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08/11/2020 - 32° Domenica del Tempo Ordinario - Anno A


Sap 6, 12-16; Sal 62/63; Ts 4, 13-18; Mt 25, 1-13


Per uno sguardo escatologico della vita


La 31a domenica del TO – della quale vi invito a leggere il commento[1], omesso per la coincidenza con la solennità di tutti i Santi – ci ha già introdotto nella prospettiva escatologica, solitamente proposta dalla Chiesa, in questo scorcio d’anno liturgico. Non si tratta tanto di un argomento biblico da imparare per estendere la nostra conoscenza teologica, ma di una visione della storia della salvezza che intende favorire e promuovere l’approccio con ‘la fine’ e ‘il fine’ della nostra vita terrena. Tale visione presuppone uno sguardo sapienziale illuminato dall’amore di Dio, alla cui luce possiamo rileggere tutte le vicende della vita personale e mondiale. Gli eventi storici, infatti, stando alla testimonianza biblica, non accadono in modo insensato e casuale, ma secondo un ‘piano’ che, senza nulla togliere alla libertà dell’uomo, presuppone una misteriosa regia di Dio. Secondo questa visione, la storia personale di ciascuno, come quella comunitaria della Chiesa e sociale del mondo, è come ordinata verso un fine che costituisce non solo il compimento della creazione, ma anche la sua pienezza ontologica (cf. 1Cor 15, 28. In questo senso quel Dio che la nostra fede ci fa professare all’inizio di ogni cosa creata è anche alla fine della loro esistenza terrena.


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Una simile visione si rivela più che mai determinante, nel particolare momento storico, che a giudicare dai segni dei tempi, presenta le caratteristiche di un vero e proprio passaggio epocale; e per questa ragione, considerando la vastità del suo orizzonte storico, necessita di uno sguardo profetico, tipico di quelli che la Bibbia definisce nevi’ìm. Esso non esclude i possibili errori umani determinati dai condizionamenti culturali, al contrario, li considera come motivi e luoghi di una più evidente manifestazione della Sapienza divina, che origina, guida e accompagna ciascuno di noi verso la comunione piena con Dio. Non si tratta perciò di acquisire una visione onnisciente, che naturalmente spetta solo a Dio, ma di partecipare della sua Sapienza divina, che ci abitua a vedere dall’Alto e dall’Altro le cose - o come amava ripetere V. Solov’ëv a: vedere dal fine la storia - collocandole nel giusto quadro del suo piano d’amore e conferendole il senso che Dio ha da sempre pensato per esse. Vedere ogni cosa in Dio e Dio in ogni cosa, ecco il principio, il senso e il fine di questa visione escatologica della storia.

Gesù traduce tutto questo discorso, alquanto impegnativo che mi sto sforzando di esporvi, con alcune semplici parabole che hanno come oggetto il Regno di Dio, nel cui orizzonte colloca la storia del mondo. Tali parabole, in diverso modo e forma, danno prova di una visione sapienziale che favorisce in noi lo sviluppo della prospettiva escatologica della vita. Tra queste, la liturgia di oggi ci propone quella delle Dieci vergini (cf. Mt 25, 1-13), il cui scopo è quello di predisporre i discepoli a vivere la vita come attesa dell’incontro personale con Cristo. La verginità, di cui parla Gesù, è una condizione di vita che necessita di un impegno notevole e che diviene feconda, sotto l’aspetto spirituale, se compiuta in modo libero, deciso e consapevole. Non può essere vissuta in modo ambiguo, pena un’esistenza frustrante e logorante. La sua funzione è quella di predisporre l’amata ad avere un cuore indiviso, puro, capace di accogliere l’amato come il Tutto della sua vita. Allo stesso modo va considerata la fede, alla quale allude Gesù. Anche la fede, come la verginità, costituisce un atteggiamento d’attesa che ha senso solo se animata dalla speranza dell’incontro con Cristo. Diversamente rischia di divenire una condizione snervante e gravosa. Per Gesù, tanto la verginità quanto la fede, possono essere vissute in un duplice modo, che lui definisce: “saggio” e “stolto”. La saggezza di cui lui parla non va identificata con la sapienza, più o meno enciclopedica, del mondo, ma indica quella capacità di fondare ed organizzare la propria vita sulla base della Parola di Dio. Allo stesso modo la stoltezza non va identificata con la stupidaggine del tonto, ma qualifica l’atteggiamento di chi, al contrario del saggio, decide di strutturare la propria vita sulla base della proprio sapere umano. Il passo evangelico che ci dà un’idea di questi significati è quello in cui Gesù parla del saggio che costruisce la casa sulla roccia e dello stolto che la costruisce invece sulla sabbia (cf. Mt 7, 24-27). Tutte e due sono discepoli di Cristo e hanno a che fare con l’ascolto della Parola di Dio, come si deduce dai versetti precedenti, ma mentre lo stolto si ferma alla sola conoscenza intellettuale, il saggio capisce che deve metterla in pratica, se vuole scoprirne il significato più profondo e autentico. Saggezza e stoltezza hanno a che fare dunque con la conoscenza di Dio ed indicano perciò quell’atteggiamento più o meno intelligente con cui ciascuno la traduce nella vita. Tutto ciò ci aiuta a capire che non basta decidersi a favore della fede, ma occorre viverla con intelligenza, se s’intende coglierne i frutti. Diversamente si corre il rischio di viverla invano.

