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7 Luglio 2024 - Anno B - XIV Domenica del Tempo Ordinario






Ez 2,2-5; Sal 122; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6


La durezza di cuore


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Franco Zeffirelli, Gesù nella sinagoga di Nazareth, in Gesù di Nazareth (1977)

“Partito di là, (Gesù) andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono. Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: ‘Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani? Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?’. E si scandalizzavano di lui. Ma Gesù disse loro: ‘Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua’. E non vi poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità” (Mc 6,1-6).

Dopo la straordinaria testimonianza di fede dell’emorroissa e di Giairo (cf. Mc 5,21-43), la Liturgia della Parola di oggi ci presenta due brani biblici (Ez 2,2-5 e Mc 6,1-6) che fanno luce su un atteggiamento di tutt’altra valenza religiosa: la durezza di cuore. La Bibbia parla spesso di questo aspetto, ritenendolo come un atteggiamento tipico d’Israele, definito come un “popolo di dura cervice” (cf. Es 32,7-14; 33,5; 34,9; Dt 9,6.13;10,16; 31,27) o “genia di ribelli”, come preferisce definirlo il profeta Ezechiele (cf. Ez 2,2.5.7.8; 3,9.26.27; 12,2.3.9.25). Anche Gesù non manca di rilevare questo atteggiamento in diversi suoi ascoltatori (cf. Mt 13,15) e non esita a evidenziarlo perfino nei suoi apostoli, come annota Marco a seguito del miracolo della moltiplicazione dei pani: “Non avevano capito il fatto dei pani, essendo il loro cuore indurito” (Mc 6,52). I Padri traducono questa espressione con un termine greco, il cui lessico è tutt’ora presente nel nostro vocabolario: sclerocardia[1], da sklèros che significa duro, e kardìa che significa cuore.

Ripercorrendo la storia d’Israele sembra che la sclerocardia costituisca una delle principali cause della resistenza del popolo ebraico nei confronti di Dio. Nel brano di oggi il profeta Ezechiele ci racconta la visione che è all’origine della sua missione profetica: Dio lo chiama nel tentativo di convertire il cuore del suo popolo: “Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me … Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito” (Ez 2,3-4). Non importa se essi ti ascolteranno o meno, dovranno perlomeno riconoscere che c’è un profeta in mezzo a loro (cf. Ez 2,5). Ezechiele, sin dall’inizio, sa che la sua è una missione difficile. Egli non incontrerà persone disponibili a riconoscere il carattere profetico dei suoi interventi, tanto meno qualcuno che sia disposto a facili consensi. Nessuna idealizzazione, dunque, che renda la sua missione attraente; nessuna speranza di incontrare qualcuno che lo aiuti a portare il peso della sua responsabilità. Al contrario dovrà affrontare i numerosi contrasti e le continue resistenze facendo affidamento solo su Dio. Tutte difficoltà che lo porteranno a sperimentare le più dure ribellioni e rifiuti. Quella del profeta si rivela, perciò, tra le missioni divine più difficili. Per il profeta Ezechiele non c’è altro modo di guarire da questa malattia se non con un “trapianto del cuore”, come lascia intendere una delle sue pagine profetiche più belle, dove, facendosi interprete della parola di Dio, dice: “Vi darò un cuore nuovo, infonderò dentro di voi uno spirito nuovo, rimuoverò dal loro petto il cuore di pietra e vi porrò un cuore di carne, così che seguano i miei decreti, rispettino i miei precetti, osservino le mie leggi e li mettano in pratica; essi saranno il mio popolo e io sarò il loro Dio” (Ez 11,19-20; 36,24-29).

Le difficoltà a cui fa riferimento Ezechiele vengono sperimentate anche da Gesù, nell’attuale brano evangelico. L’episodio ci viene riportato da Marco, ma è possibile reperire qualche informazione anche da Matteo (cf. Mt 13,53-58) e da Luca (cf. Lc 4,14-30), in particolare quest’ultimo ci offre la descrizione più ampia ed esauriente dell’accaduto. Si tratta del ritorno di Gesù alla città natale: Nazaret, dove, stando alla versione lucana, furono proprio loro: i nazaretani ad invitarlo nella sinagoga, probabilmente per verificare, da vicino, l’attendibilità della sua fama: “Quanto abbiamo udito che accadde a Cafarnao, fallo anche qui, nella tua patria” (Lc 4,23). C’era, quindi, un clima di attesa quel sabato nella sinagoga, e Gesù, a quanto pare, non deluse le aspettative, visto “insegnava loro come uno che ha autorità” (Mc 1,22). Si capisce perciò lo stupore che Gesù suscitava nei suoi interlocutori, i quali rimangono meravigliati della profondità del suo insegnamento e della prodigiosità delle sue opere, tanto da chiedersi: “Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani?” (Mc 6,2-3). Le cose sembravano andare per il meglio, quando improvvisamente accadde qualcosa che né Marco né Matteo sembrano descrivere chiaramente. Entrambi, infatti, ci riferiscono che i nazaretani cambiarono repentinamente l’atteggiamento nei confronti di Gesù. Nessuno dei due però ci dice cosa disse Gesù in quella circostanza, da suscitare una simile reazione. Sta di fatto che essi dallo stupore passano rapidamente all’ostilità, fino a “scandalizzarsi di lui”. “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo …”. L’espressione assume, in questo contesto, un tono di stupore, ma al tempo stesso, di resistenza e di avversione, come se a un certo punto Gesù avesse cominciato ad avanzare delle pretese e ad esigere da loro un maggiore ascolto, ma essi, invece, reagirono inaspettatamente con sospetto e diffidenza. Il clima nella sinagoga si fece così duro e pesante che Gesù “non vi poté operare nessun prodigio”, anzi, fu profondamente meravigliato della loro incredulità.

