Triduo Pasquale - 28-31 marzo 2024 - Anno B
- don luigi
- 28 mar 2024
- Tempo di lettura: 10 min
L’amore che salva

“Prima della festa della Pasqua, Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1).
È il versetto che, forse più di tutti, riassume la parabola salvifica di Cristo compiuta nell’arco della sua vita e più specificamente attraverso l’Evento Pasquale della sua passione, morte e risurrezione. In questo versetto sembrano convergere, infatti, tutti i brani biblici che la Chiesa ci propone durante il Triduo Pasquale[1], nel quale veniamo introdotti a partire dalla celebrazione della Messa in Caena Domini [2]del Giovedì Santo[3].
Nel tentativo di mettere a fuoco il nucleo teologico di questo speciale tempo liturgico ci lasceremo guidare, nella nostra riflessione, da alcune domande: perché il Triduo Pasquale è così fondamentale per la nostra fede cristiana? Quali sono gli eventi che lo caratterizzano? Perché la passione, la morte e la risurrezione di Gesù assumono un valore redentivo? Cos’hanno di speciale rispetto alla passione e morte di tutti gli uomini? Si tratta, com’è evidente, di domande molto impegnative, ma estremamente importanti, perché dalla loro risposta scaturisce la possibilità di dare ragione della nostra fede (cf. 1Pt 3,15-16) e di cogliere il segreto della nostra salvezza. Personalmente mi auguro di introdurvi in questo mistero d’amore sforzandomi di individuare ed esplicitare alcune parole chiavi, come: sacrificio, consegna, dono, passaggio.
In senso largo il termine sacrificio [4] sta a indicare l’atto con cui viene offerto a Dio un dono, a scopo propiziatorio. Secondo la mentalità religiosa, ogni cosa ha origine da Dio e a lui viene riconsegnata in segno della propria gratitudine. In questo senso esso può essere praticato come forma di ringraziamento, oppure per implorare il suo aiuto in caso di pericolo. Anche in ambito biblico il sacrificio viene praticato per ristabilire la riconciliazione con Dio, a seguito del peccato. Per questo motivo esso può assumere una duplice forma: cruenta e incruenta, ovvero con e senzaspargimento di sangue. Quando l’offerta prevede il dono di un prodotto della terra, allora si parla di sacrificio incruento; quando invece l’offerta prevede il dono di un animale che viene ucciso e poi interamente bruciato e consumato dal fuoco, allora si parla di sacrificio cruento. In questo caso il termine specifico è olocausto. L’animale previsto per questo tipo di sacrificio è solitamente l’agnello, simbolo di purezza e innocenza. Il suo uso ha radici antichissime e rimanda al rito della Cena Pasquale istituita da Mosè. L’offerta dell’agnello, col relativo spargimento di sangue, sta ad indicare che la vita, di cui il sangue è simbolo, viene da Dio e a Dio ritorna purificata dal sacrificio. Mediante quest’atto l’offerente consente di purificare il proprio peccato e quello del suo popolo, simboleggiando così il ritorno all’innocente condizione della vita originaria.
Particolarmente interessante è il significato che i profeti, in qualità di interpreti autorevoli della volontà di Dio, danno del sacrificio. Per costoro, infatti, esso non consiste nell’offrire a Dio i doni della terra o degli animali, in quanto Dio non necessita affatto di tutto ciò, ma nel riconoscere la piena sovranità di Dio e quindi la totale obbedienza alla sua volontà salvifica. Emblematici a questo riguardo sono i brani dei profeti Isaia ed Amos che chiariscono, come non mai, il senso del sacrificio, voluto da Dio (cf. Is 1,10-18[5]; Am 5,21[6]; Is 58,6-11[7]). Per questa ragione la forma più alta del sacrificio è e rimane quello di lode. Tale sacrificio consiste nel confessare e quindi nel riconoscere Dio come origine e principio della propria esistenza. L’uomo, donando a Dio ciò che a sua volta ha ricevuto da lui, dimostra di saper rinunciare ad ogni cosa che garantisce la sua sussistenza, testimoniando così che la propria vita dipende in tutto e per tutto solo da Dio. In questo senso il sacrificio di lode consiste non tanto nel donare a Dio qualcosa di sé, ma nel donare se stessi. È in questa offerta che si attua la trasformazione redentiva della sua vita. Così facendo egli attesta che non vive tanto dei doni ricevuti da Dio, ma della relazione che ha con lui.
