03 Gennaio 2021 - 2° Domenica dopo Natale - Anno B
- don luigi
- 3 gen 2021
- Tempo di lettura: 6 min
Sir 24, 1-2.8-12; Sal 147; Ef 1, 3-6.15-18; Gv 1, 1-5.9-14
La sapienza dell’intelligenza spirituale

Nella seconda Domenica di Natale la Liturgia della Parola ci propone dei brani biblici chiaramente impegnativi, come a volere invitarci a compiere una riflessione teologica, alla quale, a dire il vero, non siamo affatto educati. Abituati come siamo, infatti, allo stile narrativo di Matteo, Marco e Luca, troviamo molta difficoltà dinanzi alla profonda riflessione teologica che Giovanni condensa nel suo Prologo evangelico. Esso infatti contiene, in modo concentrato, tutti i temi che saranno poi via via ripresi e sviluppati, in modo sinfonico, nel suo Vangelo. Basti considerare che in un solo versetto come : “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14), egli racchiude tutto l’evento incarnativo di Dio. Occorrerebbe perciò sottoporlo ad una potente lente di ingrandimento, per scorgere in esso tutti quegli episodi che Matteo e Luca descrivono nell’arco di interi capitoli dedicati all’infanzia di Gesù.
Il Prologo di Giovanni, in effetti, si presenta come un brano alquanto difficile per il nostro palato intellettivo. Il suo è un linguaggio teologico denso e profondo che necessita di calma, attenzione e soprattutto di un’adeguata riflessione spirituale, comprensibile, per altro, solo alla luce di un vissuto esperienziale. In questo senso ora dovremmo trovarci nella condizione favorevole per comprenderlo, avendo da poco celebrato il Natale. Cogliamo dunque l’opportunità che ci viene offerta dalla Liturgia, per coglierne almeno il senso generale e la ragione per cui la Chiesa insiste tanto nel riproporcelo.
Lo introduco facendo qualche premessa. Il Prologo è come dice il termine un preludio, ovvero un’introduzione al suo Vangelo. Esso lo precede e per questo lo leggiamo prima. In realtà andrebbe letto alla fine. Poiché i suoi temi divengono comprensibili solo alla luce della vicenda storica di Cristo. D’altra parte viene posto all’inizio poiché fa da chiave di lettura per capire l’identità di Gesù. La sua stesura è il risultato di una profonda riflessione sul mistero di Cristo, compiuta nell’arco di una prolungata pratica dei suoi insegnamenti evangelici. A chi si accinge a leggerlo, perciò, Giovanni sembra volergli dire che, in primo luogo, è opportuno sviluppare una riflessione teologica, solo dopo aver fatto un’adeguata e autentica esperienza di fede. Il rischio che si corre nel farla prima è quello di ridurre la fede a un discorso teorico e astratto. Il Vangelo di Gesù invece non è la descrizione di un’ideale di vita perfetto, ma un’esperienza di fede, concretamente incarnata nel vissuto quotidiano. In questo senso Giovanni e gli altri evangelisti, riferiscono solo quello che Gesù e i discepoli con lui, hanno detto e fatto, durante la loro vita. Allo stesso modo anche noi dovremmo imparare a raccontare della nostra fede ciò che realmente accade nella realtà, non quello che vorremmo o pensiamo. Il che significa imparare a dire solo ciò che lo Spirito compie in noi. Questo e solo questo genera altra vita evangelica.
Rifletteree meditare sul vissuto della fede, come ci viene chiesto di fare, significa che non basta limitarsi a fare un’esperienza, sia pure spiritualmente profonda, occorre ripeterla, farne memoria e meditarla continuamente, per sviscerarne il significato. Esattamente quello che gli evangelisti hanno compiuto scrivendo i Vangeli: essi raccontano non solo la vita di Gesù, ma lasciano trapelare anche la loro sensibilità teologica. Ciascun Vangelo infatti ritrae un volto particolare di Gesù e lo fanno in modo tale da mettere ciascun lettore nella condizione di tradurre, nell’oggi della propria storia, la loro stessa esperienza di fede. Questa operazione viene emblematicamente descritta dallo stesso Giovanni nella sua prima lettera, quando dice: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, … noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi” (cf. 1Gv 1, 1-3). Il loro obiettivo, dunque, è comunicarci la vita nuova in Cristo (cf. Rm 6, 4), ovvero quella comunione di vita divina che Gesù intesse col Padre nello Spirito, della quale loro sono stati resi partecipi e che intendono condividere con noi grazie a quell’atto che lui definisce “contemplazione”. Contemplare significa vedere con gli occhi della mente il templum, termine simbolico col quale si allude al cielo, ovvero il luogo in cui dimora Dio. Tradotto a livello teologico significa penetrare con l’intelligenza spirituale il mistero di Dio, tale da coglierne il significato nascosto.
