8 Giugno 2025 - Anno C - Pentecoste
- don luigi
- 7 giu
- Tempo di lettura: 8 min
At 2,1-11; Sal 103/104; Rm 8,8-17; Gv 14,15-16.23-26
Pentecoste: origine della vita ecclesiale

“Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi … Ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa … delle grandi opere di Dio?” (cf. At 2,1-11).
“In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre … il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (cf. Gv 14,15-16.23-26).
Se l’Ascensione chiude il ciclo della vicenda terrena di Gesù, la Pentecoste inaugura quello della Chiesa nel mondo. In realtà Cristo continua a vivere e ad essere sempre presente nella Chiesa, come aveva promesso: “Io sarò con voi tutti i giorni, fino alla fine dei tempi” (Mt 28,20), ma non più fisicamente, bensì misticamente, e più precisamente nella forma dello Spirito. Questa nuova forma di esistenza è quella che Paolo definisce in termini di “vita secondo lo Spirito” (cf. Gal 5,16-25; Ef 4,17-6,24). Vivere nella Chiesa significa perciò vivere nello Spirito del Cristo Risorto.
Come per l’Ascensione anche in questo caso ci poniamo qualche domanda introduttiva alla celebrazione: cos’è la Pentecoste e cosa comporta nel nostro vissuto relazionale? Per rispondere a queste domande è opportuno rifarsi alle origini bibliche di questa festa. Essa affonda le radici nella celebrazione della Pasqua ebraica, con la quale gli ebrei ricordavano il dono della Legge, ricevuta ‘cinquanta giorni’ dopo l’uscita dall’Egitto e il passaggio del Mar Rosso. Da qui il termine Pentecoste[1].
L’evento descritto da Luca nel libro degli Atti accade proprio “mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste” (At 2,1). Pertanto mentre la festa ebraica celebra il dono della Legge, quella cristiana celebra il dono dello Spirito, ovvero del comandamento dell’amore, col quale Cristo ci introduce nella stessa comunione d’amore di Dio. Quello Spirito che ci fa partecipare della sua eredità filiale, ci permette di rivolgerci a Dio chiamandolo “Abba! Padre!” (Rm 8,16), creando, in questo modo, i presupposti per una rinnovata relazione con Dio e con gli altri. In questo senso lo Spirito che è all’origine dell’Incarnazione di Cristo (cf. Lc 1,35; Mt 1,20) e della sua vita pubblica (cf. Lc 3,21-22; Mc 1,9-12; Mt 4,16-4,1) è all’origine anche della vita ecclesiale (cf. At 2,1-4).
Ma cosa accadde quel giorno da essere riconosciuto dagli apostoli come un evento dello Spirito, fondativo della Chiesa? Di certo non fu un evento inatteso, al contrario, stando al Vangelo di Giovanni, Gesù ne preannuncia la venuta già nel Discorso di Addio, durante il quale fa più volte riferimento allo Spirito, che lui definisce con vari appellativi come: Paraclito, Consolatore (cf. Gv 14,16.26; 15,26; 16,7), Spirito di verità (cf. Gv 14,17;15,26; 16,13), Spirito Santo (cf. Gv 14,26). Si tratta di un dono che Cristo elargisce agli apostoli solo dopo il suo ritorno al Padre (cf. Gv 16,7); riservato, quindi, a coloro che nutrono una relazione di fede con lui, fuori della quale la sua identità risulta misteriosa e incomprensibile al mondo, in quanto questo non dispone della giusta mentalità per accoglierlo e riconoscerlo (cf. Gv 14,17). Lo Spirito garantisce la presenza mistica di Cristo stabile e duratura nella Chiesa. Attraverso di lui infatti Cristo rimarrà sempre presente con gli apostoli (cf. Gv 14,16), fino alla fine dei tempi (cf. Mt 28,20); per questa ragione essi non rimarranno mai orfani (cf. 14,18). Chi lo riceve ha modo di partecipare dell’intelligenza di Cristo: la sua funzione, infatti, è quella di aiutare gli apostoli a fare memoria di tutto il suo insegnamento e a renderlo comprensibile (cf. Gv 14,26), guidandoli alla conoscenza di tutta la verità (cf. Gv 16,13). Non si tratta di una conoscenza immediata, ma graduale, della quale gli apostoli saranno resi partecipi nella misura in cui condivideranno il peso della responsabilità salvifica di Cristo (cf. Gv 16,12)[2].
