top of page

04 Settembre 2022 - Anno C - XXIII Domenica del Tempo Ordinario


Sap 9,13-18; Sal 89/90; Fm 1,9-10.12-17; Lc 14,25-33



Conoscere la volontà di Dio

per radicarci nella sequela di Cristo



ree

Due sembrano gli aspetti sui quali la Chiesa ci invita a soffermare la nostra attenzione: uno riguarda la conoscenza della volontà di Dio; l’altro riguarda invece la radicalità della sequela di Cristo. La liturgia della Parola di quest’oggi ce li fa cogliere nella loro complementarietà, come a dire che non è possibile comprendere e mettere in pratica la scelta evangelica di Cristo senza fondarla sulla conoscenza della volontà di Dio; allo stesso modo non ha senso impegnarsi a indagare la profondità e la ricchezza della Sapienza di Dio senza farla sfociare nel vissuto della vita evangelica di Cristo.

Il primo aspetto ci viene proposto dal libro della Sapienza, dal quale vien tatto il brano della prima lettura. Esso viene introdotto da una serie di interrogativi che evidenziano la difficoltà e il limite della conoscenza umana e, al contempo, il carattere ignoto e insondabile della volontà di Dio: “Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore … chi ha investigato le cose del cielo?” (Sap 9, 13.16c). In realtà già l’esistenza di Dio ci appare spesso un mistero incomprensibile, ancora più indecifrabile si rivela poi l’abisso della sua mente. San Paolo sembra far eco a queste considerazioni, quando riflettendo sulla realtà di Dio, rimane attonito dinanzi al mistero della sua sapienza e pieno di stupore dice: “O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie! Infatti, chi mai ha potuto conoscere il pensiero del Signore? O chi mai è stato suo consigliere? O chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio?” (Rm 11,33-35).

Quella appena descritta sembra dunque essere una sapienza impenetrabile, difficile da scandagliare con i nostri mezzi razionali. Davanti ad essa lo sforzo investigativo e riflessivo umano manifesta tutta la sua pochezza e fragilità, contrassegnato com’è da incertezze, dubbi, e appesantito da preoccupazioni, ansie e affanni (cf. Mc 4,18-19): “I ragionamenti dei mortali sono timidi e incerte le nostre riflessioni” … “a stento immaginiamo le cose della terra, scopriamo a fatica quelle a portata di mano” (Sap 9, 16). La fatica scaturisce dal fatto che quella in questione - come dice ancora san Paolo - è “una sapienza che non è di questo mondo, né dei dominatori di questo mondo … ma è una sapienza divina, misteriosa, che è rimasta nascosta ... Nessuno dei dominatori di questo mondo ha potuto conoscerla” (1Cor 2,6-8). “Chi infatti ha conosciuto il pensiero del Signore in modo da poterlo dirigere?” (1Cor 2,16).

Questi pochi versetti ci offrono la possibilità di fare luce sulla situazione di chi pur ponendosi in ascolto della Parola di Dio trova difficile capire la sua volontà. D’altra parte è anche vero che quando riteniamo di aver acquisito una certa esperienza conoscitiva delle cose divine, ne scopriamo subito i limiti, poiché Dio si mostra sempre diverso rispetto ai nostri linguaggi comunicativi e sfuggente ai nostri criteri conoscitivi, o comunque differente rispetto alle nostre attese. Da qui la domanda: come è possibile conoscere la volontà di Dio? Che fare dinanzi ad un simile mistero? Come gettare uno sguardo al suo interno? A quali condizioni è possibile penetrare nella mente di Dio? Per rispondere a queste ulteriori domande ci rifacciamo ancora una volta al libro della Sapienza e alle lettere di san Paolo. In particolare il libro della Sapienza sembra individuare una delle ragioni principali che impediscono alle persone di accedere alla conoscenza della volontà di Dio, quando dice: “I ragionamenti tortuosi allontanano da Dio; l’onnipotenza messa alla prova caccia gli stolti. La sapienza non entra in un’anima che opera il male, né abita in un corpo schiavo del peccato” (Sap 1,3-4). Diversamente Dio “si lascia trovare da quanti non lo tentano, si mostra a coloro che non ricusano di credere in lui” (Sap 1,2). Ma la condizione fondamentale per acquisire la sapienza di Dio è il dono del suo Spirito: “Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi inviato il tuo santo spirito”; grazie al quale: “gli uomini furono istruiti in ciò che ti è gradito e furono salvati per mezzo della sapienza” (Sap 9,17). Una considerazione quest’ultima sullo Spirito che apre un orizzonte insperato. Lo Spirito di Dio, infatti, è colui che consente allo sguardo dell’uomo di entrare nell’abisso del mistero di Dio. Cosa che viene ribadita anche san Paolo: “Lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ora noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato” (1Cor 2,10-12). Lo Spirito di Dio è colui che predispone le persone alla conoscenza di Dio, e attraverso una frequentazione assidua della sua Parola crea un’affinità, una familiarità col nostro spirito, fino a conformarlo alla logica conoscitiva e rivelativa di Dio. Egli, per così dire, lo converte alla mentalità salvifica di Dio. Senza di lui “l’uomo naturale non può comprendere le cose di Dio”, anzi queste appaiono perfino “follia per lui, e non è capace di intenderle, poiché esse possono essere giudicate solo per mezzo dello Spirito” (1Cor 2,14). Questa operazione tuttavia non esclude i fraintendimenti, gli equivoci, i malintesi, le ambiguità che nascono da una visione umana di Dio condizionata dal peccato. Esso è così influente da alterare la nostra capacità percettiva, fino a minare la fiducia, che costituisce la condizione fondamentale per un’autentica relazione di fede.

