02 Ottobre 2022 - Anno C - XXVII Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 1 ott 2022
- Tempo di lettura: 7 min
Ab 1,2-3; 2,2-4; Sal 94/95; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
Crescere nella fede

“Accresci in noi la fede!” (Lc 17,6) è la richiesta che gli apostoli rivolgono al Signore nel tentativo di conoscere le condizioni per farla progredire. La risposta di Gesù ci sorprende perché sembra non solo eludere questo desiderio autentico degli apostoli, ma addirittura aggravarne i limiti: “Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: sradicati e vai a piantarti nel mare, ed esso vi obbedirebbe” (Lc 17,6). La stessa risposta, sia pure con piccole variazioni[1], la troviamo anche nei Vangeli di Matteo (17,20; 21,21) e di Marco (11,23), i quali, però, collocano l’episodio in un contesto ben diverso: Matteo in quello dell’“Epilettico indemoniato” (Mt 17,14-20), Marco in quello del “Fico sterile” (Mc 11,12-14). In entrambi i casi gli apostoli, davanti alla straordinaria potenza taumaturgica di Gesù, prendono coscienza del limite della loro fede. Da qui la richiesta: “Accresci in noi la fede!”.
I brani appena citati ci offrono l’occasione per fare anche il punto della situazione della nostra fede. Anche noi, come gli apostoli, ci scopriamo desiderosi di crescere in essa, specie quando, come loro, ne percepiamo i limiti nelle circostanze decisive della vita. Ma come si fa a crescere nella fede? Quali sono le condizioni e le circostanze in cui è possibile maturare questa intima e profonda relazione con Dio? Quali sono gli elementi che la costituiscono? Essa è un dono divino che riceviamo già bello e compiuto, come ritengono alcuni? Oppure sono previste anche dei presupposti umani che necessitano di essere coltivati per accrescerla?
La prima lettura, tratta dal libro del profeta Abacuc, ci offre una straordinaria testimonianza in merito. Quella descritta dal profeta è la situazione tipica di chi trova difficile comprendere, anche all’interno di un contesto religioso ed ecclesiale, il linguaggio comunicativo di Dio. In particolare al profeta risulta incomprensibile il criterio con cui Dio interviene nella storia, specie quando questo sembra non rispettare i tempi e i modi previsti dalle nostre attese. Il suo ritardo gli appare ingiustificato, soprattutto dinanzi alla reiterata “oppressione” dei prepotenti, verso i quali Dio sembra rimanere come un’impassibile “spettatore” (cf. Ab 1,3). Questa “sordità” di Dio gli appare ancora più assurda soprattutto dopo le sue continue preghiere e suppliche: “Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: ‘Violenza!’ e non salvi?” (Ab 1,2). Ma proprio quando gli sembra di sperimentare il fondo della tristezza, ecco che Dio gli fa sentire la sua voce: “Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette, perché la si legga speditamente” (Ab 2,2). Si tratta di una risposta che gli giunge nella forma di una “visione”, maturata all’interno di un contesto di preghiera, il che lascia intendere che il profeta abbia continuato a invocare l’intervento di Dio anche dopo il suo prolungato silenzio, convinto com’era della fedeltà di Dio alla sua promessa. Quella circostanza che sembrava evidenziare l’assenza di Dio e il limite della sua fede, si rivela, paradossalmente, come l’occasione per crescere in essa.
Ecco, dunque, una prima condizione fondamentale per progredire nella fede: la preghiera fatta con convinzione, alimentata dalla certezza della fedeltà di Dio alla sua promessa. È a queste condizioni che Abacuc ha modo di sviluppare il suo sguardo profetico, grazie al quale egli riesce a intravedere l’opera di Dio oltre le “iniquità” dei suoi “oppressori”. Indugiare in queste circostanze significa esporsi al pericolo del dubbio. E il dubbio è segno di chi non ha ancora raggiunto “l’animo retto”, integro, puro, come quello del “giusto (che) invece vivrà per la sua fede” (Ab 2,4). Non è un caso dunque che al profeta venga chiesto di rimanere fedele alla “parola datagli da Dio”. Essa parla di una “scadenza”, al termine della quale Dio interverrà. Il profeta deve solo nutrire questa convinzione nel suo animo, anche quando tutto sembra dire il contrario. Da qui l’invito a non indugiare, anzi ad attendere la realizzazione della sua parola; “perché essa certo verrà e non tarderà” (Ab 2,3).
