertanto “i cieli nuovi e la terra nuova” (2Pt 3,13) di cui parla Pietro nella sua lettera, altro non sono che questi stessi cieli e questa stessa terra, totalmente trasfigurati dall’azione dello “Spirito che fa nuove tutte le cose” (cf. Ap 21,5).

Si capisce allora la necessità di acquisire questi criteri spirituali che consentono di prepararci a vivere bene gli eventi escatologici, dei quali proprio perché non conosciamo i tempi, non possiamo neppure dilazionarli in un futuro tanto remoto. Gesù stesso dice che tali eventi saranno per molti motivo di terrore e angoscia, mentre per coloro che avranno acquisito tali criteri, verranno interpretati come segni del suo arrivo imminente. Da qui la sua dichiarazione: “risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21,28). In altri termini lo stesso disordine cosmico e sociale, mentre per alcuni è indice della fine del mondo, per altri è segno del suo nuovo inizio (cf. Rm 8,19-23).

Ma come acquisire questi criteri e soprattutto come prepararci a questi difficili eventi? La risposta ce la offre lo stesso Gesù, quando dice: “State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita” (Lc 21,34). Egli elenca qui una serie di rischi ai quali possiamo esporci durante l’attesa, come “appesantimenti”, “dissipazioni”, “ubriachezze” e “affanni”. Proviamo ora a capire in cosa consistono e in che modo queste cose possono abbassare il nostro livello di attenzione e di vigilanza al punto da impedirci di riconoscere i segni del Cristo che viene. Partiamo col dire che il cuore, biblicamente parlando, non è tanto l’organo dei sentimenti, ma il centro decisionale dell’uomo, il luogo dove egli si autodetermina sulla base delle scelte esistenziali[2]. Ora, per riconoscere la presenza di Cristo, durante questo tempo di sconvolgimento, occorre disporre di un cuore nuovo, attento, concentrato, raccolto, riunito, vigile, libero da situazioni, idee, pensieri che possano confonderlo, offuscarlo e appesantirlo.

Proviamo a fare qualche esempio per capire meglio a cosa corrispondono le “dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita”. Quando un atleta sa di dover affrontare una gara importante, raccoglie e concentra tutte le sue energie per orientarle verso l’obiettivo che è la vittoria. Per fare ciò egli deve allenarsi, ovvero predisporre la sua mente e il suo corpo a quel tipo di gara, durante il quale egli evita di distrarsi e soprattutto di dissipare le proprie energie. Sa che l’allenamento gli servirà non solo ad abituare, ma anche a potenziare il corpo per quel tipo di esercizi. Sciupare, disperdere, sprecare queste energie con esercizi sbagliati o distrarsi con azioni vane, gli potrà costare caro. Pertanto come l’atleta rimane attento e concentrato in vista della gara, ancor di più devono esserlo coloro che attendono di incontrare Cristo. L’avvento è perciò un tempo di allenamento nell’attesa.

Anche l’immagine dell’ubriaco è significativa. Essa allude alla mancata lucidità mentale, necessaria per compiere scelte decisive e rispondere delle proprie azioni. Gli stessi “affanni della vita”, quando vengono vissuti con eccessiva preoccupazione e drammaticità, rischiano di precluderci la possibilità di concentrare l’attenzione sulle cose essenziali della vita. Occorre invece che il discepolo sia, come raccomanda Paolo, “irreprensibile nella santità” (1Ts 3,13), uno a cui non si può muovere alcuna critica, perché ha improntato la sua vita a una rigorosa correttezza e onestà intellettiva, morale e spirituale. Uno che si comporta in” modo da piacere a Dio” (1Te 4,1) e che conosce bene la sua volontà, così da progredire nella santità.

Come crescere in questa vita spirituale? Per rispondere a questa ulteriore domanda ci rifacciamo a quello che dice Gesù sempre in questo brano evangelico: “Vegliate in ogni momento pregando” (Lc 21,36). “Vegliare e pregare in ogni momento” non significa recitare dall’alba alla sera e durante la notte, una qualche formula di preghiera verbale, ma vivere la quotidianità all’insegna della volontà di Dio. È chiaro che per vivere in questo modo occorre una pratica spirituale non indifferente, tipica di chi vive ogni cosa, perfino un’esperienza di peccato, come pretesto per crescere in un’intima relazione con Dio.

