4 Luglio 2021 - XIV Domenica del Tempo Ordinario Anno B
- don luigi
- 4 lug 2021
- Tempo di lettura: 8 min
Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6
La durezza del cuore

Dopo la straordinaria testimonianza di fede dell’emorroissa e di Giairo (cf. Mc 5,21-43), la liturgia della Parola di oggi ci presenta due brani biblici che fanno luce su un atteggiamento di tutt’altra valenza religiosa: la durezza del cuore. La Bibbia parla spesso di questo aspetto, ritenendolo come un atteggiamento tipico d’Israele, riconosciuto come “popolo di dura cervice” (cf. Es 32,7-14; 33,5; 34,9; Dt 9,6.13;10,16; 31,27) o “genia di ribelli”, come preferisce definirlo il profeta Ezechiele (cf. Ez 2,2.5.7.8; 3,9.26.27; 12,2.3.9.25). Anche Gesù non manca di rilevare questo atteggiamento in diversi suoi ascoltatori (cf. Mt 13,15) e non esita a rimproverarlo perfino ai suoi apostoli, come annota Marco a seguito del miracolo della moltiplicazione dei pani: “Non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito” (Mc 6,52). I padri traducono questa espressione con un termine greco, il cui lessico è tutt’ora presente nel nostro vocabolario: sclerocardia, da sklèros che significa duro, e kardìa che significa cuore.
In medicina il termine indica l’ispessimento delle strutture di sostegno di un organo che ne rende difficile il funzionamento. In senso figurato la sclerosi si riferisce a tutta una gamma di comportamenti che indica la mancanza di flessibilità, di elasticità mentale e quindi di irrigidimento dinanzi ai mutamenti della vita. Così, a livello intellettivo la sclerosi si manifesta quando facciamo fatica ad uscire fuori dai nostri rigidi schemi razionali, specie quando essi non sono più in grado di rispondere alle rinnovate esigenze culturali; a livello morale invece quando non riusciamo ad incarnare nelle circostanze concrete, i principi etici ai quali ci ispiriamo, assumendo comportamenti duri, inflessibili, sotto l’aspetto legale; mentre a livello spirituale, essa si manifesta quando ci mostriamo incapaci di essere compassionevoli, misericordiosi, indisponibili ad andare al di là delle offese ricevute. Specie a questo livello la sclerocardia può diventare una vera e propria patologia che impedisce qualsiasi tipo di cambiamento e quindi di conversione. La sua prolungata reiterazione può portare ad una morte spirituale, rendendo l’uomo cieco e sordo, incapace di percepire anche le più evidenti sollecitazioni e moti dello Spirito. Essa è un sintomo di quell’idea di autosofficienza, sempre attiva in noi, che è all’origine del peccato e che, nella sua forma più eclatante, si manifesta attraverso quei sentimenti di ribellione o di scetticismo verso Dio.
Può sembrare un paradosso, ma la sclerocardia costituisce la principale forma di tentazione che si manifesta nella vita di chi, come il popolo d’Israele, è chiamato a tessere con Dio un rapporto interpersonale. Per il profeta Ezechiele non c’è altro modo di guarire da questa malattia se non con un “trapianto del cuore”, come lascia intendere da una delle sue pagine profetiche più belle, dove, facendosi interprete della parola di Dio, dice: “Vi darò un cuore nuovo, infonderò dentro di voi uno spirito nuovo, rimuoverò dal loro petto il cuore di pietra e vi porrò un cuore di carne, così che seguano i miei decreti, rispettino i miei precetti, osservino le mie leggi e li mettano in pratica; essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio” (Ez 11,19-20; 36,24-29). Nel brano di oggi egli ci racconta la visione che è all’origine della sua missione profetica, alla quale Dio lo chiama, nel tentativo di convertire il cuore del suo popolo: “Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me … Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito” (Ez 2,3-4). Non importa se essi ti ascolteranno o meno, dovranno perlomeno riconoscere che c’è un profeta in mezzo a loro (cf. v.5). Ezechiele, sin dall’inizio, sa che la sua è una missione difficile. Egli non incontrerà persone disponibili a riconoscere il carattere profetico dei suoi interventi, tanto meno chi è disposto a facili consensi. Nessuna idealizzazione che renda la sua missione attraente presso il popolo; nessuna speranza di incontrare qualcuno che lo aiuti a portare il peso della responsabilità. Al contrario dovrà affrontare i numerosi contrasti e le continue resistenze facendo affidamento solo su Dio. Tutte difficoltà che lo porteranno a sperimentare le più dure ribellioni e rifiuti. Quella del profeta si rivela, perciò, tra le missioni divine più difficili.
