06/12/2020 - 2° Domenica di Avvento - Anno B
- don luigi
- 5 dic 2020
- Tempo di lettura: 8 min
Is 40, 1-5.9-11; Sal 84/85; 2Pt 3, 8-14; Mc 1, 1-8
Verso una spiritualità d’avvento

L’atteggiamento di attesa che siamo chiamati ad assumere durante questo tempo di Avvento si arricchisce, quest’oggi, di un altro aspetto: la “pazienza”, che insieme all’“attenzione”, alla “veglia” e alla “vigilanza”, che abbiamo imparato a conoscere meglio domenica scorsa, declinano la nostra fede nella pratica del vissuto quotidiano. Si tratta, com’è evidente, di una serie di comportamenti che vanno necessariamente recuperati, se vogliamo evitare una deriva gnostica e ipocrita della fede, ovvero che essa venga ridotta solo ad un discorso teorico e di facciata. In un contesto culturale come il nostro, poi, dove ogni cosa viene cercata sulla base di una mentalità che ci porta a pretendere: “tutto e subito”, “qui ed ora”, “ora o mai più”, tali atteggiamenti non solo si rivelano terapeutici ai fini della nostra ansiosa avidità e brama di possesso, ma ci offrono quanto meno la garanzia di una testimonianza autentica e concreta della speranza evangelica. Ci accingeremo perciò a conoscere meglio questa virtù, per comprendere il modo con cui attuarla nella nostra vita quotidiana e capire il contributo che essa può offrire alla pratica e allo sviluppo della fede.
Il brano biblico dal quale l’attingiamo è la seconda lettera di Pietro[1], alla quale, per altro, ho già fatto un breve accenno domenica scorsa. A partire da essa ci sforzeremo, poi, di estendere il nostro commento anche agli altri brani biblici, nella speranza di recuperare i temi che li caratterizzano.
La necessità di sviluppare una simile virtù, nell’oggi del nostro contesto ecclesiale e sociale, si comprende meglio alla luce di quella questione che l’Apostolo riporta nei versetti precedenti al nostro brano, quando dice: “Dov’è la promessa della sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto rimane come al principio della creazione” (2Pt 3, 4). Si tratta di una incomprensione che aveva ingenerato nella comunità il progressivo diffondersi di un sentimento di delusione, dovuto alla mancata realizzazione della promessa di Dio, secondo i tempi previsti da coloro che erano convinti di un ritorno imminente di Cristo. Dinanzi alla reale possibilità di una confusione dottrinale, Pietro avverte la necessità di intervenire a scopo chiarificatorio. In realtà, afferma Pietro: “Davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non ritarda nell’adempiere la sua promessa, come certuni credono; ma usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi” (2Pt 3, 8). È interessante notare che la difficoltà manifestata dalla comunità è la stessa che in più occasioni hanno evidenziato anche gli apostoli, come attestano le varie domande che essi pongono a Gesù circa i tempi in cui dovranno realizzarsi gli eventi escatologici (cf. Lc 21, 7; Mt 24, 34; At 1, 6).
Riconsiderando attentamente questo brano, alla luce dell’attuale situazione culturale, viene da notare in primo luogo la capacità con cui Pietro si fa interprete di quel malcontento che rischia di svuotare dall’interno la speranza e intiepidire il fervore della fede della sua comunità. A quanto pare la situazione non è così diversa dalla nostra, dove però la speranza sembra essere stata svuotata dal consumismo e la fede intiepidita dall’individualismo. La risposta di Pietro in ogni caso si rivela decisiva. Col suo tempestivo intervento e soprattutto con la sua interpretazione teologica, offre una visione capace di far spostare l’attenzione dal “quando”, al “come” e al “perché” dovrà compiersi la promessa. L’importante, fa notare Pietro, non è sapere “il tempo” in cui Dio realizzerà la sua promessa, ma cogliere le condizioni e le possibilità che lui offre durante l’attesa, affinché ciascuno si salvi: “Egli usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi”. La pazienza a quanto pare si rivela decisiva ai fini dell’attesa e quindi al modo con cui conseguire la salvezza nell’oggi.
