04 Agosto 2024 - Anno B - XVIII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 3 ago 2024
- Tempo di lettura: 8 min
Es 16,2-4.12-15; Sal 77; Ef 4,17.20-24; Gv 6,24-35
“Io sono il pane della vita”

“Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!” (Gv 6,35). È l’affermazione che Gesù fa a seguito del miracolo dei pani, quando, interpellato dalla folla: “Rabbi, quando sei venuto qua?” (Gv 6,25) dice: “In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo” (Gv 6,26-27).
Si tratta di affermazioni piuttosto forti che Giovanni inserisce all’interno di un discorso più ampio, che comprende tutto il capitolo 6 del suo Vangelo, all’interno del quale troviamo non solo il significato autentico del miracolo dei pani, spiegato direttamente da Gesù, ma anche le ragioni del rifiuto di Cristo da parte dei Giudei (cf. Gv 6,41-42). È perciò un discorso delicato e fondamentale per chi si accinge a cercare i criteri interpretativi dei suoi segni e gli elementi decisivi per la fede in lui. La Liturgia ce lo propone per intero, attraverso una lettura continuata che avremo modo di seguire anche durante le prossime domeniche, a testimonianza della sua estrema importanza. Tutto ciò in vista di un’interpretazione più impegnativa della persona di Cristo e della sua missione salvifica, come può essere quella eucaristica. Interpretazione che, come vedremo, verrà ampiamente disapprovata dai Giudei nella sinagoga di Cafarnao (cf. Gv 6,59), i quali non accettano la pretesa di Gesù di sostituire il pane (Gv 6,32) offerto da Mosè nel deserto, col suo definito come “il pane vero che dà la vita eterna” (cf. Gv 6,32-33). Al di là delle resistenze vi invito a considerare attentamente queste obiezioni mosse dai Giudei, perché sono le stesse difficoltà che sorgono anche dentro di noi e ci impediscono di prestare fiducia alla sua parola.
È in questo clima scettico che si comprende la domanda della folla a Gesù: “che cosa dobbiamo fare per compiere le opere di Dio?” (Gv 6,28), come a dire: cosa dobbiamo fare per riconoscerti come l’inviato di Dio? Da qui la risposta di Gesù: “Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29). Per Giovanni la fede in Cristo non consiste nel prestare fiducia alle parole di un profeta, poiché tutte le parole dei profeti meritano fiducia, per la verità di cui essi si fanno interpreti; e neppure nel riconoscere la sua autorità morale, poiché tutti gli uomini di Dio meritano rispetto per la coerenza della vita ai principi professati, ma nel riconoscerlo come “colui che è mandato dal Padre a dare la vita eterna”. Ecco lo specifico della fede cristiana. Tutta la fede in Cristo consiste in questo esplicito riconoscimento. Una risposta chiara quella di Gesù, ma per nulla convincente a chi come la folla è stato abituato dalle autorità religiose a riconoscere solo a Mosè questi appellativi, tanto da controbattere con un’ulteriore domanda: “Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai?” (Gv 6,30). È interessante notare che costoro chiedono a Gesù un segno, come prova della sua autorità divina, dopo che lui ne ha già offerto uno di straordinaria rilevanza, dinanzi al quale essi però rimangono dubbiosi e quindi incapaci di recepirne e comprenderne il senso. Forse è proprio qui una delle principali difficoltà della fede: la scarsa disposizione spirituale a recepire e a cogliere nella luce divina il significato autentico dei segni compiuti da Gesù. Questa mancata disposizione porta la folla, compresi noi, a riconoscere come certo e divino solo quello che è stato avallato in precedenza dalle autorità religiose: “I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: Diede loro da mangiare un pane dal cielo” (Gv 6,31), ma a resistere e a rimanere scettici nei confronti di tutte le novità di Dio, come quella proposta da Cristo, il quale chiede ai suoi interlocutori un’interpretazione personale: tu cosa pensi di questo segno? È a questo livello che nasce la fede, quando cioè veniamo interpellati a dare una risposta personale. Si capisce allora la ragione per cui Gesù, davanti allo scetticismo della folla, avverte l’esigenza di esplicitare più chiaramente la sua affermazione: “In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo” (Gv 6,32-33). Nonostante questo ulteriore intervento di Gesù, anzi forse proprio a causa di esso, i Giudei cominceranno a mormorare e giungeranno perfino a formulare, come vedremo, il loro rifiuto, convinti che quella di Gesù è solo un’affermazione assurda e pretenziosa (cf. Gv 6,41-42.52)
Ancora una volta la Chiesa sottopone alla nostra attenzione la questione nevralgica della fede cristiana[1], espressa chiaramente dalla seguente affermazione di Gesù: “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”. Ci troviamo dunque nel nucleo centrale della nostra fede, che come appare ormai chiaro, non consiste nell’aderire a un’idea, e neppure a un sistema di norme religiose e precetti morali, ma in una persona: Gesù, tanto che “chiunque crede in lui ha la vita eterna” (cf. Gv 6,40). La difficoltà, dunque, a riconoscere Gesù come salvatore è la questione fondamentale della fede. Essa costituisce lo zoccolo duro contro il quale recalcitriamo, perché contrasta fortemente con la nostra mentalità incredula e sospettosa. Si tratta di una questione molto chiara ai Giudei come agli scettici di ogni epoca, e dinanzi alla quale ciascuno pone a Gesù sempre la stessa domanda, che Giovanni esprime in modo inequivocabile: “Quale segno tu fai perché possiamo credere in te? (cf. Gv 6,30). In realtà più che un segno occorre una rinnovata relazione con Dio. Solo chi vive in comunione con lui è in grado di riconoscere Gesù come “il pane che dà la vita eterna”.