Luca invece ci fa capire che questo cambiamento repentino fu dovuto alle parole di commento che Gesù pronunciò sul passo di Isaia: “Oggi, si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (Lc 4,21). Dinanzi a una simile affermazione i nazaretani capiscono di non trovarsi più dinanzi a un compaesano che viene loro a condividere il suo prestigio personale, bensì davanti a un uomo che rivela tutta la statura profetica della sua missione, il quale non fa sconto ad alcuno, neppure ai suoi amici e conoscenti. E non è escluso che sia stata proprio questa affermazione a suscitare la loro ostilità, che probabilmente suonò alle loro orecchie come un’ambiziosa pretesa; tanto che Gesù si sentì costretto a difendersi citando un proverbio: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. In Luca lo scandalo suscitato da Gesù sfocia addirittura in una reazione di sdegno così violenta da decidere addirittura di eliminarlo, gettandolo giù dal precipizio, sul quale era situata la città (cf. Lc 4,28-29).

Ma proviamo ora a capire cosa comporta questo episodio nella prassi quotidiana della nostra fede. Quali aspetti esso ci invita a rilevare? La reazione emotiva dei nazaretani sembra riflettere da vicino l’atteggiamento religioso di molti cristiani. Anche noi, come loro, andiamo fieri del passato glorioso della vita cristiana e di aver dato i natali a una sterminata schiera di santi, di artisti, poeti, musicisti e perfino politici, magistrati e scienziati che si sono, in certo qual modo, distinti nei loro campi anche grazie alla loro professione di fede nella giustizia, nella pace secondo lo spirito delle Beatitudini evangeliche, ma difficilmente siamo disposti ad attualizzare, nell’oggi della nostra vita culturale e sociale, la loro esigenza spirituale e il loro rigore morale. Stimiamo il carattere profetico della loro fede, eppure ci mostriamo così riluttanti nel praticare seriamente i principi evangelici che essa propone. Siamo orgogliosi di definirci cristiani, ma viviamo perfettamente secondo la logica del mondo, senza che questo atteggiamento ci faccia minimamente prendere coscienza dell’evidente contraddizione. E quando ci ritroviamo a confrontarci con chi vive seriamente il Vangelo, o per lo meno si sforza di integrarlo nella propria vita quotidiana, lo percepiamo come chi viene a rompere l’equilibrio del nostro status quo religioso.

Sembra che la situazione religiosa dei nazaretani sia la stessa di quella ecclesiale. Per cui viene da chiedersi: cosa impedì ai nazaretani di riconoscere il carattere profetico di Gesù? E cosa manca anche a noi per riconoscere la statura profetica di quelle figure che, magari si astengono dal definirsi pubblicamente cristiani, ma che dimostrano di avere uno sguardo più lungimirante, autentico e profondo della realtà, rispetto a quello sclerotizzato di tanti ecclesiastici che non fanno che ripetere il già detto e risaputo. Forse anche noi come loro manchiamo effettivamente di quei criteri spirituali che ci consentono di riconoscere gli uomini di Dio. Si capisce allora la ragione per cui tanti di noi, scandalizzati da una testimonianza che non corrisponde ai canoni religiosi che ci siamo creati, si sentono addirittura autorizzati a cacciarli fuori dalle proprie comunità, totalmente indifferenti al dolore che possono loro recare, anzi convinti perfino di ritenere giusta la loro condanna (cf. Lc 4,28-29).