Lo stesso Gesù vive questa missione profetica con la consapevolezza che “un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua” (Mc 6,4). Egli è chiamato a manifestare la volontà di Dio in tutte le circostanze della vita, specie quelle più complesse, dove risulta così intrecciata con i pensieri e i sentimenti umani, da renderne difficile il discernimento, come emerge dal comportamento dei Nazaretani, in questo complesso episodio evangelico di oggi, dove dietro a quel facile entusiasmo paesano, carico di stupore e meraviglia, si nasconde la difficoltà a riconoscere lo spessore profetico della sua persona.
Ma proviamo ad entrare nel brano evangelico, per individuare la possibile ragione che spinge questi Nazaretani a mutare cosi repentinamente il loro comportamento nei confronti di Gesù. Pe farlo vi suggerisco di leggere lo stesso episodio in Matteo 13,53-58 e in Luca 4,16,30. In particolare quest’ultimo ci offre anche uno spaccato sul contenuto del discorso che Gesù fece nella sinagoga. Se da una parte esso si rivela così pregno di sapienza da suscitare sentimenti di stima e ammirazione: “Da dove gli vengono queste cose. E che sapienza è quella che gli è stata data?” (Mc 6, 2; cf. Lc 4,22), dall’altra le pretese avanzate da Gesù: “Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con le vostre orecchie” (Lc 4,21), in merito alle profezie di Isaia 61,1-2 e Sofonia 2,3, diventano la causa scatenante della loro irritazione: “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui con noi?” (Mc 6,3). Pertanto quello che sembra un apparente motivo di apprezzamento, costituisce in realtà la ragione dello scandalo: “e si scandalizzavano di lui” (Mc 6,3; Mt 13,57). In Luca lo scandalo sfocia addirittura in una reazione di sdegno così violenta da decidere addirittura di eliminarlo, gettandolo giù dal precipizio, sul quale era situata la città (cf. Lc 4,28-29). Ed è sintomatico che la resistenza e l’incredulità che essi manifestano nei confronti di Gesù è tale da impedirgli perfino di operare dei miracoli (cf. Mc 6,5-6).
La reazione emotiva dei Nazaretani sembra riflettere molto da vicino l’atteggiamento religioso di molti di noi cittadini nell’attuale contesto sociale. Anche noi, mentre da una parte sembriamo essere così fieri della cultura promossa dalla fede cristiana, dall’altra ci mostriamo molto riluttanti a praticare seriamente i principi evangelici che essa propone. Ciò si è rivelato particolarmente evidente in certe situazioni. Così, come qualcuno ha giustamente notato, ci ritenevamo tutti perfettamente integrati e animati da principi religiosi cristiani, finché gli extracomunitari non sono entrati in massa nei nostri paesi, scatenando le più furiose reazioni razziste. La stessa formula “sia fatta la volontà di Dio”, così frequente sulle bocche di tanti dei nostri anziani, sembra più dettata da uno spirito di rassegnazione che non da una reale consegna a Dio. Volendo, potremmo estendere il discorso anche a livello spirituale ed esistenziale, evidenziando la notevole difficoltà che tanti giovani manifestano nel fare luce su tutta quella gamma di resistenze psicologiche e culturali che impediscono di incarnare il vangelo nel proprio vissuto quotidiano.
