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1 Agosto 2021 - XVIII Domenica del Tempo Ordinario Anno B

Aggiornamento: 3 gen 2022



Es 16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35


La condizione per accedere alla vita eterna



“Io sono il pane della vita” (Gv 6,34). È l’affermazione che Gesù fa nella sinagoga di Cafarnao dove, ritornando sul miracolo dei pani, si sforza di spiegarne il senso e nella quale attesta, in modo chiaro ed inequivocabile, di essere: “il pane che il Padre ha mandato dal cielo per la vita del mondo” (cf. Gv 6,33). Si tratta di un discorso decisivo, nel quale Gesù pone la condizione fondamentale per accedere alla vita eterna: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29). Tutta la fede in Cristo consiste dunque nel riconoscerlo come colui che, mandato dal Padre, conferisce alla vita quel senso di pienezza, nel quale è possibile cogliere, già nell’oggi della fede in lui, l’eternità.

Ancora una volta la liturgia della Parola sottopone alla nostra attenzione la questione nevralgica della fede cristiana, e lo fa con un fraseggio che se da una parte può sembrare familiare a chi pratica ambienti religiosi ed ecclesiali, dall’altra rivela un contenuto che risulta ormai distante dal modo di pensare e vivere quotidiano di molti di noi. Termini come “segni”, “eucaristia”, o formule come “pane del cielo”, “vita eterna”, “opera di Dio” pur appartenendo al nostro vocabolario, sembrano essere svuotate di quel significato che ha alimentato per millenni la vita spirituale di centinaia di generazioni. Da qui la necessità di andare al fondamento della nostra fede, specie in un contesto come il nostro che sembra aver smarrito il rapporto con le radici e con l’humus della tradizione evangelica ed ecclesiale. Ci troviamo dunque nel nucleo centrale della fede. Non si tratta di credere in un’idea, e neppure in un sistema di norme religiose o precetti morali, ma in una persona: Gesù, tanto che “chiunque crede in lui ha la vita eterna” (cf. Gv 6,40).

La difficoltà a riconoscere Gesù come salvatore è la questione fondamentale della fede. Essa gli viene continuamente obiettata dai Giudei, come attesta anche il nostro brano evangelico: “Quale segno tu fai perché possiamo credere in te? Quale opera compi?” (cf. Gv 6,30). In realtà quella manifestata nei confronti di Gesù è la stessa che gli Israeliti muovono anche nei confronti di Mosè, come evidenzia la prima lettura, dove il popolo d’Israele fatica a riconoscere Mosè come l’uomo di Dio. Difficilmente i gesti da loro compiuti vengono interpretati inizialmente come segni divini. È importante perciò inserirsi in questa tradizione biblica, per capire le ragioni di tanta reticenza e sviluppare quella dinamica relazionale con Cristo, come condizione della fede in lui. Solo chi vive in comunione con Dio è in grado di riconoscere la sua opera come opera di Dio.

Nel libro dell’Esodo questa difficoltà viene ripetutamente ribadita dagli Israeliti, durante la loro permanenza nel deserto: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine” (Es 16,3)[1]. Dinanzi ai disagi del deserto gli Israeliti si rivelano nostalgici dell’Egitto. Alle condizioni precarie della libertà che si prospetta davanti a loro essi preferiscono il benessere della schiavitù. Il deserto nel quale il popolo viene introdotto si traduce perciò in un luogo di prova, per verificare “se cammina o meno secondo la legge di Dio” (cf. Es 16,4).

La libertà che Dio propone a Israele non è affatto un’idea culturale o una condizione arbitraria, e neppure una forma di anarchia, ma è una vita relazionale che prevede un processo esodale, durante il quale solo chi si dispone ad un prolungato percorso di purificazione morale, intellettiva e spirituale, può conseguire. Questo tipo di libertà si attua solo nel conseguimento della “terra promessa”, ovvero nella comunione di vita con Dio. Può sembrare un paradosso e di fatto lo è: la libertà prospettata dagli Israeliti non è nell’autonoma indipendenza da Dio, ma nella relazione con lui. Nessuno come lui è in grado di creare una relazione tanto libera quanto liberante. Pertanto la parabola della libertà tracciata da Israele nell’Esodo diventa emblematica per tutti i popoli e costituisce un segno profetico per la stessa umanità.