La semplicità con la quale Gesù si presenta loro e si fa interprete del piano salvifico di Dio, in mezzo al suo popolo è così disarmante, da indurli a ritenerlo un arrogante presuntuoso. La conoscenza che essi vantano di possedere della sua vita quotidiana e familiare, e delle sue umili origini, impedisce loro di riconoscere in lui la presenza di Dio all’opera. Gesù, fuori da tutti quei schemi sociali e culturali che siamo soliti affibbiare ai personaggi pubblici, manifesta il suo spessore profetico fondato più sull’autorevolezza carismatica della sua persona che non sull’esercizio del ruolo sociale, conferitogli da qualche potere religioso. In effetti lo scandalo sembra concentrarsi proprio qui: Gesù non corrisponde ai loro schemi mentali, la sua testimonianza è troppo diversa dalle loro attese ed essi hanno la pretesa di poter ingabbiare la sua libertà. Si aspettavano un uomo di Dio perfetto e invece Gesù si mostra in tutta la sua più disarmante umanità. Per cui egli appare loro come un’autentica delusione, che li fa gridare allo scandalo. In effetti, passare dalla visione religiosa di un Dio perfetto, alla fede in un Dio che si manifesta nella semplice umanità di una persona è questo lo scandalo provocato da Gesù. “La fede – come afferma Fausti - non è accettare che Gesù si faccia Dio, ma che Dio sia Gesù”. È lo scandalo dell’incarnazione. Un Dio che ci salva con e attraverso la sua carne: “Caro cardo salutis: la sua carne è cardine della salvezza!”. È lo scandalo della fede cristiana: nell’uomo Gesù, in tutto simile a noi, abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (cf. Col 2,9). È lo scandalo contro il quale molti inciampano e cadono. Diversamente è nell’accoglienza di questo mistero l’inizio della salvezza. La fede cristiana non è un cammino di perfetti virtuosi tra giusti, ma di peccatori salvati dall’amore. E il cristianesimo non è un ideale per ostentare le proprie virtù, ma un’esperienza di relazione che rinnova e trasfigura i nostri limiti. 

È chiaro che la durezza di cuore di cui stiamo parlando non è quella ostentata dai negazionisti di Dio, i quali rifiutano a priori qualsiasi apertura trascendente, ma quella che si manifesta ad un livello religioso più profondo, e che, in misura diversa, impedisce comunque allo Spirito di operare nel cuore dell’uomo e all’uomo di capire, di aderire e realizzare pienamente la logica evangelica di Cristo nei vari ambiti della vita sociale e culturale. Riletta in questa prospettiva la missione profetica nell’oggi della nostra fede, non è quella di chi predice il futuro, quanto quella di chi sa cogliere la volontà di Dio nelle vicende della vita quotidiana. Esercitare questo discernimento significa educare le persone a scoprire le cause delle proprie resistenze e ad investire le proprie energie creative, morali e spirituali nella realizzazione del regno di Dio nel mondo. Per questo genere di persone la profezia costituisce non solo lo scopo della propria missione, ma il criterio con cui dare ragione della verità evangelica. Non si tratta di un criterio legalista, tipico di chi mira ad affermare la sovranità della fede su tutto, su tutti e a tutti i costi, in virtù della propria autorità religiosa, ma di un atteggiamento di apertura mentale, spirituale e morale che consente di riconoscere e condividere con tutti la bellezza dell’amore di Dio. Solo alla luce di questo amore diventa possibile smascherare le menzogne, le resistenze e le durezze che impediscono a molti di riconoscere e vivere appieno la vita evangelica. Il nostro Dio si manifesta nella debolezza della carne, auguro perciò a ciascuno di fare proprie le parole di Paolo “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10).

 

 


[1] In medicina il termine indica l’ispessimento delle strutture di sostegno di un organo che ne rendono difficile il funzionamento. In senso figurato la sclerosi si riferisce a tutta una gamma di comportamenti che indica la mancanza di flessibilità, di elasticità mentale e quindi di irrigidimento dinanzi ai mutamenti della vita. Così, a livello intellettivo la sclerosi si manifesta quando facciamo fatica ad uscire fuori dai nostri rigidi schemi razionali, specie quando essi non sono più in grado di rispondere alle rinnovate esigenze culturali; a livello morale invece quando non riusciamo ad incarnare nelle circostanze concrete, i principi etici ai quali ci ispiriamo, assumendo comportamenti duri, inflessibili, sotto l’aspetto legale; mentre a livello spirituale, essa si manifesta quando ci mostriamo incapaci di essere compassionevoli, misericordiosi, indisponibili ad andare al di là delle offese ricevute. Specie a questo livello la sclerocardiapuò diventare una vera e propria patologia che impedisce qualsiasi tipo di cambiamento e quindi di conversione. La sua prolungata reiterazione può portare ad una morte spirituale, rendendo l’uomo cieco e sordo, incapace di percepire anche le più evidenti sollecitazioni e moti dello Spirito. Essa è un sintomo di quell’idea di autosufficienza, sempre attiva in noi, che è all’origine del peccato e che, nella sua forma più eclatante, si manifesta attraverso quei sentimenti di ribellione o di scetticismo verso Dio.

 
 
 

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