La preghiera fatta con convinzione è ciò che emerge ancora più chiaramente dall’episodio del Fico sterile, raccontato da Marco e Matteo, nel quale Gesù ribadisce: “Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: se uno dicesse a questo monte: Lèvati e gettati nel mare”, senza dubitare in cuor suo, ma credendoche quando dice avviene, ciò gli avverrà. Per questo vi dico: tutto quello che chiederete nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi accadrà” (Mc 11,22-24; Mt 21,21-22).
Una condizione questa richiesta da Gesù che, a dire il vero, ci capita di sperimentare molto raramente. Di solito siamo attraversati dai dubbi e questo indebolisce il potere della preghiera. Chi di noi, infatti, non ha mai sperimentato queste difficoltà? E chi di noi, in simili circostanze, non ha provato dubbi sulla reale esistenza e giustizia di Dio? Quanti cristiani, dinanzi alla persistente situazione di ingiustizia nella storia, abbandonano la fede, rassegnandosi all’idea che la logica del mondo sia destinata a prevalere sempre su quella evangelica? Magari alcuni prepotenti potranno anche soccombere, ma quanti altri sono pronti subito a prendere il loro posto, ancora più agguerriti dei loro predecessori? È possibile maturare la fede in simili circostanze? Il benessere nel quale viviamo non ci fa forse sembrare tutto ciò solo un’utopia? Eppure è proprio in queste circostanze che anche Maria ha formulato il suo Magnificat, nel quale oltre a lodare l’opera di Dio in lei, traccia il criterio con cui continuare a credere nel compimento dell’opera salvifica di Dio nel mondo. Un criterio, il suo, comprensibile solo ai “poveri in spirito” (Mt 5,3), ai “puri di cuore” (Mt 5,8) e agli “umili” come lei (cf. Lc 1,48), che sanno scrutare le profondità di Dio e cogliere la sapienza del suo piano d’amore anche nelle più tragiche e nefaste vicende storiche. Maria non si limita a denunciare l’ipocrisia con cui i potenti esercitano la loro giustizia giuridica e distributiva, ma a profetizzare l’azione con cui Dio ribalterà la loro logica arrogante e prepotente. Dinanzi alle evidenti e persistenti ingiustizie, come quelle che emergono anche dal nostro contesto sociale non è facile credere che Dio “disperda i superbi nei pensieri del loro cuore; che rovesci i potenti dai troni e innalzi gli umili; che ricolmi di beni gli affamati e rimandi a mani vuote i ricchi; che soccorra i suoi servi e si ricordi della sua misericordia, promessa ad Abramo e alla sua discendenza” (cf. Lc 1,51-55). Credere in questa “sovversiva” logica evangelica, quando la storia ci attesta tutt’altro – come le crudeltà compiute nei vari campi di concentramento nazisti – e la cultura ci induce a credere che è solo un’utopia, significa avere un autentico sguardo di fede-profetica, capace di cogliere l’azione discreta di Dio anche nei più piccoli segni dei tempi. Una fede, dunque, quella che ci viene suggerita da Maria, che riusciamo a sviluppare in noi solo se rimaniamo fermamente convinti che l’opera di Dio si palesa secondo la logica del granello di senape, animata dalla certezza che, malgrado tutto, lo Spirito “fa nuove tutte le cose” (Ap 21,5).