Stando ad alcuni studiosi la parabola descrive le usanze matrimoniali palestinesi, secondo le quali il fidanzato, nell’ultimo giorno di festeggiamenti, era solito recarsi nella casa della fidanzata che attendeva il suo arrivo insieme alle amiche. Al sopraggiungere dello sposo si formava un unico corteo, costituito dagli amici dello sposo e della sposa, che partendo dalla casa di lei, giungeva fino alla casa dello sposo, dove veniva celebrato il matrimonio e consumato il banchetto nuziale. Accanto però a questi aspetti realistici, la parabola presenta anche alcuni elementi allegorici che hanno la funzione di portare l’attenzione dell’ascoltatore sul senso escatologico dell’incontro personale con Cristo. Per questa ragione essa presenta tratti inverosimili, come per esempio il matrimonio celebrato di notte; il sopraggiungere del sonno proprio nel momento più fervido dell’attesa dello sposo; la durezza di quest’ultimo nei confronti delle amiche della sposa, proprio nel giorno del suo matrimonio; l’invito a comprare l’olio nel cuore della notte; l’atteggiamento piuttosto scortese di alcune vergini verso le loro amiche. È chiaro allora che la parabola è strutturata su un duplice livello di lettura, quello realistico e quello escatologico. La notte sottolinea la nostra incapacità di tenere sotto controllo tutte le cose, in modo particolare Dio, sempre imprevedibile nel suo modo di pensare, parlare e fare e quindi la necessità da parte nostra della vigilanza, come atteggiamento fondamentale per farsi trovare pronti al suo arrivo. Il sonno, ovvero la caduta di tensione che scaturisce dalla prolungata attesa, può cogliere chiunque, indipendentemente dal modo con cui viene vissuta la fede. Tutte e dieci vergini infatti si assopirono, anche se al momento della sveglia, solo alcune di esse si rivelano idonee a condividere la comunione con lo sposo. Ciò dipende da alcuni fattori, simboleggiati dagli elementi di cui si muniscono le vergini: la lampada, indica quel deposito sapienziale che si forma dentro di noi, nel quale lasciamo sedimentare la nostra conoscenza di Dio, attraverso lo studio della Parola e la pratica del comandamento nuovo dell’amore; l’olio, designa invece la speranza che anima e dà fervore alla fede, grazie alla quale ci si assicura la possibilità di attraversare l’intero arco della notte e di giungere fino all’incontro con lo sposo; la fiamma è la luce dello Spirito che consente alla nostra intelligenza di scorgere e riconoscere la sagoma dello sposo, malgrado il buio della notte. Per tutte l’incontro avviene nella notte, che simbolicamente allude a quelle circostanze critiche che possiamo sperimentare durante tutto l’arco della nostra vita, nelle quali ci riesce particolarmente difficile riconoscere il volto di Dio, a causa della dura prova, alla quale viene sottoposta la fede. Essa allude inoltre anche a quel momento limite della morte, dalla quale “nessuno può scappare” (san Francesco) o tornare indietro. Si tratta di una circostanza ineluttabile che non ammette indugi e pur volendo, non offre più ulteriore tempo per procurarsi l’olio sufficiente ad illuminare il nostro incontro con Cristo. La possibilità di scoprirsi dentro o fuori la stanza nuziale dipenderà dalle nostre piccole e grandi scelte di fede che avremo fatto nella vita.

