09 Maggio 2021 - VI Domenica di Pasqua Anno B
- don luigi
- 9 mag 2021
- Tempo di lettura: 9 min
At 10, 25-26.34-35-44-48; Sal 97/98; 1Gv 4, 7-10; Gv 15, 9-17
L’alveo divino dell’amicizia

Il discorso sulla relazione evangelica che Gesù affronta attraverso le immagini del “pastore” e della “vite”, trova il suo compimento nel comandamento dell’amore, che egli consegna ai suoi discepoli come un testamento, durante il Discorso di Addio: “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 15, 12). Egli lo trasmette come l’elemento distintivo della loro identità: “Da questo sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34; cf. 1Gv 3,10). L’amore costituisce per Gesù il principio ispirativo di ogni relazione interpersonale, l’alveo nel quale esse accadono, la linfa che le anima, la forza che le sostiene, il fine che le giustifica. Nulla più dell’amore rivela la presenza mistica di Cristo operante nella Chiesa e nel mondo; nulla più dell’amore dice l’identità dei suoi discepoli, nulla più del suo amore manifesta all’uomo la sua origine divina.
L’amore costituisce anche il nucleo della liturgia della Parola di questa sesta domenica di Pasqua. Ed è significativo che esso ci venga proposto solo all’indomani della Risurrezione, dopo, cioè, aver sperimentato, attraverso la passione e la morte di Gesù, l’ampiezza, l’altezza, la lunghezza, la larghezza e la profondità dell’amore del Padre (cf. Ef 3,18). Non è possibile, dunque, comprendere e contemplare l’amore di Dio se non alla luce dell’evento pasquale di Cristo. È qui che accade e si rivela la massima espressione dell’amore di Dio nei nostri confronti. La riflessione sull’amore di Dio, pertanto, come Giovanni ci attesta nel suo Vangelo e nelle sue lettere, non nasce da una speculazione razionale, ma dallo sforzo di esplicitare il nucleo della vita di Cristo, concentrato nel suo mistero incarnativo e pasquale. In questo senso solo chi entra nella relazione di vita con Cristo può parlare dell’amore del Padre. Il Vangelo vissuto diventa così la condizione per accedere all’amore di Dio e la premessa per una sua possibile argomentazione teologica.
Ma in cosa consiste l’amore del Padre, di cui Cristo dà testimonianza col suo Vangelo e rende visibile con la sua persona, al punto da poter dire: “Chi vede me, vede il Padre”? (Gv 14,9). La domanda ci dà modo di addentrarci nel dinamismo relazionale della vita divina di Dio, che Giovanni dà prova di aver colto con la profondità del suo “occhio penetrante” (cf. Nm 24,3). Per rispondere ad essa cercheremo perciò di seguire lo stesso metodo riflessivo sviluppato dall’evangelista. Ad esso abbiamo già accennato nell’omelia di domenica scorsa, alla quale vi rimando. Si tratta di un modo di procedere nella comprensione del mistero di Dio che riflette la stessa metodologia circolare dell’amore trinitario. Giovanni ci invita ad assimilare il suo metodo partecipando di questo amore, seguendo cioè il ritmo relazionale che lo caratterizza, esattamente come Gesù ha fatto col Padre: nascondendo se stesso. Egli non si è mai imposto sul Padre e neppure sull’altro, al contrario ha fatto di tutto per manifestare il suo volto. In realtà tutta la vita evangelica di Gesù è nient’altro che una progressiva rivelazione del Padre. Ogni cosa che egli pensa, dice e fa viene compiuta in vista del Padre. Nulla accade fuori di lui. Tutta la sua vita terrena diventa così la manifestazione della sua origine divina, della relazione d’amore che egli intesse col Padre, nello Spirito.
Anche noi, avremo modo di entrare a far parte di questo amore se ci lasceremo guidare, come Giovanni, dallo stesso Spirito di Cristo. Vi invito perciò a meditare, senza fretta, su alcuni brani di Giovanni, in particolare il Discorso di Addio di Gesù (cf. Gv 13,31-17,26), le due conclusioni del suo Vangelo (Gv 20,30-31 e 21,24,25) e le sue tre lettere. Non preoccupatevi se non riuscite a capire tutto, sarebbe impossibile e troppo pretenzioso. L’importante è assimilare la mentalità che sta dietro ad un simile metodo teologico. L’acquisizione e lo sviluppo di questa mentalità richiede tempo, pazienza e costanza. Si tratta di un processo lungo che coinvolge le sfere più recondite della nostra volontà, della nostra intelligenza, della nostra psiche, del nostro spirito. Essa richiede una conversione perenne che dipende molto dalla nostra relazione intensa e quotidiana con la Parola di Cristo. Tale mentalità è alla base di quella spiritualità ecclesiale che consente di tradurre in vita vissuta e di impregnare tutte le nostre relazioni interpersonali dell’amore evangelico di Gesù.