È chiaro che la fede proposta da questi brani biblici non è quella preliminare che si limita a credere solo nell’esistenza di Dio e neppure quella che viene discussa nelle aule accademiche, dove nel tentativo di spiegarne l’origine e la struttura, si finisce spesso col svuotarla della sua potenza redentiva; fino a opporla, come accade oggi, alla ragione scientifica, come se si trattassero di due aspetti contraddittori tra loro e non piuttosto complementari, capaci di convivere pacificamente e contribuire a cogliere il senso e l’essenza dell’identità umana. Scorrere i libri della bibbia, come quelli dei Profeti, oppure quelli del Pentateuco e quelli Storici significa invece scoprire una fede che scaturisce dalle situazioni quotidiane e concrete della vita, come quella a cui fa riferimento il Salmo 94/95, dove il l’autore invita il popolo ad “ascoltare la voce di Dio e a non indurire il cuore come a Meriba, come nel giorno di Massa nel deserto, dove i loro padri tentarono Dio, mettendolo alla prova, pur avendo visto le sue opere” (Sal 94,8-9). È la fede di coloro che nei momenti di maggiore bisogno, come può essere la sete nel deserto, la schiavitù in Egitto o ancora le diverse circostanze di pericoli, colgono nell’intervento effettivo di Dio il loro provvidente, il loro liberatore, il loro guaritore. Questa convinzione può essere considerata da coloro che ritengono la ragione scientifica la chiave risolutiva di tutti i problemi, una sorta di “oppio dei poveri”, ma non sanno che “Dio sceglie ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti … ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, ignobile e disprezzato … per ridurre a nulla le cose che sono” (1Cor 1,27-28). Avere fede significa allora credere in questa logica assurda e incomprensibile, con la quale Dio conduce nella storia la salvezza del mondo. Entrare nella dinamica di questa logica divina significa aderire al modo di pensare e di operare di Dio nel mondo. Ma credere in lui comporta anche la consegna della propria vita, ovvero l’impegno ad offrire il proprio contributo alla salvezza del mondo, convinti che anche dopo aver fatto tutto quello che ci è stato ordinato di essere servi inutili (cf. Lc 17,10), affinché “nessuno possa vantarsi di fronte a Dio” (1Cor 1,29).
Cos’è allora che in ultima analisi Gesù chiede ai suoi discepoli? Crescere nella fede non significa acquisire criteri che ci consentono di gestire o pilotare l’imprevedibile azione di Dio nella storia. Ma di avere quell’atteggiamento di intima fiducia in lui che ci persuade della certezza del suo intervento, anche quando tutto sembra dirci il contrario. Si tratta di avere con lui quell’atteggiamento relazionale fatto di ascolto, fiducia, affidamento, che dispone il cuore a cogliere la gratuità e la libertà con cui Dio opera in noi e nel mondo. La fede diventa perciò il luogo nel quale prendiamo coscienza della presenza misteriosa di Dio e il modo con cui egli attraverso Cristo e per mezzo dello Spirito, ci educa a vedere la realtà dall’alto. Avere fede significa, dunque, imparare a pensare come Dio, per cogliere nella profondità del suo amore il senso salvifico della storia. Significa credere nelle cose impossibili, come quelle descritte nel paradosso del gelso: “sradicati e vai a piantarti nel mare”. La fede non è il risultato della nostra conoscenza teologica, ma la condizione con cui lasciamo Dio libero di essere Dio in noi e nel mondo. Così vissuta essa ci libera dalla tentazione di sentirci indispensabili protagonisti della salvezza, purtroppo così frequente perfino nella Chiesa. Il monito di Gesù: “siete servi inutili”, diventa allora l’occasione per svuotarci di quest’arrogante presunzione che alberga nel nostro cuore e al contempo il modo per cogliere il segreto di ogni autentica missione, che potremmo sintetizzare con questa massima spirituale di sant’Ignazio di Loyola: “Prega come se tutto dipendesse da Dio, lavora come se tutto dipendesse da te”. Se questa è la fede perché vergognarci di essa? (cf. 2Tm 1,8).
[1] In questi due evangelisti, infatti, al posto del “gelso” troviamo il “monte”.




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