9 Giugno 2024 - Anno B - X Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 8 giu 2024
- Tempo di lettura: 8 min
Gen 3,9-15; Sal 129; 2Cor 4,13-5,1; Mc 3,20-35
Le condizioni per divenire madre e fratelli di Gesù

“Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano. È fuori di sé … Ma gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano: Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del principe dei demòni … In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna. Poiché dicevano: È posseduto da uno spirito immondo”.
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare … e gli dissero: Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano. Ma egli rispose loro: Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli? Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre”. (Mc 3,20-22.28-35).
Il brano evangelico di oggi delinea due scene che interagiscono tra loro non solo a livello narrativo, ma anche a livello teologico: la prima è relativa all’incontro di Gesù con i suoi familiari, i quali lo ritengono “fuori di sé”, a causa di alcune sue affermazioni e atteggiamenti fin troppo estremi; la seconda scena riguarda, invece, lo scontro con gli scribi, i quali affermano che: “Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del principe dei demòni” (Mc 3,22).Si tratta, dunque, di un brano in cui Gesù viene attaccato su due fronti: quello familiare e quello istituzionale. Entrambi non riescono a cogliere la straordinaria novità del suo spessore profetico e del suo stile di vita evangelico. Noi cercheremo di evidenziare il nesso tra queste due scene, nel tentativo di cogliere il senso del brano.
Partiamo dalla prima scena. “Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: “È fuori di sé” (Mc 3,21). È interessante notare questo calo di stima che i familiari nutrono nei confronti di Gesù: “E’ fuori di sé”. Quale maldicenza o cattiveria sentirono dire i parenti sul suo conto, al punto da irritarsi così tanto e ritenerlo folle? Noi non sappiamo con precisione cosa abbia fatto Gesù, né cosa abbiano detto gli altri, per provocare una simile reputazione. L’evangelista Marco, tuttavia, sembra lasciarcelo intendere nel corso della lettura dei capitoli precedenti, dove racconta alcuni episodi, tra i quali quello della remissione dei peccati, compiuta nei confronti del paralitico, che secondo gli scribi spettava solo a Dio (cf. Mc 2,1-12), motivo per cui Gesù sembra attribuirsi un potere inaudito; o la sua incomprensibile solidarietà con i pubblicani – cosa inammissibile per un uomo di Dio come lui – con i quali non esita a condividere perfino i pasti, come accade nel caso del banchetto organizzato da Matteo il pubblicano, per celebrare la gioia della sua chiamata (cf. Mc 2,13-17); o ancora l’assurda giustificazione che dà a coloro che gli fanno notare che né lui, né i suoi discepoli si attengono alle norme mosaiche previste per il digiuno e il riposo sabatico (cf. Mc 3,18-28). Per queste e, probabilmente anche per altre ragioni, come potevano essere la sua decisione di scegliere il celibato per vivere con maggiore radicalità la sua fede, il che lo esponeva a una vita itinerante, più conforme a chi aveva deciso di dedicarsi esclusivamente alla predica del regno di Dio (cf. Mc 1,14), condivisa con un piccolo gruppo di discepoli, insieme ai quali riteneva di anticipare il futuro escatologico. Per queste ragioni, dicevamo, Gesù viene dichiarato pazzo, folle, tanto che i suoi familiari ritengono opportuno prendere delle precauzioni, come accade in quelle famiglie, dove un membro viene severamente ammonito, quando assume atteggiamenti stravaganti che rischiano di rovinare la buona reputazione sociale del casato. Per loro Gesù sembrava aver raggiunto il colmo della misura: le sue affermazioni e i suoi atteggiamenti risultavano troppo inaudite e radicali; da qui la decisione di riportarlo a casa, impedendogli di parlare in pubblico o almeno di invitarlo a non esporsi così esplicitamente.