Questo modo nuovo di intendere il sacrificio, trova il suo compimento e la sua massima espressione in Cristo: egli più di tutti interpreta, esplicita e realizza la volontà salvifica di Dio; considerata come condizione imprescindibile per la pienezza della propria vita e quindi della salvezza. Ponendosi in totale obbedienza ad essa Gesù fa della sua vita un’esistenza eucaristica che trova la sua massima esplicitazione nelle parole che egli pronuncia durante l’Ultima Cena: “prendete e mangiate, questo è il mio corpo” - “prendete e bevete, questo è il mio sangue” (Mt 26,26-29 e //; 1Cor 11,23-29). L’Eucaristia che lui istituisce diventa il modo con cui egli prefigura il reale dono che fa di sé al mondo, durante la passione e morte. Pertanto l’eucaristia sugella lo stile evangelico della sua vita e, al tempo stesso, costituisce il modello al quale ciascuno di noi è chiamato a conformare il proprio stile di vita[8]. È in questo dono che si compie il senso delle nostre celebrazioni eucaristiche. In Cristo tutta la nostra esistenza diventa una perenne eucaristia, ovvero un eterno atto di gratitudine. La modalità con cui Cristo vive la sua esistenza tra gli uomini esprime l’intenzione più autentica e profonda dell’amore salvifico di Dio per noi, come afferma san Giovanni: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio” (Gv 3,16). Ne manifesta la forma piena e totale. Cristo, infatti, nella scia d’amore del Padre, non si limita a donare qualcosa di sé, ma giunge a donare tutto se stesso: la sua volontà, la sua forza; la sua intelligenza, la sua creatività, il suo amore, in altre parole: la pienezza della sua vita. Egli vive la sua esistenza come un atto di totale consegna di sé a Dio e al prossimo. La particolarità di questo gesto sta nel fatto che egli si consegna non solo a Dio che lo ama, ma perfino ai suoi carnefici, testimoniando in questo modo che non sono essi a togliergli la vita, ma è lui a donarla: “La mia vita non è tolta, ma sono io che la dono” (Gv 10,18). Non sono i nemici che rapiscono la sua vita, ma è lui che la consegna come espressione dell’amore che nutre per loro. È partecipando di questo amore di Cristo che noi, attraverso le celebrazioni eucaristiche, ristabiliamo la riconciliazione con Dio e quindi la definitiva comunione con lui.
Gesù incarna questa volontà salvifica del Padre durante tutta la sua vita, ma in modo particolare nella Passione e morte, riconosciuta, sin dall’inizio, dagli evangelisti come il nucleo fondativo della salvezza operata da Cristo. Da qui tutta l’attenzione particolareggiata che questo evento assume nei racconti degli evangelisti, tanto da occupare almeno un terzo dei loro Vangeli. È in questo momento così estremo che si compie la redenzione, intesa come manifestazione dell’amore salvifico di Dio: in Gesù è il Padre stesso che si consegna all’uomo e al contempo è l’uomo che si consegna al Padre. Con la sua morte Gesù consegna al Padre il suo sangue, ovvero la linfa della sua stessa vita, facendola diventare linfa della vita trinitaria tra gli uomini. Il dono che Gesù fa di sé, compiuto nella più totale gratuità, libertà e consapevolezza, è perciò il centro vitale e il nucleo propulsivo di questo mistero salvifico compiuto da Cristo. Esso costituisce il kerigma (passione, morte e risurrezione), ovvero il cuore della fede cristiana. È qui che accade il passaggio dalla morte alla vita nuova in lui, secondo le parole di san Giovanni: “Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1Gv 3,14), e quindi la definitiva conversione dell’uomo alla vita di Dio. È qui che si compie l’Evento Pasquale. Qui si rinnova l’Antica alleanza mosaica prefigurata dal sacrificio dell’agnello[9] e dal passaggio del Mar Rosso. Qui ha origine la vita nuova in Cristo (cf. Rm 6,3-11).
