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08 Agosto 2021 - XIX Domenica del Tempo Ordinario Anno B



1Re 19,4-8; Sal 33; Ef 4,30-5,2; Gv 6,41-51


Il pane che salva



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L’insistenza sul tema del “pane eucaristico” da parte della Chiesa ci fa cogliere l’estrema importanza che esso ha per la nostra fede. Tra gli evangelisti Giovanni è quello che più di tutti si sofferma su questo argomento. Non a caso la liturgia ci sta proponendo, in queste domeniche, la lettura continuata del suo vangelo, nello specifico discorso di Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Vi invito perciò a leggere e rileggere attentamente questo capitolo sesto di Giovanni, nella speranza che quest’estesa e prolungata argomentazione diventi per noi un modo per assimilarne più profondamente il contenuto.

Quest’oggi continueremo il nostro commento al discorso di Gesù partendo dalla “mormorazione”, che i Giudei muovono nei suoi confronti, a seguito della sua grave affermazione: “Io sono il pane disceso dal cielo” (Gv 6,41). Già domenica scorsa abbiamo accennato a questo atteggiamento, riportando alcune citazioni bibliche, nelle quali la mormorazione appare come una caratteristica del popolo d’Israele, specie durante la sua permanenza nel deserto, nel quale, dinanzi ai disagi che esso comporta, manifesta continue lamentele verso Mosè e Aronne, disapprovandone in diverse circostanze le scelte[1]. Si tratta di un atteggiamento che emerge ogni qualvolta il popolo si trova in una situazione di bisogno, nella quale fa fatica a fidarsi di Dio. Gli autori biblici non esitano a evidenziare questo limite caratteriale degli israeliti, attribuendolo soprattutto alla loro dura cervice. Neppure Dio rimane insensibile dinanzi ad esso, tant’è che diventa spesso motivo di intervento divino (cf. Is 42,14-16; 48,4).

Noi cogliamo l’occasione di questo atteggiamento per vedere le affinità col nostro modo di vivere la fede, nei disagi della vita quotidiana, dove sovente ci capita di cedere alla tentazione della lamentela. La mormorazione è un atteggiamento tipico delle persone irrisolte, frustrate, deluse, insoddisfatte delle loro prestazioni, per il mancato raggiungimento dell’obiettivo della loro vita. Esse stanno continuamente a rimproverare gli altri, denunciando i loro errori, accusandole delle disattenzioni nei loro confronti. Tali persone continuano a lamentarsi anche quando ricevono ciò che chiedono. La lamentela diventa così abituale da non riuscire a vedere nella mano sinistra ciò che chiedono con la destra. Si tratta di persone poco inclini a considerare i doni di cui dispongono, per cui stanno continuamente a rimpiangere quello che non hanno. Si considerano spesso vittime di una mentalità discriminante, in realtà soffrono di evidenti complessi di inferiorità, che trovano particolarmente difficile risolvere attraverso un reale confronto con gli altri e con la realtà. La mormorazione si manifesta perlopiù in coloro che non avendo il coraggio di esporsi personalmente, preferiscono bisbigliare sotto voce i loro disagi, piuttosto che denunciarli esplicitamente. A livello giornalistico questo modo di fare viene tradotto con un termine onomatopeico napoletano: “inciuciare”, divenuto ormai anche patrimonio nazionale. Esso dice l’intrigo sotterraneo, col quale si insinua il dubbio e il sospetto nei confronti di chi non si ha il coraggio di affrontare apertamente. In ambito ecclesiale esso è spesso segno di disagio spirituale e relazionale, nei confronti delle autorità o delle strutture ecclesiastiche, diventando in non pochi casi motivo di “asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità” (Ef 4,31), per cui anche molte azioni pastorali vengono fatte mormorando (cf. Fil 2,14).

