01/11/2020 - 31° Domenica del Tempo Ordinario - Anno A
- don luigi
- 1 nov 2020
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 8 nov 2020
Ml 1, 14b-2,2b.8-10; Sal 130/131; 1 Ts 2,7b-9.13; Mt 23, 1-12
Verso una lettura escatologica della storia
Dopo la prolungata disputa, alla quale abbiamo assistito in queste ultime domeniche del Tempo Ordinario, il brano evangelico di quest’oggi ci propone una reazione piuttosto critica e decisa che Gesù muove nei confronti dei capi del popolo ed in particolare i farisei, condannando in modo particolare tre aspetti del loro atteggiamento: l’ipocrisia, la superbia e la vanità. L’ipocrisia, perché lasciavano intendere una vita morale e spirituale più radicale di quanto realmente fosse in realtà; la superbia, con la quale si assicuravano il rispetto personale, nonostante la loro evidente controtestimonianza; la vanità, perché erano continuamente alla ricerca di quei beni effimeri, legati al loro ruolo sociale come: essere ammirati dagli uomini, amare posti d’onore nei conviti, primi posti nelle sinagoghe, saluti nelle piazze, farsi chiamare maestri dalla gente, mentre invece erano tenuti a tracciare la via autentica della salvezza attraverso il loro insegnamento della Legge (cf. Mt 23, 5ss). Con questo loro atteggiamento essi compivano un vero e proprio abuso della loro autorità religiosa, che si manifestava a un duplice livello: morale, quando esigevano dal popolo il pagamento di quelle tasse al Tempio, con le quali si assicuravano una forma di sostentamento personale, mentre si mostravano piuttosto accondiscendenti verso quei doveri che chiamavano in causa la loro responsabilità personale; dottrinale, quando nel tentativo di offrirne un’applicazione pratica della Legge nei diversi ambiti della vita sociale, l’appesantivano con ulteriori norme morali e precetti religiosi che finivano col far perdere di vista l’essenza stessa della Legge. Così mentre da una parte essi rendevano particolarmente dura al popolo la pratica della Legge nella vita quotidiana, imponendo loro “pesanti fardelli” morali e religiosi, dall’altra eludevano con estrema abilità linguistica ai loro impegni personali. Si spiega così il richiamo al primo dei comandamenti espresso da Gesù domenica scorsa (cf. Mt 22, 34-40), col quale invitava da una parte i farisei a prestare una particolare attenzione all’amore di Dio e all’amore del prossimo, piuttosto che limitarsi allo studio e alla conoscenza, sia pure necessaria della Legge, dall’altra i sacerdoti a cogliere il vero senso del culto a Dio, piuttosto che limitarsi solo a quello liturgico. L’insistenza da parte di Gesù sulle tre dimensioni costitutive della vita umana: cuore, anima e mente, significa che ciascuno è chiamato ad amare Dio e il prossimo con tutta la sua volontà (cuore), con tutta la sua vita (anima), con tutta la sua intelligenza (mente). È questo il nucleo vitale della Legge e il contenuto più autentico della volontà di Dio. In questo senso Gesù non vuole che le persone si sacrifichino per Dio, come insegnavano i farisei e come purtroppo ritengono ancora tanti cristiani, oggi, ma che esse lo amino liberamente e gratuitamente. Non a caso in diverse circostanze Gesù ribadisce il detto del profeta Osea: “Misericordia io voglio e non sacrifici, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Mt 9, 13; Os 6, 6). Pertanto se i sacerdoti insistevano molto sul culto religioso e i farisei sull’interpretazione moralistica della Legge, Gesù va diritto all’essenziale: l’amore è la forma più alta della volontà di Dio. Non esiste pratica migliore per rimanere sempre in relazione con lui e con i prossimi.
Questa critica piuttosto severa che Gesù fa nei loro confronti potrebbe spaventare qualcuno che è abituato ad immaginarlo sempre nelle vesti del buono, mite e umile di cuore (cf. Mt 11, 28-30). In realtà esso costituisce un atteggiamento tipico del ministero profetico. Tutti i profeti prima di lui manifestano infatti un comportamento simile. Il profeta Malachia formula questa critica addirittura in termini di “maledizione” (cf. Ml 2, 2). In realtà più che una maledizione vera e propria, essa è un’accusa, una denuncia espressa in modo piuttosto violento e impetuoso, al fine di favorire una presa di coscienza dell’inaccettabile modo con cui i sacerdoti esercitano le loro funzioni, i quali offendono Dio offrendogli cibo contaminato e animali rubati, ciechi, malati e zoppi (cf. Ml 1, 7.8.13), insomma lo scarto di tutti quei prodotti di prima qualità che essi invece riservavano a se stessi. Malachia fa di questo rimprovero verso i sacerdoti una sorta di programma del suo ministero profetico, che trova un’adeguata spiegazione nel contesto storico-religioso in cui egli vive. Egli infatti dopo aver constatato in loro un’iniziale entusiasmo cultuale dovuto alla riforma liturgica operata da Esdra a seguito della ricostruzione del Tempio, si lasciano andare in un atteggiamento lassista dal punto di vista spirituale e morale, dovuto alle delusioni e all’indifferenza religiosa, scaturite dalla mancata realizzazione, nel tempo previsto, della nuova era escatologica, annunciata dai profeti Aggeo e Zaccaria. Questa delusione aveva ingenerato un evidente scollamento tra i sacerdoti e il popolo, che non avverte più la responsabilità del loro mantenimento. Malachia invece è convinto che la cura del Tempio e del mantenimento del suo personale costituisca una pratica religiosa che risponde alla volontà di Dio. Da qui la ragione di un intervento piuttosto insolito rispetto a quello manifestato dai profeti, i quali insistono maggiormente sulla conversione. Con questo intervento Malachia se da una parte rimprovera il popolo di prestare fede alle norme della legge che prevedono il sostentamento dei sacerdoti, dall’altra rimprovera i sacerdoti per non assolvere il loro compito di guide del popolo.
Ma il senso più recondito di questo intervento di Gesù sta nella prospettiva escatologica con la quale egli vuole invitare i suoi interlocutori a leggere la storia e a collocare nel piano salvifico di Dio il proprio ruolo e la propria responsabilità personale. Non a caso il prossimo capitolo del Vangelo di Matteo è costituito proprio dal Discorso escatologico (cf, Mt 24-25), col quale ci prepariamo a vivere questo scorcio d’anno del Tempo Ordinario.




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