Ma chi sono i destinatari dello Spirito di Dio? A chi Dio elargisce il dono del suo Spirito? A queste domande ancora una volta lasciamo rispondere san Paolo: “Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono nel cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano” (1Cor 2,9). Dio si rivela a chi lo ama: “A chi mi ama mi manifesterò” (Gv 14,21), dice Gesù. Costoro sono quelli che accedono “al pensiero di Cristo” (1Cor 2,14-16). Intanto allora possiamo conoscere Dio e la profondità del suo pensiero in quanto è lui che liberamente decide di rivelare la volontà del suo piano salvifico per mezzo del suo Spirito a coloro che si dispongono ad ascoltarlo.

Questo preambolo sapienziale ci introduce immediatamente nel secondo aspetto della nostra liturgia che come abbiamo detto riguarda la radicalità della sequela di Cristo. L’episodio evangelico di Luca ci offre il pretesto per trattarlo. Esso ci riferisce di una “folla” che “numerosa” si era messa alla sequela di Cristo. Provocato da questa libera iniziativa Gesù coglie l’occasione per formulare una delle sue più drastiche condizioni di sequela: “Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, fratelli e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). La totalità dell’amore che Gesù chiede per sé assume qui forme di estrema radicalità ed è estesa a tutte le condizioni di vita: egli non è esigente solo verso i giovani o figli, come siamo soliti interpretare questo passo, ma anche verso i genitori: anch’essi sono chiamati ad amare Gesù più dei loro figli. Un’esigenza questa che ci sconvolge, poiché nella nostra educazione e formazione culturale e religiosa siamo abituati a considerare la famiglia già come un valore cristiano sommo, indiscutibile, ovvero una via di sequela, un sacramento di salvezza. Gesù invece, con questa richiesta così assoluta, sembra metterne in discussione l’unicità e la specificità, a favore di una sequela evangelica, come quella compiuta dagli apostoli, che non ammette altri affetti e relazioni che non siano quelli esclusivi stabiliti da lui. È possibile che Gesù chieda ad una moglie di lasciare il marito per lui o al marito di lasciare la moglie per lui o ancora che chieda a un genitore di porre lui al di sopra della sua famiglia? La tradizione ecclesiale ci ha abituato a riscontrare questo tipo di scelta da parte di un figlio o di una figlia, che per quanto siano ancora legati al vincolo familiare, sono comunque chiamati a compiere una scelta di vita; ma che un genitore lasci la famiglia per lui è una scelta decisamente inconsueta, almenoché non si creino le dovute condizioni, come la vedovanza o che i figli siano già adulti e sistemati a loro volta. Come va intesa allora questa esigenza radicale che Gesù estende anche ai genitori? Specie se consideriamo quei casi in cui il matrimonio ha già una rilevanza sacramentale cristiana. È possibile che Cristo chieda loro di lasciare il “matrimonio” per sostituirlo con il sacramento dell’“ordine”? Questo modo di intendere la priorità dell’“ordine” non rischia di far passare il matrimonio come un sacramento di “serie b”, subordinato ad esso; previsto per coloro che non riescono a compiere scelte così radicali e totalizzanti come quelle praticate dagli apostoli? Per un’esatta comprensione di questa particolare chiamata di Gesù, occorre calarla all’interno del sistema religioso e morale ebraico, praticato da Gesù e dai suoi discepoli, per i quali il matrimonio pur avendo una forma contrattuale e santificativa, non aveva il valore sacramentale della indissolubilità, come viene ripristinato da Gesù (cf. Mc 10,6-9). Esso era sì segno dell’amore di Dio per il suo popolo, ma a certe condizioni prevedeva anche il suo scioglimento (cf. Mc 10,4). Nella prospettiva cristiana invece esso è considerato indissolubile, pertanto coloro che lo conseguono sono chiamati a viverlo come via della volontà di Dio su di loro. Essi non hanno altra condizione per conformarsi alla santità di Dio se non attraverso il matrimonio, concepito come fondamento, luogo e condizione di reciproca unità, nella quale sono chiamati a “diventare una sola cosa” (cf. Mc 10,8). In questo senso esso diventa sacramento dell’amore sponsale di Cristo con la Chiesa (cf. Ef 5,25-32), sacramento della Nuova Alleanza che sancisce quella delle “Nozze dell’Agnello” secondo la visione giovannea descritta nel libro dell’Apocalisse 19,7-10; e in definitiva quella divina tra il Padre e il Figlio, i quali pur essendo distinti l’uno dall’altro, sono una sola cosa nell’amore dello Spirito. Si capisce allora che Gesù non chiede la rinuncia di questa forma d’amore matrimoniale, bensì di quelle in cui il suo amore sacramentale non è contemplato, come per esempio può essere quella dell’attuale convivenza umana o quella dell’unione civile, dove però viene richiesta una conversione alle condizioni cristiane.