Quello descritto da Luca negli Atti è un evento che presenta una portata “carismatica” e “profetica” al contempo, in continuità con la rivelazione veterotestamentaria di Dio. “Carismatica”, perché assistiamo ai segni tipici della manifestazione teofanica di Yahweh, come quella del Roveto ardente (cf. Es 3,1-3), o quella sul monte Sinai (cf. Es 19,16-19), attraverso il fragore, il fuoco, il vento impetuoso (cf. At 2,2-3); “profetica” perché realizza l’unità di tutti i popoli nell’adorazione dell’unico Dio, preannunciata dai profeti (cf. Is 2,2-3; 60,1-6; Sal 71,11.17). La presenza di persone di varie etnie provenienti da diversi luoghi in quel giorno a Gerusalemme (cf. At 2,9-11) ci suggerisce, infatti, l’universalità a cui è chiamata la fede ebraica. Un evento, dunque, che ci dà modo di cogliere lo scopo e la funzione della Chiesa nel mondo, qual è quello di realizzare il sogno di Cristo: fare di tutti una cosa sola, allo stesso modo con cui egli vive in unità col Padre nello Spirito (cf. Gv 17,21).
Protagonista indiscusso di questo evento è perciò lo Spirito che nello specifico si manifesta attraverso il dono delle lingue (cf. At 2,4.6). Un segno che la tradizione esegetica non ha mancato di comparare a quello della Torre di Babele (cf. Gen 11,1-9). Anche in quel caso a Babilonia (II millennio a.C.) si pensò di creare un progetto unitario che uniformasse tutte le differenze dei popoli sottomessi ai Babilonesi, in nome di una ideologia di stato. Simbolo di questa unità ideologica doveva essere una torre, conosciuta come la ziqqurat Etemenanki di Babilonia. Una enorme struttura a gradoni, dedicata al dio Marduk, alta tanto quanto bastasse per raggiungerlo nel cielo. L’opera in realtà non fu mai portata a termine, forse per motivi politici, economici o anche architettonici, per questa ragione, quando gli Ebrei furono deportati a Babilonia (VII sec. a.C.) ritennero questo esito dovuto all’arroganza e alla presunzione di chi ha la pretesa di sfidare Dio nel suo stesso luogo: il cielo. Babele infatti secondo la lingua accadica deriva da bab-el che significa porta di dio. La torre doveva consentire all’uomo di ricongiungersi (re-ligio) a Dio e alla sua eternità, ma farlo in virtù delle proprie forze. Questa pretesa, stando al racconto della Genesi 11,1-9, viene interdetta da Dio che interviene creando scompiglio e confusione, facendo sì che quel progetto di uniformare le lingue non fosse portato a compimento. Da qui anche l’altra etimologia, non da tutti condivisa del nome Babele, riconducibile all’ebraico balal che significa confondere.
Di contro a questa arrogante pretesa l’evento di Pentecoste segna una decisiva svolta nel modo d’intendere e realizzare l’unità voluta da Dio. Anche in quel giorno a Gerusalemme c’erano popoli provenienti da aree geografiche diverse e ciascuno era caratterizzato da una diversa sensibilità culturale, linguistica e religiosa. Eppure malgrado tutto essi ebbero modo di sperimentare un’unità nella diversità mai conosciuta prima di allora. Cosa successe? Luca, nel descrivere l’episodio, ci dice che gli apostoli pur conoscendo una sola lingua “cominciarono a parlare lingue diverse, nel modo con cui lo Spirito dava loro modo di esprimersi” (At 2,4). D’altra parte i popoli presenti in quella circostanza, pur parlando lingue diverse, ebbero modo di “ascoltare ciascuno nella propria lingua nativa” (At 2,8). Come fu possibile un simile prodigio? È chiaro che ci troviamo dinanzi ad un evento che sfugge allo stesso cronista, che però non si dispensa dall’interpretarlo. Il miracolo dunque sembra manifestarsi non solo a livello di emittenza, ma anche a livello di ricezione. Luca, infatti, insiste per ben tre volte (cf. At 2,6.8.11) che gli astanti comprendevano ciascuno nella propria lingua, il discorso di Pietro.