L’esperienza dell’Esodo presenta tratti molto affini anche con la nostra condizione sociale e culturale, specie in questa prolungata prova della pandemia, nella quale, malgrado i segni dei tempi e le prove alle quali veniamo continuamente sottoposti, difficilmente sembriamo arrenderci all’idea di dover mettere in discussione il nostro opulento tenore di vita e la mentalità che lo supporta. È proprio vero che tra benessere e libertà esiste un rapporto interscambiabile? Dove l’uno è cifra dell’altro? Eppure in questa convinzione che sembra divenuta dogmatica, non sono pochi a chiedersi: ma può la pandemia divenire una via di libertà? È la stessa domanda che anche il popolo ebraico si è posto in merito al deserto. E tuttavia anche noi come gli ebrei davanti alla possibile libertà, alla quale può aprirci questa situazione, preferiamo la certezza del benessere. E come se ciò non bastasse al loro nostalgico ‘benessere della schiavitù’, preferiamo la ‘schiavitù del benessere’. Si tratta allora di capire il modo con cui Dio, attraverso gli eventi della vita educa il suo popolo a vivere con lui e a nutrirsi della sua Parola.

Rimane vero che in un orizzonte culturale, dove tutto concorre al benessere della vita terrena e dove questa sembra essere considerata addirittura eterna, diventa molto difficile capire il discorso di Gesù sul pane eucaristico. Per chi, per esempio, nel corso della vita è stato abituato a pensare l’esistenza soltanto in un’ottica terrena e a soddisfare esclusivamente bisogni materiali, non è facile prospettare l’idea di uno stile di vita alternativo, come quello proposto da Gesù. Per costoro, compiere il passaggio da un registro umano a quello divino diventa un’operazione estremamente ardua. Eppure Gesù non chiede di trasferire l’attenzione esclusivamente su un piano divino a discapito di quello umano, ma di capire su quale di essi vale la pena investire tutte le energie della propria esistenza. La domanda alla quale egli chiede di rispondere è: cosa appaga realmente il nostro anelito di libertà e di eternità? Qual è il cibo che alimenta questa sete esistenziale? È chiaro che “il cibo che perisce” (Gv 6,27), di cui lui parla non è solo quello che alimenta la vita fisica, ma anche quello fatto di idee, pensieri, sentimenti, visioni culturali e perfino religiose, che nutrono quotidianamente la nostra vita intellettuale, morale, spirituale, ma che nel tempo si rivelano autentici inganni, da destinare la nostra esistenza al nulla, piuttosto che all’eternità. Il dramma che ne scaturisce non è solo quello che nasce dalla coscienza di simili epiloghi, ma quello di prenderne atto in momenti limiti della nostra esistenza, quando cioè non siamo più in grado di tornare indietro o non abbiamo più il coraggio di ricrederci e di riaprirci alla speranza. Quanti suicidi nascono da una mancata alternativa alla vita terrena?

Occorre allora seriamente interrogarsi se in questa nostra smania di benessere terreno, così contagiosa, siamo veramente disposti a cambiare registro di vita? Quanti, condizionati da una mentalità materialista, sono realmente disposti a lasciarsi interpellare dal discorso eucaristico di Gesù? Quanti hanno il coraggio di convertire la propria mentalità pragmatica, tutta tesa ad un’economia terrena, in una mentalità che prevede la prospettiva di una vita eterna? Quanti sono aperti all’idea di vivere questa vita come luogo di quella divina? Quanti sono orientati a prendere in seria considerazione la Parola di Cristo, piuttosto che quella che degli influencer, testimonial o opinionisti dei nostri rotocalchi televisivi o dei nostri social?

Si comprende perciò benissimo l’eloquente esortazione che Paolo rivolge agli Efesini, con la quale ci dà un’idea della vita nuova in Cristo. Ve la riporto interamente, senza alcun commento: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità. Ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità (Ef 4,17-24).

Tutta la nostra salvezza dipende allora dalla fiducia che siamo disposti a porre in Cristo e nella sua Parola. È questa l’opera alla quale Dio ci chiama: “credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29). Egli è il “pane della vita”, chi si nutre di lui “non avrà più fame e non avrà più sete” (Gv 6,35). In questo senso la Parola di Cristo non esclude quella di chi, in diversi modi e forme nutre l’esistenza delle persone, ma si pone come la pienezza di senso, oltre la quale null’altro può appagare la nostra sete di libertà e di eternità. La questione, perciò, è fidarsi di lui e di ciò che la sua Parola prospetta alla nostra vita. Mi piace concludere questo commento con la stessa domanda che Gesù pose a Marta, all’indomani della morte del fratello Lazzaro: “Io sono la risurrezione e la vita … credi tu questo?” (Gv 11,25.26). Marta, animata dall’amore che nutriva per Gesù, rispose di si. Auguro a ciascuno di cogliere il segreto di questo amore.

[1] La “mormorazione” costituisce una costante del popolo nel deserto, quasi un leit motiv: Es 16,7.8.9.12; Nm 14,2.27.29.36; 16,11; 17,20.25; Dt 1,27.

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