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Omelia del 27/09/2020 - 26a Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Aggiornamento: 29 set 2020


Ez 18, 25-28; Sal 24; Fil 2, 1-11; Mt 21, 28-32

La giustizia giustificativa di Dio


Domenica scorsa la parabola degli Operai nella vigna ha suscitato, in diversi di noi, alcune perplessità, in merito all’apparente arbitrarietà con cui Dio elargisce la salvezza nei confronti di chi accetta di lavorare per il suo regno nel mondo: “Amico … non posso fare delle mie cose quello che voglio?”, recita il versetto in questione (Mt 20, 14). Si tratta di un aspetto sul quale ritengo opportuno ritornare, sia perché esso è in continuità col tema della liturgia di oggi, sia perché lascia emergere una questione importante per la nostra fede, come attesta la sua particolare risonanza nella Bibbia e l’intenso dibattito a livello morale e teologico che si è sviluppato nel corso dei secoli. Essa può essere riassunta, in modo piuttosto eloquente, nella seguente domanda: nel giudizio finale Dio sarà giusto o misericordioso? La questione nasce evidentemente dalla difficoltà a coniugare in un unico significato la coppia giustizia - misericordia che a nostro giudizio culturale presenta elementi alquanto distanti tra di loro.


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Nella parabola la questione prende spunto da una “mormorazione” espressa da un operaio (cf. Mt 20, 12), al quale era risultato piuttosto ingiusto l’atteggiamento del padrone assunto al termine della giornata, quando nel pagare gli operai aveva dato a quelli dell’ultima ora la stessa paga di quelli della prima ora (cf. v. 9).

La questione, lasciata, per così dire, ai margini del nostro orizzonte culturale, viene portata in primo piano dal profeta Ezechiele che, facendosi interprete di Dio, riferisce la sua risposta a quanti lo accusano di differire dal tradizionale concetto di giustizia retributiva: “Voi dite: non è retto il modo di agire del Signore”. Ascolta dunque, casa d’Israele: Non è retta la mia condotta o piuttosto non è retta la vostra? (Ez 18, 25). Secondo questa teoria infatti Dio dovrebbe premiare i giusti e punire i peccatori e invece egli si mostra prodigo anche nei confronti di questi ultimi.

Tanto la critica dell’operaio, quanto le accuse raccolte da Ezechiele, sembrano portare alla luce le difficoltà che anche di molti di noi manifestano in merito. Anche noi infatti facciamo fatica a capire perché Dio si mostri misericordioso anche nei confronti dei peccatori, o come dice Gesù: “fa piovere e sorgere il sole sopra i giusti e sopra gli ingiusti” (cf. Mt 5, 45). Ci riesce difficile capire come egli possa essere al contempo giusto e misericordioso. Questa difficoltà trapela da quel modo piuttosto comune di pensare, purtroppo diffuso anche tra noi cristiani, quando ci esprimiamo più o meno in questi termini: non sarebbe più giusto che Dio la facesse “pagare” all’ingiusto e si mostrasse misericordioso solo con i buoni? È una domanda che emerge con forza ogni qualvolta ci ritroviamo coinvolti in una terribile situazione di ingiustizia personale e sociale.

La questione si presenta piuttosto delicata e per affrontala è opportuno partire dall’esatto significato dei termini. Per farlo ci sforzeremo di assumere quello stesso formulato dalla mentalità biblica. Anche se non mancano casi in cui la giustizia assume una connotazione fortemente giuridica, il termine, biblicamente parlando, intende esprimere in primo luogo la fedeltà di Dio a se stesso e più specificamente alla sua promessa salvifica fatta ai patriarchi (cf. R. Penna, Lettera ai Romani, p. 66, n. 63), esattamente come lui stesso afferma attraverso il profeta Ezechiele: “Io non godo della morte dell’empio, ma che l’empio desista dalla sua condotta e viva” (Ez 33, 11). Ciò significa che il criterio fondamentale con cui Dio esercita il suo giudizio, non è il rigorismo giuridico, rigidamente applicato su tutti, ma l’amore personalizzato che viene versato nei cuori a secondo delle particolare circostanze. Il passo di Ezechiele ci fa capire che le intenzioni originarie di Dio sono salvifiche e tali rimangono anche nei casi di peccati gravi. Egli intende essere salvatore non giustiziere. Per questa ragione è disposto a far di tutto pur di salvare ad ogni costo qualcuno. Egli non accetta l’idea che una sua creatura possa essere sottratta al suo sguardo d’amore e diventare preda del nemico. Un simile epilogo sarebbe una sconfitta per lui. Da qui il senso di giustizia inteso come giustificazione, che teologicamente dice l’opera con cui Dio rende giusto, ovvero redime, il peccatore, non già in merito alle sue opere, bensì per mezzo della grazia che elargisce liberamente e gratuitamente attraverso la fede in Cristo (cf. Rm 8, 33-34).

