6 Luglio 2025 - Anno C - XIV Domenica del tempo ordinario
- don luigi
- 5 lug
- Tempo di lettura: 8 min
Is 66,10-14; Sal 65/66; Gl 6,14-18; Lc 10,1-12.17-20
l mandato missionario di Gesù

“In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città ... Diceva loro: La messe è abbondante, ma sono pochi quelli che vi lavorano! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi chi lavori nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa! Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: È vicino a voi il regno di Dio” (Lc 10,1-9).
Dopo la missione dei Dodici, descritta all’inizio del capitolo 9 di Luca, la Liturgia ci propone anche quella dei Settantadue discepoli, narrata all’inizio del capitolo 10. Questa insistenza tematica sembra costituire un invito ad approfondire il tema del mandato missionario di Gesù. Eccoci perciò ad accoglierlo con alcune domande introduttive: in cosa consiste questo ulteriore mandato missionario? Come mai Gesù avverte l’esigenza di istituire un altro gruppo di discepoli, più numeroso rispetto ai Dodici, ai quali affida lo stesso incarico? Chi sono questi altri discepoli? Quando sono stati chiamati? Come e dove si sono formati? Qual è il contenuto che essi dovranno annunciare? E soprattutto qual è il modo con cui dovranno predicare? Intanto è interessante notare che il mandato che essi ricevono da Gesù è lo stesso che lui ha ricevuto dal Padre: “Come il Padre ha mandato me, così io mando voi” (Gv 20,21). E anche il contenuto è lo stesso della predicazione di Gesù: “Andate … e dite loro: è vicino a voi il regno di Dio” (cf. Lc 10,3.9; Mc 1,15). Quel “regno” che costituisce il principale obiettivo della predicazione di Gesù, diviene ora anche l’oggetto dell’attività predicativa dei suoi discepoli.
Il racconto di questi nuovi discepoli, di cui Luca precisa anche il numero “settantadue”[1], ci offre delle importanti informazioni sulla metodologia missionaria di Gesù. Essi infatti vengono inviati “a due a due in ogni città e luogo dove stava per recarsi” (Lc 10,1). La formula “a due a due” chiarisce la condizione della vita del regno di Dio. Il numero due è il requisito fondamentale dell’amore: per amare occorrono almeno due persone. È la stessa condizione relazionale che sussiste tra il Padre e il Figlio[2]. Andando a “due a due” essi rendono immediata e visibile la testimonianza dell’amore reciproco, al quale erano stati educati da Gesù durante la permanenza con lui (cf. Mc 3,14). L’invio dei discepoli, tuttavia, come annota Luca, precede la predicazione di Gesù. La loro dunque sembra essere una sorta di preevangelizzazione, attraverso la quale dovranno predisporre i cuori ad accogliere l’annuncio salvifico di Cristo.
Ma la metodologia missionaria di Gesù, oltre a queste condizioni relazionali, prevede anche alcune disposizioni personali, tra le quali si distingue la “povertà”, che assume in questo caso una connotazione specificamente intellettiva e spirituale, oltre che materiale, come chiarisce bene Matteo nel Discorso delle beatitudini: “Beati i poveri in spirito” (Mt 5,3). Per questo tipo di annuncio, infatti, non occorrono conoscenze straordinarie, né strategie pastorali, o piani preventivi, né appoggi politici e neppure consensi culturali[3]. Il presupposto fondamentale è la povertà, ovvero la totale fiducia nell’azione provvidenziale di Dio che è indice di libertà da tutto ciò che potrebbe vincolare o soffocare l’azione dello Spirito nella realtà del mondo. “Né borsa, né bisaccia, né sandali” (Lc 10,4), ma solo Dio per dire Dio. “Il di più viene dal maligno” (cf. Mt 5,37). I discepoli dovranno andare nell’assoluta convinzione che Dio provvederà a tutte le loro esigenze. Per questa ragione essi, entrando in una città o in una casa, dovranno accettare quanto viene loro dato, senza esigere di più. Che questa povertà spirituale comporti una totale fiducia in Dio Padre, lo si deduce anche dalle parole che accompagnano il mandato: “Andate: ecco io vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” (Lc 10,3). Si tratta dunque di un atto di estrema fiducia nella sua Parola e nell’azione provvidente di Dio, secondo le parole del Salmo 118/117, 6-9: “Il Signore è con me, non ho timore; che cosa può farmi l’uomo? Il Signore è con me, è mio aiuto, sfiderò i miei nemici. È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nell’uomo. È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nei potenti”. La fiducia costituisce il presupposto per riconoscere che il principale artefice del Regno è Dio. Occorre essere in piena comunione con lui e fare solo la sua volontà se non si vogliono vanificare tempo ed energie.