Vi propongo allora di meditare insieme il brano del Vangelo di Giovanni (Gv 15,9-17) e quello della prima lettera (1 Gv 4,7-10). Quest’ultimo, in particolare, si rivela come uno sviluppo teologico dei contenuti espressi nel brano evangelico, frutto senza dubbio di un costante approfondimento, che scaturisce dalla sua relazione con Cristo e dalla continua meditazione della Parola di Dio, esercitata durante gli anni della sua lunga vita evangelica. L’intelligenza spirituale che egli fa scaturire dalla sua riflessione sull’amore divino, promuove e sviluppa l’amore umano, al punto da cogliere in esso il suo principio e fine, come emerge dall’intuizione che egli esplicita nella sua prima lettera, dove tra l’altro afferma: “L’amore è da Dio e chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1Gv 4, 7-8). Questo principio giovanneo ci lascia intendere che nessuna creatura può considerarsi principio d’amore. L’amore infatti è una dimensione specificamente divina. Ed è Dio che lo trasfonde nel creato, adattandolo alle diverse forme di vita e di relazioni che si stabiliscono tra le creature. Esistono perciò diverse forme d’amore che vanno da quello erotico a quello amicale, da quello filiale e quello agapico[1]. Tutto il creato è impregnato d’amore: ogni cosa vive, esiste e si muove nel seno dell’amore divino (cf. At 17,28). A differenza nostra Dio non ha bisogno di essere originato all’amore. Egli ama perché è in se stesso amore, come dice Giovanni. La sua natura è amore relazionale, ribadisce argutamente sant’Agostino, il quale afferma che Dio è al tempo stesso amore, amante ed amato. In quanto tale genera ed effonde amore su tutti e tutto. Noi, invece, amiamo perché siamo amati da Dio. Dio alberga in noi come una sorgente misteriosa e un deposito inesauribile d’amore, che ci abitua ad amare allo stesso modo suo, per mezzo dello Spirito. Perciò è sprigionando questo amore divino che diventiamo, a nostra volta, sorgenti e canali effusivi d’amore. Dunque, nessuno può pretendere di amare gli altri, se prima non ha sperimentato l’amore di Dio in sé. L’esperienza di Dio amore è all’origine di ogni nostra relazione d’amore evagelico.
La definizione che Giovanni dà di Dio come amore costituisce allora il principio, il senso e il fine verso cui tutte le relazioni umane convergono. Non è possibile amare se non a partire da questa originaria relazione divina. L’amore umano costituisce allora un riflesso di quello divino e che le persone esercitano in virtù di quella originaria e misteriosa azione dello Spirito dentro ciascun uomo. Non importa se questi sia credente o meno. Dio, attraverso il suo Spirito, agisce indipendentemente dalla fede. E questi opera come espressione dell’eccedenza d’amore del Padre. La fede non è all’origine dell’amore di Dio, se mai ne è la conseguenza, come attesta l’episodio di Pietro nella casa di Cornelio, il quale, insieme alla famiglia, viene battezzato proprio a seguito di una straordinaria ed imprevedibile effusione dello Spirito che, come osserva con stupore lo stesso Pietro, “non fa preferenza di persone” (At 10,34). Non importa se esse sono di origine “pagana” o “fedeli circoncisi”, egli scende “sopra tutti coloro che si mettono in ascolto della Parola di Dio” (cf. At 10,44).
In realtà tutto il discorso che Pietro tiene nella casa di Cornelio si rivela esplicativo della manifestazione dell’amore di Dio. Facendo memoria di tutta l’esistenza storica di Gesù, egli individua nella croce la sua chiave di lettura. La morte di croce si rivela perciò come la forma più emblematica e paradossale dell’amore di Dio nei nostri confronti (cf. At 10,34-43). Da parte sua Giovanni, come a voler confermare questa interpretazione petrina, dice: “In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione dei nostri peccati” (1Gv 4,9-10).