Per rendere ancora più chiara e comprensibile questa esigenza evangelica di Gesù è opportuno cogliere il senso dei “paragoni” che egli fa tra la “sua sequela” e la “costruzione della torre” (cf. Lc 14,28-30) e “la battaglia di un re contro il suo nemico” (cf. Lc 14,31-32). Attraverso l’esempio della “torre” Gesù intende dirci che nessuno può decidere di compiere una scelta esistenziale nella vita se “prima non si siede a calcolarne la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine” (Lc 14,28). Il che significa che chi decide di compiere la scelta della vita evangelica, deve in primo luogo verificare di essere stato chiamato da Dio e poi di disporre di quelle qualità necessarie a praticare lo stile di vita evangelico da lui proposto. Questa operazione richiede un periodo previo di discernimento, senza il quale la vita spirituale rischia di ingolfarsi in una serie di difficoltà psicologiche e relazionali, tali da mandarla in crisi irreversibile, senza cioè avere più la capacità di ripristinarla. La vita evangelica, infatti, aldilà dell’aspetto suggestivo e ideale dell’amore che propone, è molto esigente e impegnativa e non può essere praticata, così a buon grado e da chiunque, semplicemente perché ne avverte il fascino, specie da chi si lascia andare frequentemente in facili entusiasmi e poi dinanzi alle difficoltà che essa provoca ci si tira indietro, perché incapace di assumersi le proprie responsabilità. Diversamente detto: non basta la decisione di una scelta personale, libera e volontaria che sia, se questa non viene confermata e resa idonea dalla Chiesa. Nel caso dunque di chi capisce di seguirlo nella “via del matrimonio” è importante sapere che l’amore che lui esige per se stesso è al di sopra di quello che il marito può nutrire per la moglie e la moglie per il marito. Lo stesso vale anche nei confronti dei genitori verso i figli e dei figli verso i genitori. Chi ama costoro più di lui non è degno della sua sequela. Queste sono le condizioni del matrimonio cristiano. Ed è importante conoscerle prima di intraprendere una simile scelta.

L’identico discorso vale anche per chi decide di seguirlo nella “via dell’ordine”, caratterizzata cioè dai cosiddetti “consigli evangelici”, ovvero di chi si spinge ad amarlo secondo le condizioni della obbedienza, povertà e castità evangelica. Si tratta di una scelta apparentemente incomprensibile agli occhi del mondo, ma sensata e chiara per chi decide di consacrarsi liberamente al suo amore. Gesù la giustifica attraverso questo suo detto: “vi sono infatti eunuchi[1] che sono così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca” (Mt 19,10-12).

Col paragone della battaglia, invece, Gesù intende ribadire un dato abbondantemente avallato dalla tradizione biblica e che cioè la vita spirituale è essenzialmente una lotta contro il nemico dell’uomo. Nessuno che si prepara a intraprenderla può pensare di sfuggire ad essa o di eludere le battaglie che si presentano nelle diverse forme di tentazioni a cui si va incontro, durante la sua pratica quotidiana. “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” dice il libro del Siracide 2,1. Diversamente, se si prende atto di non disporre delle qualità necessarie, atte ad una simile impresa, è opportuno scegliere una forma più lieve di sequela. Evitando così di soccombere alle astute strategie del nemico.

Alla luce di queste riflessioni prendiamo atto che la vita evangelica ha le sue esigenze e per questo motivo necessita, oggi più che mai, di essere compresa per giustificarla dinanzi alle sfide culturali del nostro tempo. Da qui la conclusione a cui giunge Gesù al termine di questi paragoni. Che diventa anche la nostra al presente commento evangelico: “Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (Lc 14,33). Ancora una volta la povertà richiesta da Gesù prima di manifestarsi a livello fisico è indicativa di quella libertà di spirito, necessaria a quella scelta d’amore radicale prevista dal suo Vangelo.



[1] Gli eunuchi erano quegli uomini privi di facoltà virili o per difetto naturale o in seguito ad un’evirazione. In certi ambienti regali questo stato di vita fisica diventava persino un ruolo di corte. Eunuchi infatti erano i camerieri di fiducia del re che venivano posti al servizio della regina, certi di non creare problemi di ordine sensuali.

Commenti


© Copyright – Luigi RAZZANO– All rights reserved – tutti i diritti riservati”

  • Facebook
  • Black Icon Instagram
  • Black Icon YouTube
  • logo telegram
bottom of page