È curioso notare che quella manifestata nei confronti di Gesù è la stessa che gli Israeliti hanno mosso in precedenza anche nei confronti di Mosè, come evidenzia il brano dell’Esodo. In questo testo, infatti, la fatica che il popolo d’Israele fa a riconoscere Mosè come l’uomo di Dio diventa particolarmente palese, come attesta il seguente brano: “Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine” (Es 16,3)[2]. Dinanzi alle difficoltà del deserto, nel quale il Signore li ha condotti per guidarli alla libertà, gli Israeliti, paradossalmente, si rivelano nostalgici della schiavitù in Egitto. Ai disagi della libertà essi preferiscono il benessere della schiavitù, o la schiavitù del benessere come accade per noi oggi. La libertà che Dio propone a Israele, come a noi, non è affatto un’ideologia politica e culturale alla quale aderire come a una forma di anarchia che consente di vivere in modo autonomo e indipendente da tutto a da tutti, e neppure una condizione esistenziale di cui l’umanità già dispone, ma è una vita relazionale che prevede un processo esodale, durante il quale solo chi si dispone ad un prolungato percorso di purificazione morale, intellettiva e spirituale, può giungere. Questo tipo di libertà si attua solo nel conseguimento della “terra promessa”, ovvero nella comunione di vita con Dio. Nessuno come lui è in grado di creare una relazione tanto libera quanto liberante. Può sembrare un paradosso e di fatto lo è: la libertà che Dio propone agli Israeliti consiste nella relazione con lui, e più specificamente nella totale adesione alla sua volontà. In questo senso Gesù viene proposto come l’uomo pienamente realizzato, perciò degno di essere ascoltato e preso in considerazione (cf. Mc 9,7; Mt 17,7; Lc 9,35). Pertanto la sua parabola esistenziale, come quella prefigurata in precedenza da Israele verso la terra promessa, diventa emblematica per ogni uomo e per tutti i popoli, e come tale costituisce un segno profetico per la stessa umanità.
In questa prospettiva la domanda alla quale Gesù ci chiede di rispondere personalmente è: cosa appaga realmente il tuo anelito di libertà? Qual è il cibo che alimenta la sete di eternità che abita dentro di te? È chiaro che “il cibo che perisce” (Gv 6,27), di cui lui parla non è solo quello che alimenta la vita fisica, ma anche quello fatto di idee, pensieri, sentimenti, visioni culturali e perfino pseudo religiose, che nutrono quotidianamente la nostra vita intellettuale, morale, spirituale, ma che nel tempo si rivelano verità parziali o perfino illusioni, che rischiano di destinare la nostra esistenza al nulla, piuttosto che all’eternità. Occorre allora seriamente interrogarsi se in questa nostra smania di benessere terreno, verso il quale tendiamo così ansiosamente, siamo veramente appagati e disposti a cambiare registro di vita? Quanti, condizionati da una mentalità materialista, sono realmente disposti a lasciarsi interpellare dal discorso eucaristico di Gesù? Quanti hanno il coraggio di convertire la propria mentalità pragmatica, tutta tesa ad un’economia terrena, in una mentalità che prevede la prospettiva di una vita eterna? Quanti sono aperti all’idea di vivere questa vita terrena in vista di quella divina? Quanti sono orientati a prendere in seria considerazione la Parola di Cristo, piuttosto che quella che degli influencer, testimonial o opinionisti dei nostri rotocalchi televisivi o dei nostri social?
Si comprende perciò benissimo l’eloquente esortazione che Paolo rivolge agli Efesini, come ai credenti di ogni tempo, con la quale ci dà un’idea della vita nuova in Cristo: “Vi … scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità. Ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, … (perciò) vi esorto ad abbandonare … l’uomo vecchio … e a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità (cf. Ef 4,17-24).
Tutta la nostra salvezza dipende allora dalla fiducia che siamo disposti a porre in Cristo. È questa l’opera alla quale Dio ci chiama: “credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29). Gesù è il “pane della vita”, chi si nutre di lui “non avrà più fame e non avrà più sete” (Gv 6,35). Mi piace concludere questo commento con la stessa domanda che Gesù pose a Marta, all’indomani della morte del fratello Lazzaro: “Io sono la risurrezione e la vita … credi tu questo?” (Gv 11,25.26).
[1] E lo fa con un fraseggio che se da una parte può sembrare familiare a chi pratica ambienti religiosi, dall’altra rivela un contenuto che risulta ormai lontano dal modo di pensare e vivere quotidiano di molti di noi. Termini come “segni”, “eucaristia”, o formule come “pane del cielo”, “vita eterna”, “opera di Dio” pur appartenendo al nostro vocabolario, sembrano essere state svuotate di quel significato che ha alimentato per millenni la fede dei cristiani. Da qui la necessità di andare al fondamento della nostra fede, per comprenderne la ragioni, specie in un contesto come il nostro che sembra aver smarrito il rapporto con le radici e con l’humus della tradizione evangelica ed ecclesiale.
[2] La “mormorazione” costituisce una costante del popolo nel deserto, quasi un leit motiv: cf. Es 16,7.8.9.12; Nm 14,2.27.29.36; 16,11; 17,20.25; Dt 1,27.




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