Nella nuova traduzione, disponibile nell’attuale brano liturgico, il termine greco, solitamente tradotto con “pazienza”, viene reso con quello di “magnanimità”, che lascia intendere la ragione che induce Dio ad essere paziente nei nostri confronti, perciò esso sottolinea l’indulgente benignità di Dio, dovuta alla generosa elargizione del suo amore. Dio è paziente non perché è capace di resistere all’imminente esplosione della sua “ira”, o perché è in grado di rimandare nel tempo l’inesorabile desiderio di condanna, che egli nutre con ardente brama, bensì perché vuole che nessuno perisca e che tutti abbiano modo di salvarsi. La pazienza di Dio sta nella capacità di stemperare, col suo infinito amore misericordioso, l’insostenibile negligenza spirituale dell’uomo.
Questo modo divino di praticare la pazienza ci fa capire che alla base del nostro esercizio non deve esserci solo una pratica ascetica che fa leva sulla forza della volontà, della sopportazione, della tolleranza o della resistenza, bensì occorre disporre di quel deposito d’amore che è la misericordia divina, con la quale diventa possibile sciogliere, nel perdono, ogni sentimento di giudizio e di condanna, e cancellare ogni rimasuglio d’ira e di rancore che possiamo nutrire nei confronti di coloro che ci provocano, ci molestano o ci offendono.
Consapevole di ciò Pietro, dunque, non si limita ad un’esortazione moralistica, ma offre una visione escatologica con la quale dà ragione della speranza. Una certezza la sua che scaturisce dall’intima convinzione della sua fede in Cristo. Si comprende così ancora meglio quello che l’Apostolo dice all’inizio della sua lettera: “Mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno, all’amore fraterno la carità” (2Pt 1, 5-7). È evidente che anche noi dinanzi a quelle numerose forme di malcontenti e delusioni che serpeggiano nelle nostre comunità, non possiamo limitarci a chiedere alle persone una maggiore partecipazione ai sacramenti o un più attento impegno morale e liturgico, occorre, più che mai giungere, come Pietro, a dare una risposta fondata sull’autorevolezza dell’amore evangelico, che scaturisce dal vissuto quotidiano. E’ a queste condizioni che possiamo riaprire nel cuore delle persone, quei nuovi orizzonti esistenziali, capaci, come afferma lo stesso Apostolo, di riaccendere la speranza ed aprire lo sguardo verso i “cieli nuovi e terra nuova, nei quali abita la giustizia di Dio” (2Pt 3, 13).
Volendo provare a descrivere la pazienza alla luce di questi brani, potremmo dire che essa è quella facoltà d’animo che dispone le persone ad accogliere, a vivere e a sostenere – con letizia, serenità, calma e tranquillità – il dolore, le avversità, le difficoltà, le molestie, le contrarietà, insomma tutte quelle situazione che mettono a dura prova la nostra relazione con gli altri. Essa, perciò, mentre ci aiuta a controllare la nostra emotività e quindi i sentimenti di ira, collera, sdegno, rancore, astio, angoscia, depressione, amarezza, delusione, tristezza ci permette, al contempo, di operare e sviluppare il bene. Dio attraverso di essa, come sottolinea san Pietro, ci offre l’occasione di prendere coscienza della nostra condizione, dandoci il “modo di pentirci” (cf. 2Pt 3, 9), così da conseguire la salvezza, anche attraverso la pratica delle virtù che l’accompagnano (2Pt 1, 5-7). Essa costituisce perciò la condizione per entrare nei “tempi di Dio”, vivere cioè il tempo come kairós, ovvero come “tempo di grazia”, che è per l’appunto il momento favorevole, giusto e opportuno, per cogliere, nel presente, la salvezza di Dio. In questo senso la pazienza ci educa a “vivere” il tempo più che a lasciarlo “sfuggire”; a “gustarlo” più che a “consumarlo”; ad “estenderlo” più che a “sfruttarlo”; a “custodirlo” più che a “rincorrerlo”. Entrare nel tempo di Dio significa perciò fare dell’attimo presente, l’unico che ci è dato di vivere, il luogo dell’eternità e dell’eternità l’attimo (il kairós) da estendere a tutto l’arco della nostra storia. Un po’ come lo stesso Pietro ci lascia intendere quando afferma che: “Davanti al Signore un solo giorno è come mille anni e mille anni come un solo giorno” (2Pt 3, 8). Desiderio di Dio, dunque, è che nessuno si perda, per questa ragione egli fa di tutto pur di salvare ad ogni costo qualcuno (cf. 1Cor 9, 22).