Se la povertà è la conditio sine qua non della missione, la preghiera ne costituisce la linfa vitale. Essa deve occupare un posto fondamentale nella vita dei discepoli, come in quella di Gesù. Per Gesù nulla accade fuori da un contesto di preghiera. Nella preghiera egli trova la forza per fronteggiare le tentazioni. Nella preghiera egli matura le grandi decisioni della sua vita, come la scelta di vivere all’insegna dello stile evangelico, o ancora la chiamata dei discepoli. Sempre nella preghiera accadono gli eventi decisivi che rivelano la sua identità messianica: come il battesimo nel Giordano, la moltiplicazione dei pani, la trasfigurazione, la passione. La preghiera è l’alveo nel quale Gesù si pone in ascolto della parola di Dio e ne comprende la sua volontà. Lo stesso vale anche per i discepoli: è nella preghiera che essi potranno chiedere gli operai necessari alla diffusione e realizzazione del regno di Dio, secondo l’invito di Gesù: “Pregate il padrone della messe perché mandi operai nella sua messe” (Lc 10,2). L’annuncio del regno nel mondo, comporta un lavoro notevole che Gesù da solo o coadiuvato dai dodici, non può supportare. Esso necessita di nuovi operai. Ecco allora chiarirsi il senso dei “settantadue”, che nonostante il numero rimane sempre inferiore alle esigenze del regno. Il regno è sempre necessitante di operai. Il suo numero è sempre inferiore. Può sembrare un paradosso, ma è quello sufficiente di cui Dio ha bisogno. Essi sono proporzionali alla quantità del lievito di cui ha bisogno la vita per essere lievitata.
Nell’annunciare il “regno di Dio” i discepoli, prima ancora di provvedere ai bisogni materiali[4] degli altri, dovranno portare la “pace” di Cristo: “In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa” (Lc 10,5). Ma cos’è questa pace di cui parla Gesù e perché la ritiene così prioritaria nel mandato missionario, da anteporla a qualsiasi altro dono? La pace predicata dai discepoli è la definitiva riconciliazione con Dio, quella che si sperimenta al momento del perdono, dopo la dolorosa esperienza del peccato che agita, angoscia e rende inquieto il cuore dell’uomo, come fa notare argutamente Agostino, quando dice che “Il nostro cuore è inquieto Signore, finché non riposa in te”. È quella condizione rassicurante che si sperimenta nelle circostanze concitate della vita, come quella a cui si riferisce il Salmo 27/26: “Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non teme: se contro di me divampa la battaglia, anche allora ho fiducia”, oppure quella espressa dal Salmo 131/130: “Io resto quieto e sereno: come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l’anima mia”. La pace, pertanto, non si riduce ad una formula di saluto, ma costituisce lo status del regno, come attestano le parole che Gesù rivolge ai discepoli riuniti nel Cenacolo, dopo la sua risurrezione: “pace a voi” (cf. Gv 20, 19.21.26). La sua presenza è segno che il regno è giunto in quel luogo, perciò costituisce il criterio per riconoscerne la presenza.
Questa pace potrà essere accolta o rifiutata. L’uno o l’altro atteggiamento determina la qualità di vita di una persona, di una casa, di una città o di una nazione. Nel caso in cui essa viene accolta i discepoli avranno guadagnato una persona al regno di Dio, diversamente “dovranno scuotere perfino la polvere che si è attaccata ai loro piedi” (cf. Lc 10,11), a testimonianza del rifiuto di cui i discepoli non dovranno più ritenersi responsabili.