Per Gesù la mormorazione nei suoi confronti (cf. Gv 6,43) scaturisce da una mancata conoscenza del Padre e soprattutto di un’intima vita relazionale con lui (cf. Gv 6,43-44). Tale mancanza impedisce di acquisire quei criteri divini che consentono di comprendere il vero significato dei suoi segni, e quindi di giungere alla comprensione della sua identità divina: “Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato” (Gv 6,44). Solo chi si dispone a questa intima e profonda rivelazione col Padre può concretamente entrare in sintonia con Cristo. Già i profeti insistevano su questa fondamentale disposizione verso lo Spirito di Dio, senza la quale tutte le interpretazioni umane, nei confronti di Dio, pur meritevoli di conoscenza straordinarie, risultano vane. Gesù traduce questa disposizione in termini di “chiamata”, riconoscendo a Dio il primato della conoscenza divina. Senza la chiamata di Dio nessuno può entrare in sintonia con lui; ancor meno conoscere Cristo ed entrare in comunione con lui. Essa permette di giungere a un tale grado di familiarità con Dio da essere direttamente istruiti da lui (cf. Gv 6,45). Solo chi è chiamato da Dio può “ascoltare”, ovvero “comprendere” il senso dei gesti e delle parole di Gesù: “Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me” (Gv 6,45). Tra Gesù è il Padre sussiste dunque una tale simbiosi che nel mentre egli esplicita il linguaggio comunicativo del Padre e ne rende manifesta la sua intima e misteriosa volontà salvifica, il Padre rivela a quanti entrano in intimità con lui l’identità di Gesù. Per questa ragione la conoscenza del Padre non è possibile senza la mediazione di Cristo e la comunione con Cristo non è possibile senza la chiamata del Padre. Egli è l’unico ad averlo visto, in quanto viene da Dio (cf. Gv 6,46). La conoscenza che egli svela è perciò motivo di salvezza. Questa conoscenza straordinaria che Gesù ascrive a se stesso diventa per i Giudei motivo di contesa.

La cosa più inaudita infatti per loro non è tanto il segno dei pani, quanto l’aver affermato: “io sono il pane disceso dal cielo” (Gv 6,41). È questa identificazione col ‘pane salvifico’ che diventa per loro motivo di mormorazione. Essa suona alle loro orecchie come un’orgogliosa presunzione dal sapore di bestemmia. In realtà anche Mosè, come fanno notare, diede agli ebrei un pane che veniva dal cielo[2], ma non osò minimamente giungere ad identificarsi con esso, come invece fa Gesù. Da qui la loro mormorazione: “Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come può dunque dire: Sono disceso dal cielo?” (Gv 6,42). Essi fanno appello solo alla loro esperienza personale e non si lasciano neppure sfiorare dall’idea di verificare cosa attesti la vericità delle parole di Gesù. Per loro la sua affermazione è solo un atto di presunzione. Per Gesù invece essa viene comprovata dal segno dei pani che l’ha preceduta. Da qui la necessità di interpretare l’affermazione di Gesù alla luce del segno dei pani e di comprendere quest’ultimo alla luce della sua affermazione.

Non è facile esplicitare questa dinamica rivelativa di Cristo. L’evangelista Giovanni si sforza continuamente di farlo attraverso una metodologia argomentativa circolare, nella quale si susseguono, senza soluzione di continuità, disposizioni umane e rivelazioni divine. Esse convergono interagendo l’una con l’altra e l’una nell’altra, fino a creare un’inscindibile sinergia tra la rivelazione dello Spirito e l’intelligenza dell’uomo. Entrare in questa dinamica rivelativa significa partecipare di quella vita relazionale trinitaria che consente di sperimentare la salvezza già nell’oggi della fede in Cristo. La relazione con Cristo diventa perciò non solo fonte di conoscenza divina, ma anche luogo di salvezza. La conoscenza che egli consente di acquisire attraverso la sua rivelazione non si riduce solo ad un appagamento intellettivo, ma diventa essa stessa fonte di vita eterna. Chi si nutre di essa, o meglio, “chi mangia di questo pane vivrà in terno” (Gv 6,51). È chiaro allora che il cibo eucaristico di cui parla Gesù non è solo quello che si presenta sotto le specie del pane e del vino, ma soprattutto della Parola che esce dalla sua bocca (cf. Mt 4,4). È essa che dà senso alla nostra esistenza. Pertanto,

oggi più che mai, la sua Parola ci interpella fortemente, chiedendoci di scrollarci di tutta quella sovrastruttura culturale e devozionistica che ci impedisce di cogliere il senso autentico delle sue dichiarazioni: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo” (Gv 6,51), ecco l’affermazione che scuote la nostra intelligenza invitandoci a dare ragione della nostra fede in lui. Solo chi ha il coraggio di credere in lui ha modo di portare a termine, come Elia, il cammino della propria esistenza e giungere fino al monte di Dio, ovvero alla pienezza della vita eterna, nella comunione d’amore con lui (cf. 1Re 19,7-8).

[1] Basterebbe leggere i racconti dell’esodo nei vari libri del Pentateuco, per renderci conto di quanto fosse frequente questo atteggiamento.

[2] La manna benché fosse un fenomeno naturale, venne interpretata come un segno del cielo, di cui Mosè fu riconosciuto come il mediatore e l’artefice. Un fenomeno che per quanto fosse perfettamente spiegabile sotto il piano razionale, conferì a Mosè un’autorevolezza divina incontestabile.

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