Ma come si fa a gettare lo sguardo nel mistero di Cristo? Per farlo occorre, come dice san Paolo nella sua lettera agli Efesini, chiedere al Signore il suo “Spirito di sapienza e di rivelazione”. È lo Spirito che ci consente di giungere ad una “profonda conoscenza di Dio”, “illuminando gli occhi del nostro cuore, e facendoci comprendere la speranza alla quale Dio ci ha chiamati e il tesoro di gloria che racchiude la sua eredità” (cf. Ef 1, 17-18). Lo Spirito illumina la nostra mente facendoci comprendere il senso del mistero di Cristo. È chiaro dunque che la luce di cui parla Giovanni quando dice: “Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (Gv 1, 9) è quella che scaturisce dalla rivelazione di Cristo. Non a caso il titolo col quale qualifica il Cristo è “Verbo” che letteralmente significa ragione, parola, discorso, indicandoci in questo modo quell’attività spirituale che dà senso (luce) alla nostra esistenza. Per Giovanni questa luce non scaturisce solo dall’attività della mente, come saremmo indotti a pensare, ma dal vissuto evangelico. Il che significa che la sapienza di Cristo non dipende tanto dalla capacità speculativa della nostra ragione, quanto dalla pratica del suo amore. Vivendo il Vangelo noi veniamo resi partecipi della rivelazione che il Padre fa del Figlio e di quella che il Figlio fa del Padre (cf. Mt 11, 27; 16, 17). “Nel Verbo”, infatti, afferma Giovanni, “era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1, 4). Come a dire che solo chi vive concretamente il Vangelo ha la possibilità di contemplare il senso pieno dell’identità divina di Cristo. Vivere pensando e pensare vivendo ecco il segreto della sapienza evangelica.
Questo modo di alternare continuamente la vita evangelica alla meditazione e la riflessione al vissuto quotidiano, ci introduce gradualmente in una tale familiarità col mistero di Cristo, da farci acquisire quel tipo di conoscenza sapienziale che lungi dal limitarsi ad un sapere intellettivo, è una conoscenza impregnata d’amore.
È a questo obiettivo che la liturgia intende condurci proponendoci brani sapienziali, come quelli di oggi. Tutto ciò per dirci che non basta limitarsi a celebrare il Natale, magari anche con fede sincera, ma occorre impegnarsi a scoprire cosa esso comporta per la nostra vita relazionale. Per questo è importante chiedersi continuamente: perché Dio si è incarnato?, perché ha preferito, per così dire, rinunciare alla vita divina – luminosa, perfetta e santa – per venire a vivere tra noi, in una vita carica di tensioni, conflitti, ansie, preoccupazioni, che possono offuscare il senso della vita e che per questo Giovanni indica col termine “tenebre”? Cosa ha motivato questa sua scelta e decisione? È ponendoci questo genere di domande che noi possiamo giungere ad acquisire uno sguardo sapienziale della vita, capace di leggere la realtà alla luce dell’amore di Dio, quell’amore salvifico che lui ha inteso comunicarci facendo abitare il suo Figlio tra di noi.
Nel tentativo di favorire in voi questo esercizio contemplativo vi propongo, perciò, di leggere e rileggere il brano del Siracide, insieme a quello del Prologo, in modo quasi da sovrapporli. Si tratta infatti di brani per certi versi molto simili. Nel farlo vi consiglio di lasciarvi guidare da alcune domande, del tipo: cosa s’intende per sapienza? Essa si riferisce a quella che scaturisce dall’indagine speculativa della mente, come la filosofica o la scienza per intenderci, a quella della saggezza umana che nasce dall’esperienza della vita e si sedimenta in noi attraverso le generazioni, oppure a quella che proviene anche dalla rivelazione di Cristo, grazie alla quale possiamo giungere alla salvezza? Che rapporto c’è tra quello che afferma l’autore del Siracide quando dice: “Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi ha creata, per tutta l’eternità non verrò meno” (Sir 24, 9) e quello che invece afferma Giovanni: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1, 1)? O ancora, che nesso c’è tra i versetti del Siracide: “Allora il creatore dell’universo mi diede un ordine … e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele … Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso” (Sir 24, 10-11; cf. 24, 1-2) e quello di Giovanni: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1, 14)?
Si tratta com’è evidente di domande difficili, alle quali non possiamo avere subito la pretesa di rispondere. Perciò lungi dallo spaventare qualcuno, ve le propongo a scopo didattico, ed hanno la funzione di suscitare quella curiosità che è alla base di ogni studio della Parola e che se assecondata conduce all’intelligenza spirituale. Un’operazione questa alla quale dovremmo un po’ alla volta educarci e abituarci. Grazie ad essa, infatti, ci diverrà sempre più chiaro il nesso che c’è tra le opere di Dio e le nostre che realizziamo nella vita quotidiana. Questo confronto ci aiuterà a cogliere le loro differenze, ma anche le affinità e quindi a capire se esse sono o meno conforme alla volontà di Dio. Così facendo, sono certo, che anche noi impareremo a pensare come Cristo (cf. 1Cor 2, 16), ovvero a scegliere e deciderci per una esistenza sempre più conforme allo suo stile di vita evangelico.




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