Gratuità, libertà e consapevolezza costituiscono perciò l’alveo della sua esperienza d’amore. Tutto in lui: pensiero, parola e atto viene concepito, maturato e compiuto nell’amore. Tutto nasce dall’amore e ha come fine l’amore. Esso è il fuoco che alimenta la sua ansia salvifica: “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra e come vorrei che fosse già acceso” (Lc 12,49). È in questo fuoco d’amore che egli consuma la sua vita, allo stesso modo con cui il fuoco consumava il corpo degli animali offerti a Dio sull’altare, nel Tempio. L’amore rimane l’unica chiave di lettura per accedere ad un mistero così grande. Fuori di questo orizzonte d’amore nessuna speculazione teologica, per quanto razionale e profonda, può giungere a sviscerare il cuore e la ragione che ha portato Gesù a compiere un gesto così estremo e radicale.
Egli compie tutto ciò per realizzare quel piano salvifico di Dio che va dalla chiamata di Abramo fino alla sua morte in croce. È da questa volontà divina che egli si lascia interpellare, rinunciando totalmente a se stesso. Ed è da questa stessa volontà che ciascuno di noi è invitato a lasciarsi interpellare. In questa prospettiva la passione e la morte di sé e della propria volontà che ciascuno di noi compie in Cristo, non fa che perpetuare la sua salvezza nel mondo. Nel farci dono all’altro è Cristo stesso che si dona e come tale diventiamo strumento e luogo di salvezza per quanti sperano in lui. È in questa consegna di sé a Dio e al prossimo che facciamo memoria dell’unico sacrificio di Cristo, attualizzando il suo compimento nell’oggi della Chiesa. È qui che trova senso e appagamento quell’indomabile inquietudine che alberga nel cuore di ogni uomo e donna e che fa dire a Sant’Agostino: “Signore, il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in te”.
[1] La formula Triduo Pasquale non si riferisce tanto al tempo cronologico (infatti non sono tre giorni effettivi), quanto a quello kariologico, ovvero al tempo in cui Dio interviene per manifestare la sua grazia salvifica. Più estesamente essa indica quel tempo in cui noi lasciamo compiere a Dio l’opera della sua salvezza in noi. Essa presenta evidenti richiami con la formula biblica del terzo giorno, pertanto il suo significato affonda le sue radici nell’uso veterotestamentario che traspare dal profeta Osea (6,2), dal quale viene usata per indicare l’intervento di salvezza operato da Jahvè a favore di chi si ritrova in grave pericolo, vittima di un’ingiustizia o di una grave malattia. Testimonianze di questa formula e di significati analoghi sono piuttosto diffuse nell’AT: Gen 22,4; 31,22; 34,25; 40,20; 42,18; Es 19,11.15.16; Lv 7,17.18; 19,6.7; Nm 7,24; 19,19; 29,20; Gs 9,17; Gdc 20,30; 1Sam 20,19; 30,1; 2Sam 1,2; 1Re 12,2.12; 2Cro 10,12; Est 5,1; 15,1; 1Mac 11,18. Nel NT troviamo l’espressione sulla bocca di Gesù durante gli annunci della sua passione, morte e risurrezione: Mt 16,21; 17,23; 2019 e paralleli. Inoltre essa viene usata anche in riferimento all’opera messianica compiuta da Gesù: Lc 13,32 e quindi agli eventi della risurrezione: At 10,40; 1Cor 15,4. Anche Giovanni la usa in occasione delle Nozze di Cana: Gv 2,1. Possiamo dire allora che l’espressione dopo tre giorni indica la salvezza operata da Dio nei confronti del giusto perseguitato dopo un breve periodo di tempo, come attesta anche la storia di Giona 2,1 rimasto nel ventre del pesce per tre giorni e tre notti.