La pazienza tuttavia costituisce anche il modo con cui Dio mette alla prova la nostra attesa, per saggiare la nostra perseveranza nel conseguire la salvezza. In questo senso, come afferma Gesù: “Solo chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvato” (Mc 13, 13). Ciò significa che la pazienza non può essere esercitata fine a se stessa, ma in vista della realizzazione di una promessa, che è esattamente quella che Dio fa ad Abramo: “In te saranno benedette tutte le famiglie della terra” (Gen 12, 9), che Dio realizza in Cristo e questi compie definitivamente alla fine dei tempi, quando consegnerà ogni cosa a Dio Padre, finché Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15, 24-28). Senza la promessa dunque nessuna pazienza può essere esercitata. Essa anima la speranza e la speranza ci insegna ad attendere, con pazienza, il conseguimento della salvezza. Questa intima e inscindibile relazione tra fede, attesa, promessa, pazienza, speranza e salvezza costituisce il dinamismo della nostra ‘spiritualità d’avvento’ e che noi, oggi, più che mai, siamo chiamati, a manifestare nel contesto della nostra vita culturale e sociale. È in questi termini che saremo in grado di dare ragione di quell’annuncio salvifico che sta alla base della vita evangelica, alla quale abbiamo aderito e che ci sforziamo di testimoniare nel nostro vissuto quotidiano.
Senza questo vissuto spirituale diventa estremamente difficile cogliere il senso di quel grido di gioia di cui si fa testimone il profeta Isaia: “Consolate, consolate il mio popolo … gridatele che la sua tribolazione è compiuta” (Is 40, 1-2), col quale egli decreta la fine dell’esilio babilonese, e col quale ciascuno di noi, attuandolo, può imparare a dare speranza a quanti non riescono a gettare lo sguardo oltre il buio di questa crisi pandemica. Da qui la necessità che anche noi come Isaia, impariamo a generare nuovi atteggiamenti di fiducia, di attesa, di aspettativa in un rinnovato intervento di Dio, che dia un ‘respiro d’eternità’ a questa esistenza soffocata dalla tristezza, dal pessimismo, dalla sfiducia, dalla diffidenza. Impariamo anche noi, come il Battista, a tracciare nel deserto del nostro individualismo, nuove vie di relazioni autentiche, capaci di smussare gli spigoli delle nostre superbie, di abbattere i muri delle nostre divergenze, di sciogliere i nodi delle nostre tensioni, di stemperare i conflitti dei nostri egoismi, sconfinare le frontiere delle nostre politiche e delle nostre economie, colmare le voragini delle nostre angosce esistenziali e ripetere, ancora una volta, con la stessa convinzione del Battista: viene dopo di noi, uno che è più forte di noi, dei nostri sistemi, delle nostre certezze; uno in grado di rinnovare dall’interno la nostra mentalità, i nostri affetti, le nostre relazioni. Uno che ci ripete, senza mai stancarsi: non temere, io porto come me il premio: lo Spirito che grida: “Ecco, io faccio nuove tute le cose” (Ap, 21, 5).
È qui il principio di quella trasformazione escatologica che coinvolgerà non solo la nostra esistenza umana, ma l’intero creato in quell’evento redentivo che Cristo ha originato a partire dalla sua incarnazione nel mondo. È qui che s’origina quella speranza che ci permette di ripetere ancora una volta: Dio verrà! Certamente verrà! “Perciò, carissimi, nell’attesa di questi eventi, fate di tutto perché Dio vi trovi in pace, senza colpa e senza macchia” (2Pt 3, 14).
[1] Per chi lo desidera suggerisco di meditare anche la parabola del Servo spietato (Mt 18, 21-35), dove la “pazienza” anche se non viene esplicitamente menzionata è come presupposta nell’atteggiamento che il padrone manifesta nei confronti del servo. Inoltre di essa parla abbondantemente anche Paolo in diverse sue lettere, come: 2Cor 12, 12; Tt 2,2; Rm 3, 25 ...




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