Fare memoria degli eventi con cui Dio attraverso Cristo manifesta il suo amore, diventa non solo una maniera per custodire e fare tesoro dell’amore di Dio in noi, ma anche un metodo per rimanere in Cristo, come fa Gesù, nel Discorso di Addio, nel quale raccomanda ripetutamente ai suoi di rimanere nel suo amore, osservando, ovvero praticando, il suo comandamento d’amore (cf. Gv 15,9-10). Esso, a differenza del comandamento mosaico non prevede più solo di “amare il prossimo come se stessi”, ma spinge tale amore ad un limite fino ad allora ritenuto invalicabile, e che lui esplicita con la seguente formula: “Nessuno ha una amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13). Se Mosè aveva previsto l’amore che ciascuno nutre per sé, come termine di confronto dell’amore verso il prossimo, Gesù va ben oltre. Il suo discepolo deve essere disposto a dare perfino la propria vita, esattamente come lui ha dato la sua. Mentre il comandamento mosaico sembrava indurre ad individuare nell’uomo il principio dell’amore, quello di Cristo ne esplicita chiaramente la sua origine e natura divina. Neppure invertendo gli addenti le cose cambierebbero: ama te stesso come sei amato dal prossimo tuo. Anche in questo caso il principio si sposterebbe dal sé al prossimo. L’esperienza, infatti, dice che neppure l’amore del prossimo è sempre vero, autentico, disinteressato. Al contrario spesso genera delusioni, frustrazioni, sfiducia, strumentalizzazioni e così via. Il principio primo dell’amore non è l’uomo: né l’io e né l’altro, ma Dio. Il discepolo è chiamato ad amare gli altri come è amato da. Si deduce dunque che l’amore ha un origine divina e trova la sua massima concretizzazione nel dono che ciascuno, come Gesù, fa di sé agli altri. Il termine di paragone non è più il proprio amore, ma l’amore di Dio, del quale Gesù ha reso testimonianza con la sua vita evangelica e soprattutto con la sua passione e morte. È a questo evento che il discepolo deve guardare d’ora in poi, se intende dare testimonianza dell’amore con cui è stato amato da Cristo. È a questa testimonianza d’amore di Cristo che egli è chiamato a conformare la sua esistenza. Non c’è altro aspetto, se non nell’amore, nel quale Gesù invita i suoi a perfezionare se stessi: “siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48). Non nella conoscenza, non nella scienza, non nella sapienza, non nell’arte e neppure nella tecnologia o l’informatica, ma nell’amore ciascuno è chiamato ad essere come Dio. L’amore ci fa uno con lui, ci fa Dio. L’amore, volendo usare una metafora tipicamente evangelica, è il granello di senape che Dio ha posto nelle zone e nelle zolle più segrete e oscure della nostra umanità, dotandolo di tutta quella forza vitale, capace di orientare, trasfigurandola, la nostra esistenza a lui. Tutto il creato è originato dall’amore, esiste nell’amore e tende all’amore.
La massima espressione di questo amore è il dono di sé: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” (Gv 15,13). Gli apostoli, durante il loro discepolato, vengono gradualmente educati da Cristo a vivere l’amore come un dono, fino a quello totale della propria vita. Questa espressione massima dell’amore non nasce da un atto eroico, e neppure dalla volontà del sacrificio di sé, ma dal desiderio di condividere con gli altri l’amore che Dio riversa nel nostro cuore (cf. Rm 5,5). Il santo non è un eroe che si appella alla propria volontà di potenza, ma una fragile creatura capace di sprigionare tutta la potenza dell’amore di Dio in lui. Solo chi fa esperienza di questo amore può giungere a dare la propria vita.
La prova suprema che verifica l’autenticità di questo amore è la gioia. Chi è amato da Dio dona se stesso con gioia. La gioia è l’espressione dell’amore liberamente accolto e donato. La gioia è il criterio per riconoscere l’amore di Dio nel cuore delle persone. “Dio ama chi dona con gioia” dice san Paolo ai Corinti 9,7. Il suo desiderio più profondo è rendere i suoi figli gioiosi come lui, partecipi della sua stessa gioia: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15, 11). Pertanto è bene guardarsi da quelle persone che pur dicendo di vivere il Vangelo, generano nelle loro relazioni: tensione, ansia, conflitto, ostilità, rigidezza, durezza di cuore.
C’è infine un altro aspetto dell’amore di Dio che mi preme evidenziare e che non sempre viene adeguatamente considerato. Esso scaturisce dalla connotazione tutta particolare che tale amore assume nella testimonianza resa da Cristo. Lo rileviamo dalle sue stesse parole, quando, al termine del suo itinerario formativo, rivolgendosi ai suoi discepoli dice: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). L’amicizia sembra assumere qui la forma più elevata della comunione d’amore vissuta da Cristo. Essa diventa la condizione che consente a Gesù di rivelare ai discepoli la sua intima e profonda relazione col Padre, l’origine divina della sua vita. L’amore che lui condivide col Padre costituisce la forma e il contenuto dell’amicizia sua con i discepoli e dei discepoli tra loro. Essa è la massima espressione della relazione con Dio. Per questa ragione il discepolo di Gesù non è più un servo, ma un amico, come i grandi che hanno tracciato e dischiuso nel corso della storia la relazione interpersonale con Dio. Amico di Dio è stato Abramo (cf. Gc 2,23), Mosè, col quale Dio parlava faccia a faccia (cf. Es 33,11), e ora chiunque condivide con Gesù la sua disponibilità a dare la vita per gli amici: “Voi siete mie amici, se fate ciò che vi comando” (Gv 15,14). Essa, quindi, diviene con Gesù la forma più esplicita e rivelativa dell’amore agapico. Si tratta di una forma relazionale che condivide con l’amore non solo la stessa radice etimologica, ma anche la stessa libertà, la stessa franchezza, la stessa generosità, disponibilità e dis-interesse.
Mi piace concludere questo commento con una metafora: l’amicizia è al tempo stesso il delta che consente all’amore umano di sfociare in quello divino ed estuario che consente all’amore divino di esondare in quello umano.
[1] Per chi desidera approfondire queste diverse forme d’amore rimando alla lettera enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est, del 2005.




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