Tutto ciò dice che anche noi, come i Nazaretani, siamo abituati ad immaginare le persone famose più alla luce di quell’apparato formale che non nella semplicità dello spirito evangelico. Anche noi rimaniamo scandalizzati da quell’atteggiamento semplice del loro modo di fare che scardina le nostre strutture religiose, prospettive culturali e relazionali. Quante autorità politiche, civili, militari, culturali, passerebbero perfettamente inosservate se non li rivestissimo di quella forma sociale e gerarchica che conferisce loro rispetto, notorietà ed importanza? E come addolora quando questa stessa mentalità noi cristiani la estendiamo anche alle nostre autorità religiose. Gesù, fuori da tutti questi schemi sociali e culturali, manifesta il suo spessore profetico fondato più sull’autorevolezza carismatica della sua persona che non sull’esercizio del ruolo sociale, conferitogli da qualche potere religioso. La semplicità con la quale egli si presenta e si fa interprete del piano salvifico di Dio, in mezzo al suo popolo è così disarmante, da indurli a ritenerlo un arrogante presuntuoso. La conoscenza che essi vantano di possedere della sua vita quotidiana e familiare, e delle sue umili origini impedisce loro di riconoscere in lui la presenza di Dio all’opera. Passare dalla visione religiosa di un Dio perfetto, alla fede in un Dio che si manifesta nella semplice umanità di una persona è questo lo scandalo provocato da Gesù. “La fede – come afferma Fausti - non è accettare che Gesù si faccia Dio, ma che Dio sia Gesù”. È lo scandalo dell’incarnazione. Un Dio che ci salva con e attraverso la sua carne: “Cardo salutis caro: la sua carne è cardine della salvezza!”. È lo scandalo della fede cristiana: nell’uomo Gesù, in tutto simile a noi, abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). È lo scandalo contro il quale molti inciampano e cadono. Diversamente è nell’accoglienza di questo mistero l’inizio della salvezza. La fede cristiana non è un cammino di perfetti virtuosi tra giusti, ma di peccatori salvati dall’amore. E il cristianesimo non è un ideale per ostentare le proprie virtù, ma un’esperienza di relazione che rinnova e trasfigura i nostri limiti.
È chiaro che la durezza di cuore di cui sto parlando non è quella ostentata dai negazionisti di Dio, i quali rifiutano a priori qualsiasi apertura trascendente, ma quella che si manifesta ad un livello religioso più profondo, e che, in misura diversa, impedisce comunque allo Spirito di operare nel cuore dell’uomo e all’uomo di capire, aderire e realizzare pienamente la logica evangelica di Cristo nei vari ambiti della vita sociale e culturale. Riletta in questa prospettiva la missione profetica nell’oggi della nostra fede, non è quella di chi deve prevedere il futuro, quanto quella di cogliere la volontà di Dio nelle vicende della vita quotidiana. Esercitare questo discernimento significa educare le persone a scoprire le cause delle proprie resistenze e ad investire le proprie energie creative, morali e spirituali nella realizzazione del regno di Dio nel mondo. Per questo genere di profeti la volontà di Dio costituisce non solo lo scopo della propria missione, ma il criterio con cui dare ragione della verità evangelica. Non si tratta di un criterio legalista, tipico di chi mira ad affermare la sovranità della fede su tutto, su tutti e a tutti i costi, ma di un atteggiamento di apertura mentale, spirituale e morale che consente di riconoscere e condividere con tutti la bellezza dell’amore di Dio. Solo alla luce di questo amore diventa possibile smascherare le menzogne e le resistenze che covano nei cuori di tutti noi, e che ci impediscono di vivere appieno la nostra vita evangelica.
Pur non avendo più il carattere biblico la missione profetica si rivela sempre di estrema attualità. Anche oggi, come nelle varie epoche bibliche, essa richiede apertura, flessibilità, disponibilità, perseveranza, comprensione, indulgenza, misericordia nell’affrontare le varie problematiche che si vengono a creare nelle diverse situazioni e soprattutto nei confronti delle persone che l’incarnano. Ne fanno esperienza tutti coloro che, in diversi modi e forme, avvertono l’esigenza di essere testimoni autentici e credibili delle beatitudini evangeliche nei vari ambiti della vita. Non mi riferisco solo a quelli che svolgono un’esplicita missione evangelica, ma anche a coloro che in nome della giustizia, della pace, della verità, dei diritti dell’uomo, sono disposti a testimoniare anche con la vita il proprio credo morale o religioso. Verso costoro la grazia di Dio si manifesta, come fa notare san Paolo, perfino nei limiti del peccato. Perciò auguro a ciascuno di voi di ripetere con lui: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10).




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