Per avere un’idea di questo straordinario evento dello Spirito potremmo rifarci al passo paolino della prima lettera ai Corinti, nel quale afferma: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come un bronzo che rimbomba o come un cimbalo che strepita” (1Cor 13,1). Per Paolo dunque sembra che la questione non stia nel saper parlare molte lingue, quanto nell’entrare in sintonia con l’unica lingua dello Spirito. È entrando in comunione con lui che ciascuno ha modo di comprendere e di farsi comprendere dagli altri. La carità è l’unica condizione che consente di creare unità con l’altro senza annullare le sue differenze. Così mentre a Babilonia si finì con l’uniformare le differenze a Pentecoste esse furono comprese e vissute come condizione dell’unità[3]. È a questo livello che diventa possibile stemperare i conflitti che provengono dalle alterità, ovvero dalle diversità etniche, culturali, intellettive, religiose e sperimentare la pacificazione interiore che viene dallo Spirito. Paradossalmente la Pentecoste ci fa capire che proprio quando si vive e si accetta fino in fondo la propria diversità e quella dell’altro che si diventa veramente universali, nel senso “cattolico” del termine.
A che pro’, dunque, sembra chiedersi Paolo, disporre di carismi diversi se essi non vengono compresi e vissuti in vista di Cristo e della salvezza operata da lui nella Chiesa? Unità e molteplicità costituiscono due aspetti della vita ecclesiale (cf. 1Cor 12-14), ma vissuti senza lo Spirito, rischiano di generare solo tensioni conflittuali. La carità invece è il criterio per eccellenza per riconoscere la loro origine divina e la loro finalità salvifica. Unità e diversità costituiscono gli elementi che fondano la vita relazionale della Chiesa, animata dallo Spirito, il quale elargisce diversi carismi, in vista dell’unico corpo di Cristo che è la Chiesa. Se c’è dunque una realtà che salva nella Chiesa questa è la carità.
[1] La festa veniva celebrata infatti al termine di un ciclo di “sette settimane”, perciò detta anche “festa delle settimane”, nella quale si ringraziava originariamente il Signore per il dono dei frutti della terra. Con questa festa praticamente si concludeva tutto il ciclo festivo della Pasqua ebraica.
[2] È interessante notare che quello Spirito che è all’origine dell’Incarnazione del Verbo, è anche all’origine della nostra divinizzazione; quello Spirito che è all’origine della nostra conversione personale, è all’origine anche della nostra conversione ecclesiale. È per mezzo dello Spirito che noi diventiamo membra del corpo mistico di Cristo che è la Chiesa. Il che comporta la responsabilità di interagire tra di noi secondo la logica relazionale della vita trinitaria. E come Gesù si è lasciato costantemente guidare dallo Spirito, così la Chiesa è chiamata a farlo nella storia, per giungere alla verità tutta intera (cf. Gv 16,13), quella cioè della piena e definitiva comunione col Padre, quando Dio sarà tutto in tutto (cf. 1Cor 15,28). È a queste condizioni che essa potrà portare a termine il piano salvifico di Dio, fino alla fine dei tempi (cf. 1Cor 15, 28). Non è un caso dunque che Cristo invii i suoi apostoli nel mondo allo stesso modo con cui lui è inviato dal Padre (cf. Gv 20,19-23), per compiere la stessa opera evangelica: predicare a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati (cf. Lc 24,47), e battezzare tutte le nazioni nel nome del Padre, Figlio e Spirito Santo (cf. Mt 28,19).
[3] La Pentecoste determina il passaggio dall’unità intesa come uniformità delle differenze all’unità intesa come unificazione delle diversità. Qui infatti la diversità viene vissuta come condizione dell’unità e l’unità come presupposto della diversità.
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