Per cogliere il senso di questo comportamento di Dio, potremmo guardare a quello di molte mamme che assumono nei confronti dei figli, quando sono oggetto di terribili offese; oppure a quello di molti di noi, quando veniamo oltraggiati da una persona estremamente cara. In simili casi siamo portati quasi istintivamente a giustificare l’altro, per via del forte amore che nutriamo verso di lui. Questo comportamento che noi di solito assumiamo solo nei confronti delle persone care, Dio lo assume consapevolmente, liberamente e gratuitamente anche nei confronti di coloro che vivono sistematicamente secondo una logica di peccato. Questo atteggiamento di Dio lo si spiega in base al fatto che egli ha sempre come obiettivo la persona e la sua redenzione, più che la giustizia fine a se stessa. A differenza nostra, Dio esercita la giustizia lasciandosi guidare dal criterio redentivo, più che da quello punitivo. Il suo fine non è la giustizia, ma l’amore. Prima ancora che giusto Dio è amore (1 Gv 4, 8). La sua giustizia sta perciò nella piena manifestazione della sua misericordia. Egli è giusto perché ama e ama giustificando. La sua giustizia sta nell’atto di giustificare. L’amore è per lui il principio primo della giustizia. È amando che Dio rende l’uomo giusto, consentendogli di essere pienamente e autenticamente se stesso nel rapporto con Dio e nelle relazioni interpersonali e sociali.

Il senso della giustizia dunque non sta nella rigida applicazione delle norme giuridiche, come avviene nel nostro immaginario collettivo, ma nel rendere l’uomo responsabile di ciò che pensa, dice e fa nei confronti di sé, di Dio, dell’altro e del creato. Anche l’uomo, al pari di Dio, prima ancora che alla giustizia è chiamato ad amare. E’ questo il principio che lo fa autenticamente e pienamente se stesso. Amare infatti riassume tutta la volontà di Dio sull’uomo. E questa non va considerata come l’imposizione di un imperativo categorico, esercitato da un monarca assoluto, che necessita di sudditi per esibire la sua supremazia, ma nel manifestare le condizioni che consentono all’uomo la possibilità di realizzare appieno la sua umanità. In questo senso la volontà di Dio mira esclusivamente al bene dell’uomo, all’esercizio e al progresso di tutte le sue facoltà. Le conseguenze positive o negative che scaturiscono dalle azioni dell’uomo, dipendono solo dalla responsabilità personale. In questo il profeta Ezechiele, come attesta l’inizio del nostro capitolo, si rivela assai distante dalla tradizionale teoria retributiva, con la quale si era soliti interpretare la giustizia di Dio, secondo la quale “I padri hanno mangiato l’uva acerba e i denti dei figli si sono allegati” (Ez 18, 2). La dannazione alla quale il peccatore espone la propria vita non dipende solo dalle scelte compiute dagli altri prima di lui, ma è l’immediato esito delle proprie azioni. Il giudizio di Dio sta nel far prendere coscienza delle conseguenze delle scelte personali. Dio non punisce l’uomo perché fa una volontà contraria alla sua, ma lo corregge per metterlo nella condizione di cogliere le conseguenze della sue scelte (cf. Ez 18, 28). La volontà che Dio chiede all’uomo di compiere non è determinata da un ostinato capriccio divino, col quale intende a tutti i costi limitare la sua libertà, al contrario essa costituisce la conditio sine qua non della sua libertà. Ne interpreta la qualità più profonda e autentica. Pertanto l’uomo è pienamente libero non quando decide arbitrariamente ciò che vuole, ma quando compie la volontà di Dio fino in fondo. La volontà di Dio, contrariamente all’opinione comune, non è vincolante, ma liberante. Paradossalmente è nella relazione con Dio che l’uomo scopre la sua piena libertà.

Allo stesso modo va intesa la giustizia dell’uomo. Egli è giusto non quando applica la Legge in modo rigoroso e pedissequo, ma quando ama secondo la volontà di Dio. La giustizia perciò prima ancora che una questione morale è una questione esistenziale e teologica. È amando che l’uomo viene reso giusto. In questo senso la giustizia non va intesa come rigorosa applicazione della norma giuridica, ma come fedeltà alla volontà di Dio, espressa dalla sua promessa salvifica. L’uomo è giusto quando è fedele a Dio. E’ esattamente questo il messaggio che Gesù ha inteso esprimere attraverso la sua parabola dei due figli (Mt 21, 28-32). A suo giudizio quindi la salvezza non consiste nel rispetto intransigente della Legge, come ritenevano i Giudei, ma nel compiere fino in fondo la sua volontà. Tra i due figli che rispondono alla chiamata di Dio, infatti, a salvarsi è solo il primo, ovvero chi nella vita riconosce la vanità effimera della propria volontà e pentendosi si decide a compiere solo quella di Dio. Il principale criterio con cui discernere la salvezza sta nel cercare, seguire e compiere la volontà di Dio. I Giudei invece convinti di disporre del criterio dell’osservanza della Legge, intesa come via privilegiata della salvezza, non hanno ritenuto neppure mettersi in discussione, per aprirsi alla nuova via salvifica che Dio stava loro aprendo attraverso il Battista. Paradossalmente invece coloro che come i pubblicani e le prostitute, non dispongono di nessun criterio salvifico, si salvano non per le loro opere, per altro contrarie perfino alla morale, ma per la fiducia incondizionata all’amore salvifico di Dio, mostrata loro attraverso Cristo. Fare la volontà di Dio ecco il criterio primo della salvezza. E per farla occorre procurarsi di avere – come afferma san Paolo – gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù. Infatti egli pur essendo Dio non usò la sua divinità come criterio salvifico, bensì scelse di salvare l’uomo seguendo la via della fede in Dio (cf. Fil 2, 1-11). Per questa ragione la fede in lui costituisce il principio primo della nostra salvezza, il fondamentale criterio di discernimento della giustizia giustificativa di Dio. È qui la radicale novità del messaggio evangelico proclamato da san Paolo nella sua lettera ai Romani.

 
 
 

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