Ma chi sono i familiari di Gesù a cui si fa riferimento in questo brano? Marco parla qui di loro non solo in termini generici “i suoi” (Mc 3,21), ma precisa anche che si tratta della “mamma e dei fratelli” (Mc 3,31), sebbene nel capitolo 6 definisca anche i loro nomi: “Giacomo, Ioses (Giuseppe), Giuda e Simone”, dove giunge perfino a parlare di sorelle, lasciandole però nell’anonimato, sia nel numero che nei nomi (cf. Mc 6,3). A noi questa menzione crea non poche difficoltà, poiché mette in discussione l’unicità della nascita di Gesù: era veramente figlio unico di Maria? Da dove provengono questi fratelli? Alcuni studiosi per eludere questa difficoltà interpretano il termine greco adelphos, (che letteralmente significa “fratello”), come cugino, il cui termine invece è anepsiós. Ma Marco usa adelphós e non anepsiós. A rendere ancora più complessa la questione sembra lo stesso Giacomo, definito “fratello del Signore” anche da Matteo 13,55 e da Paolo (Gal 1,19), il quale però risulta figlio di Alfeo, fratello di Giuseppe (sposo di Maria) (Mc 3,18; Mt 10,3; Lc 6,13; At 1,13) e di Cleofa, una di quella Maria che secondo Gv 19,25, si trovava sotto la croce di Gesù. In effetti questi brani risultano piuttosto imbarazzanti e problematici, e la questione che provocano non sembra di facile risoluzione da parte degli esegeti. Alcuni di questi dati, infatti, lasciano intendere che Gesù avesse realmente dei fratelli nel senso consanguineo del termine; altri invece sembrano smentirlo. La questione pare destinata a rimanere aperta. Tuttavia è interessante notare come Marco, che non esita ad omettere un simile dato anagrafico, definisca Gesù come “Cristo” e “Figlio di Dio”, sin dall’inizio del suo Vangelo (cf Mc 1,1). Nessun idealismo spirituale, dunque, ma solo realismo evangelico capace di lasciare al lettore la libertà di decidersi per un’esperienza di fede, alla quale Marco sembra voler condurre col suo racconto. È opportuno precisare anche che se la presenza di un simile dato avesse potuto inficiare la fede, difficilmente il Vangelo sarebbe stato giudicato canonico. Il che lascia intendere la sua scarsa rilevanza teologica. Anche perché la questione, a quanto pare, non è quella di sapere se Gesù avesse o meno dei fratelli, ma capire le condizioni per divenire suoi discepoli, come lascia intendere lo stesso Marco quando, referendoci l’episodio, ci dice che “la madre e i fratelli … lo mandarono a chiamare”, ma lui osservando coloro che stavano lì ad ascoltare la sua parola, disse: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?... Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre”.
Riconsiderando le ragioni che hanno determinato la questione, c’è da dire che, effettivamente, non è facile capire Gesù, ancora meno dichiararsi per lui, ponendosi alla sua sequela. Anche Maria ha riscontrato questa difficoltà, visto che insieme a Giuseppe “non compresero le sue parole” (Lc 2,50) al momento del primo pellegrinaggio di Gesù al Tempio. Lei stessa ha dovuto compiere il difficile passaggio da madre a discepola. E la difficoltà nasce proprio dal fatto che lei, in quanto madre, avrebbe potuto arrogare a sé il diritto di esercitare su Gesù il suo, per così dire, ‘dominio genitoriale’, e invece ha dovuto lei stessa svuotarsi di queste prerogative. Seppure con un po’ di fatica Maria aveva compreso molto bene che Gesù, col suo messaggio evangelico, aveva ben altri obiettivi: creare le condizioni che predispongono i suoi ascoltatori a intessere con lui una relazione spirituale che va al di là dei rapporti parentali. Egli considera la relazione col Padre al di sopra di quella familiare, per questo “si scandalizzavano di lui” (Mc 6,3), al punto da impedirgli perfino di operare miracoli. Così mentre i parenti cercavano di ingabbiarlo all’interno dei loro schemi parentali, egli intende liberarli proprio dalla loro mentalità possessiva, che impedisce loro di compiere il passaggio da un affetto secondo la carne ad una relazione secondo lo Spirito. Costoro, infatti, anziché mettersi in ascolto della sua parola, ritenevano di doverlo istruire dicendogli cosa dire e cosa fare, come dirlo e come farlo. Le affermazioni di Gesù e soprattutto lo stile evangelico che aveva scelto di seguire, apparivano loro troppo utopistici, più vicine a quelle di chi nutre ancora ideali adolescenziali della vita che non a quelle di un uomo maturo, esperto, pratico e smaliziato, come avrebbe dovuto essere uno della sua età. Malgrado queste ostilità familiari, però, Gesù non si lascia intimorire, al contrario appare più che mai convinto a proseguire per il suo cammino, deciso a rimanere fedele alle sue scelte e convinzioni (cf. Mc 1,11), e soprattutto deciso a compiere fino in fondo la volontà di Dio (cf. Lc 2,49; Mc 14,36). Quello descritto sembra allora lo stesso rischio al quale ci esponiamo anche noi quando, quando, trincerandoci dietro una fede tradizionale, fatta di precetti e liturgie rituali, non riusciamo a cogliere “l’altezza, la lunghezza, la profondità e l’ampiezza … dell’amore di Cristo” (Ef 3,18-19), al quale intendono condurci coloro che si sforzano di vivere più intensamente il Vangelo.