Viene da chiedersi se la fede possa rivelarsi così determinante per la sorte futura di ciascuno di noi. La parabola sembra non offrire alternative: l’incontro con Cristo, ovvero con la coscienza più intima e profonda della nostra identità religiosa, sarà inevitabile per tutti, dinanzi al quale ciascuno prenderà atto della propria responsabilità e sarà chiamato a rendere conto della propria esistenza, soprattutto a dare ragione (cf. 1Pt 3, 15-16), questa volta dinanzi a lui, della modalità con cui avremo vissuto la fede. Ecco lo spartiacque o la “pietra d’inciampo” (cf. Mt 21, 42) a cui allude il drammatico dialogo tra le vergini che, implorando, bussano invano alla porta chiusa e Gesù che dall’interno risponde: “In verità io vi dico: non vi conosco” (Mt 25, 12). Parole durissime che sconcertano il nostro quietismo spirituale e perbenismo religioso e che lasciano intendere un possibile e inquietante orizzonte esistenziale dopo la morte. Forse come non mai, in questa circostanza, coglieremo il senso della profezia che il vecchio Simeone fece ai genitori di Gesù al momento della sua Presentazione al tempio: “Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori” (Lc 2, 34-35). La parabola, tuttavia, malgrado il drammatico epilogo a cui danno adito le parole di Gesù, si conclude con un finale serio che interpella profondamente la nostra coscienza, lasciando aperta ogni possibilità: “Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25, 13). In questo senso essa costituisce un accorato invito al senso di responsabilità che la fede comporta per ciascuno di noi, non solo a livello personale, ma soprattutto ecclesiale e sociale. Da qui, l’impegno ad essere segni credibili per quanti nel mondo nutrono la speranza in un futuro relazionale all’insegna della fratellanza dei popoli. Da qui, la profezia di una rinnovata aurora spirituale, della quale siamo responsabili sentinelle, chiamate a vigilare nella notte del mondo, per sussurrare a chiunque lo desideri i criteri con cui riconoscere i segni del Cristo che viene.

Non è certo facile acquisire una simile visione sapienziale della vita. Per essa non basta lo studio teologico, come attestano le conoscenze erudite di tanti sia pure geniali teologi, ma occorre una familiare relazione con Dio e un costante confronto con la sua Parola, che la liturgia ci propone quotidianamente. Per questa ragione invito ciascuno a non limitarsi ad una semplice lettura dei brani biblici, ma a custodirli e sviscerarli mediante l’esercizio quotidiano della meditazione, come suggerisce l’autore del libro della Sapienza: “Chi si alza di buon mattino per cercarla non si affaticherà, la troverà seduta alla sua porta. Riflettere su di lei, infatti, è intelligenza perfetta, chi veglia per lei sarà presto senza affanni” (Sap 6, 14-15).Pregare Dio con la Parola. Ecco allora la forma di preghiera che siamo chiamati ad acquisire. Naturalmente questa pratica necessita di una sinergia tra il nostro spirito e quello di Dio che, come afferma san Paolo, scruta ogni cosa, perfino le profondità di Dio (cf. 1Cor 2, 10). Solo lui infatti è in grado di dischiuderla alla nostra intelligenza e di renderla comprensibile alla nostra ragione. Si tratta, infatti, ribadisce ancora San Paolo, di una sapienza misteriosa, nascosta e nessuno dei dominatori del mondo ha mai conosciuto e che occhio non vide, né orecchio udì, né mai è entrata nel cuore dell’uomo, ma che Dio ha rivelato nella paradossale, assurda e incredibile vicenda storica della passione, morte e risurrezione di Cristo (cf. 1Cor 2, 6ss). In questo senso solo chi dispone di quello sguardo evangelico potrà scorgerla anche nelle vicende drammatiche della propria vita, come può essere l’attuale situazione pandemica, che sta inaspettatamente mettendo in seria discussione tutte le nostre certezze, fondate esclusivamente su una visione politica, economica, scientifica e razionale della vita. Ancora più che in altre epoche storiche veniamo invitati e rivisitare la nostra visione del mondo e a riconsiderarla alla luce della Parola di Dio che, proprio in simili circostanze, si rivela capace di risignificare e riorentare la vita. Una simile sapienza divina non si riduce ad un sapere colto ed esauriente delle varie discipline umanistiche e scientifiche, ma qualifica quella capacità di creare un rapporto intimo e vitale con l’amore salvifico di Dio e di declinarlo in tutti gli ambiti della vita sociale e del sapere umano, non escluso quello scientifico, politico, economico, sociologico, artistico, sportivo ... Pertanto lungi dal considerare la fede come un rifugio delle persone pavide, essa è al contrario la condizione per acquisire lo sguardo di Dio che consente di guardare con coraggio dentro la realtà più incresciosa. È in questo sguardo sapienziale che si fonda la nostra speranza nella risurrezione e quindi di un futuro relazionale vissuto all’insegna della comunione d’amore con Dio (cf. 1Ts 4, 13-14.17).

[1] Potrete trovare questo commento collegandovi al sito www.luigirazzano.com, nella sezione dedicata alle omelie.

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