Ciascuno per progredire in questo ambito può seguire pratiche e metodologie diverse, ispirate ad una spiritualità più conforme alla propria sensibilità. Personalmente vi suggerisco una forma di preghiera, semplice come quella del rosario, con la quale contemplare la Storia dell’attesa biblica, secondo quelli che potremmo definire: i misteri dell’attesa, così distinti:

1) L’attesa profetica (nel quale si contempla la “promessa del figlio e della terra che Dio fa ad Abramo” – Gen 12,1-3; 15,1-21, chiare allusioni alla venuta del Figlio di Dio, Gesù Cristo e della sua salvezza).

2) L’attesa messianica (nel quale si contempla la “promessa del Messia salvatore”, che Dio fa a Mosè – Dt, 18,15-20).

3) L’attesa regale (nel quale si contempla l’invocazione del Regno di Dio che Gesù manifesta durante la sua predicazione – cf. Mc 1,15 – e in particolare nella preghiera del Padre Nostro – Mt 6,10).

4) L’attesa escatologica (nel quale si contempla la seconda venuta di Cristo, secondo la preghiera formulata nel libro dell’Ap 20,20: “Maranatha, vieni, Signore Gesù”).

5) L’attesa apocalittica (nel quale si contempla la “promessa dei cieli nuovi e terra nuova”, secondo le parole di Is 65,17; 66,22; 2Pt 3,13; Ap 21,1).

Tali misteri potrebbero essere recitati di sabato, durante il quale si vive più intensamente l’attesa della domenica: giorno della risurrezione. In questo senso tutta la nostra esistenza è un sabato d’Avvento, vissuta, come le donne al sepolcro, in attesa del Cristo glorioso.  

Buona attesa, dunque, e auguri di un autentico cammino di Avvento.

 


[1] L’attesa è l’atteggiamento tipico di chi, animato dalla speranza, nutre il desiderio di vedere la sua promessa realizzata. Si tratta di un atto interiore molto delicato e fragile, specie quando, per vari motivi, essa viene delusa. In tal caso il dolore che si prova può essere così profondo da rimuoverla dalla nostra vita. E non sono pochi i casi di persone che, privi di speranza, vivono da disperati. Tuttavia, malgrado il dolore che ne consegue, non è possibile vivere senza attendere il compimento di una speranza. Essa ci aiuta a superare le difficoltà, ad andare oltre le delusioni. Il problema pertanto non è l’attesa in sé, quanto l’oggetto dell’attesa. Non pochi sono quelli che associano l’attesa a qualcosa di futile, di superficiale, frivolo, effimero, vano, passeggero come le mode. E ciò accade non solo a coloro che pongono le loro speranze in qualcosa di materiale, ma anche a coloro che sono nutriti da un’idea, da una filosofia di vita o dalle promesse di un politico, di un personaggio sociale che, malgrado le suggestive promesse, si rivela essere un autentico impostore. Costoro sono quelli che maggiormente si espongono alle delusioni più cocenti. Per evitare questo epilogo piuttosto frequente e diffuso è necessario verificare previamente l’oggetto dell’attesa, con un discernimento attento ed oculato. A questo proposito si rivela assai interessante quello che dice il profeta Geremia: Maledetto l'uomo che confida nell’uomo, / che pone nella carne il suo sostegno / e dal Signore allontana il suo cuore. / Egli sarà come un tamerisco nella steppa, / quando viene il bene non lo vede; / dimorerà in luoghi aridi nel deserto, / in una terra di salsedine, dove nessuno può vivere. / Benedetto l’uomo che confida nel Signore / e il Signore è sua fiducia. / Egli è come un albero piantato lungo l’acqua, / verso la corrente stende le radici”(Ger 17,5-8).

Nel contesto della fede ciò comporta la capacità di guardare Gesù come il compendio di tutta la nostra storia personale, ecclesiale, sociale e perfino cosmica. In questa prospettiva Cristo viene compreso come colui nel quale ogni cosa trova principio, senso e compimento. Il che significa imparare a veder la nostra vita quotidiana dall’alto, da Dio, senza lasciarsi condizionare dalle idee passeggere, dalle mode culturali e dagli affanni del mondo. Una simile visione presuppone un rapporto intimo e profondo con Cristo, continuamente alimentato dalla preghiera: Maránatha! Vieni, Signore Gesù

[2] Oggi riteniamo che questo centro sia costituito dalla mente.

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