Ma veniamo ora alla seconda scena, nella speranza di cogliere un nesso non solo con quella appena descritta, ma anche col brano della prima lettura, tratto dal libro della Genesi. Stando all’evangelista Marco, sembra che la principale attività taumaturgica di Gesù sia orientata a liberare coloro che erano posseduti dagli spiriti impuri, come attestano i vari passi che Marco dedica a queste guarigioni (cf. Mc 1,34.39), tra le quali quella avvenuto di sabato nella sinagoga di Cafarnao (cf. Mc 1,21-28; 3,11), dove la guarigione suscita reazioni contrastanti: di ammirazione e stupore da parte della gente: “Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!” (Mc 1,27); di critica e di condanna da parte degli scribi: “Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del principe dei demòni” (Mc 3,22).
Un’accusa gravissima quella che gli viene rivolta, poiché non riguarda una questione legale, ma chiama in gioco direttamente la sua identità divina e soprattutto il ‘principio spirituale’, in base al quale egli opera i suoi esorcismi. Per cogliere la gravità di questa affermazione diabolica, occorre inquadrare l’opera di Gesù nel contesto della sua relazione intima col Padre e con lo Spirito. Ogni cosa che Gesù dice e fa non è mai finalizzata ad ostentare sé stesso, ma è sempre tesa a realizzare l’opera del Padre: “Se io scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio” (Lc 17,21). Ogni opera che Gesù compie è segno dell’azione del Padre in lui. Attraverso i suoi prodigio, e in particolare gli esorcismi, egli non fa che sottrarre l’uomo al potere del demonio. Il regno di Dio che lui annuncia, è null’altro che la manifestazione della sua regalità nel mondo. Negare questa intima sinergia divina che sussiste tra Gesù e il Padre nello Spirito, significa rifiutare consapevolmente la sua missione salvifica. Attribuire poi al potere di Beelzebùl questa sua attività esorcistica, significa per Gesù commettere un peccato contro lo Spirito Santo, per il quale, a suo giudizio, non ci sono rimedi. “In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna” (Mc 3,18-29). Non si tratta di una falsa interpretazione teologica, ma di un vero e proprio rifiuto categorico del potere salvifico dello Spirito.
Qual è la radice di questo atteggiamento che impedisce ai familiari di riconoscere e agli scribi di contestare e rifiutare questo potere salvifico che Cristo esercita per mezzo dello Spirito? La risposta sembra provenire dalla prima lettura, nella quale l’autore coglie nel recondito desiderio dell’uomo di vivere un’esistenza autonoma e indipendente da Dio, la radice del suo peccato, a partire dal quale egli si scopre totalmente “nudo”, privo cioè di quella intima relazione con Dio e perciò esposto a tutte le conseguenze esistenziali che ne derivano, perfino a quella di avere paura del suo creatore (cf. Gen 3,9-10). Malgrado tutto Gesù non sembra arrendersi a questo rifiuto. Il suo scopo è quello di purificare la mentalità condizionata dal diavolo e riaccendere nell’uomo la speranza di un rinnovato rapporto con Dio, capace di vivere un’esistenza lontana da ogni forma di antagonismo con Dio, tale da condurlo alla pienezza della sua libertà. Ma ciò prevede la stessa condizione che Gesù chiede ai suoi parenti: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?... Ecco mia madre e i miei fratelli! Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre”.




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