[2] Dal punto di vista liturgico il Triduo si riferisce al tempo che va dai Vespri del Giovedì Santo ai Vespri del giorno di Pasqua. Durante questo tempo ogni liturgia viene considerata come parte integrante di un’unica grande celebrazione. La Messa in Caena Domini del Giovedì Santo, infatti, non si conclude, come di consueto, col saluto finale: “Andate in pace”, ma col silenzio. Di conseguenza anche l’Adorazione della Croce del Venerdì Santo, non comincia con l’usuale segno della croce, accompagnato dal saluto, ma direttamente con la Colletta e termina anch’essa col silenzio. Lo stesso discorso vale per la solenne Veglia, cuore di tutto il Triduo: comincia in silenzio e termina con il saluto finale.
[3] Anche l’aggettivo Santo col quale viene qualificata la Settimana di Passione di Cristo, contribuisce ad evidenziare il contenuto estremamente significativo per la nostra salvezza. L’amore di Dio che si sprigiona dall’Evento Pasquale di Cristo è così abbondante, efficace, reale, concreto e trasformante da impregnare perfino il tempo. In tal senso chiunque vive questo tempo nell’atteggiamento di chi si lascia trasfigurare dall’amore divino ha modo di conformarsi alla santità stessa di Dio.
[4] Dal latino sacrificium, composto da sacer “sacro” e facere “fare”, “rendere sacro”. Concretamente è il gesto con cui beni come: oggetti, cibo, animali vengono tolti dalla condizione umana e profana e consegnati alla divinità e quindi resi sacri.
[5] “Udite la parola del Signore, voi capi di Sodoma; ascoltate la dottrina del nostro Dio, popolo di Gomorra! ‘Che m'importa dei vostri sacrifici senza numero?’ dice il Signore. ‘Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”.
[6] “Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche se voi mi offrite olocausti, io non gradisco i vostri doni e le vittime grasse come pacificazione io non le guardo”.
[7] “Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza distogliere gli occhi da quelli della tua carne? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora, la tua ferita si rimarginerà presto. Davanti a te camminerà la tua giustizia, la gloria del Signore ti seguirà. Allora lo invocherai e il Signore ti risponderà;implorerai aiuto ed egli dirà: ‘Eccomi!’. Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se offrirai il pane all’affamato, se sazierai chi è digiuno, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio. Ti guiderà sempre il Signore, ti sazierà in terreni aridi, rinvigorirà le tue ossa;sarai come un giardino irrigato e come una sorgente le cui acque non inaridiscono”.
[8] È alla luce di tutto ciò che possiamo cogliere il senso delle parole che il Padre rivolge, agli astanti, durante il Battesimo e la Trasfigurazione di Gesù: “Questi è il figlio mio prediletto, ascoltatelo” (Mc 9,7; 1,11); “… nel quale mi sono compiaciuto” (Mt 3,17; Lc 3,22); “Egli è il mio eletto” (Is 42,1), ovvero, quello che più di tutti ha saputo interpretare la sua volontà salvifica.
[9] Nello specifico cristiano l’agnello non viene più prelevato dagli animali, ma è Cristo stesso, che liberamente si sacrifica in segno di espiazione dei peccati del mondo. Egli, consegnando a Dio la propria innocenza attraverso il suo sacrificio, consente all’uomo di riacquisire l’originaria purezza perduta col peccato. Tale è infatti il significato che gli viene attribuito dal Battista quando lo riconosce come “l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo” (cf. Gv 1,29).
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