Nel descrivere l’episodio del “mandato missionario” Luca ci racconta anche gli effetti provocati dalla predicazione dei “settantadue”. Tra di essi vi è soprattutto la gioia, che ora avvertono di condividere con il loro maestro. La gioia è un altro segno distintivo del regno, quando scaturisce dalla constatazione delle meraviglie operate dalla Parola. Essa, infatti, come fa notare Gesù, non dipende dalla loro abilità oratoriale, dal successo della loro missione o dal numero dei miracoli da essi compiuti, e neppure dalla loro immunità all’azione del demonio (cf. Lc 10,17), quanto piuttosto dal fatto che “i loro nomi sono scritti nei cieli “(Lc 10,20). Questa è l’unica cosa di cui essi dovranno rallegrarsi. Qui è lo scopo della loro missione. Qui è la gioia di Cristo, come lui stesso afferma nel detto: “C’è più gioia in cielo per un peccatore pentito che per novantanove che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).
Si capisce, in questo contesto, anche il senso del brano di Isaia, propostoci dalla liturgia odierna. Il profeta è anch’egli attraversato dal profondo desiderio di condividere quella gioia interiore che proviene dalla ritrovata libertà del suo popolo, al termine dell’esilio babilonese. Si tratta di un brano ricco e raffinato, sotto l’aspetto letterario, come ricco e raffinato è il repertorio lessicale con cui lui esprime le straordinarie sfumature della gioia biblica: rallegratevi, esultate, sfavillate, consolatevi, deliziatevi dell’amore che Dio nutre per chiunque decide di condividere la realtà del suo regno (cf. Is 66,10-14). Isaia, come Gesù, gioisce dinanzi alle meraviglie operate da Dio, specie quando si diviene oggetti della sua salvezza, la stessa che anche noi siamo chiamati a condividere e a contagiare, quando veniamo resi partecipi dell’amore di Dio. Qui è la ragione, l’essenza e lo scopo di ogni azione missionaria. Prima ancora di essere oggetto della predicazione, il “regno di Dio” è uno stile di vita che i discepoli apprendono direttamente da Gesù, come motivo della loro chiamata (cf. Mc 3,14). Più specificamente è la vita divina che Gesù condivide personalmente col Padre nello Spirito e comunitariamente con i discepoli. Una vita divina che va estesa anche a quella umana, affinché anche qui si viva all’insegna della stessa relazione d’amore trinitario.
[1] Chi sono questi settantadue? Nessun evangelista ne parla. Perché proprio settantadue o settanta come si legge da altri codici? Il numero settantadue o settanta è significativo perché rimanda ai settanta anziani di Israele che vengono scelti da Mosè per aiutarlo a condividere il peso della sua missione e sui quali viene effuso il suo Spirito (cf. Nm 11, 16). Si tratta perciò di un primo esempio di missione nella Bibbia. Ma settanta – secondo il testo originale ebraico – settantadue secondo quello greco – è anche il numero delle nazioni pagane elencate nella cosiddetta “tavola delle nazioni” (cf. Gn 10). È un modo questo per indicare l’universalità della missione alla quale è chiamata la Chiesa, come attestano gli Atti degli Apostoli 2.
[2] Si tratta chiaramente di una relazione d’amore che diviene comprensibile solo all’interno di quella evangelica che Gesù stabilisce con i suoi discepoli, come descritta da Giovanni nel suo Vangelo (cf. Gv 15,9-17). Nella vita trinitaria lo Spirito è colui che rende possibile il dono d’amore che ciascuno fa di sé all’altro: il Padre, nel donarsi al Figlio, si fa nulla d’amore, al punto da rendersi visibile nella presenza operante del Figlio; a sua volta il Figlio, nel farsi dono al Padre, rivela la sua identità divina nella volontà salvifica del Padre.
[3] L’esperienza insegna che questi supporti solo apparentemente sembrano offrire dei validi contributi e non è detto che vadano esclusi, ma col tempo si rivelano spesso condizionanti e perfino limitanti.
[4] Il dare da mangiare, da bere, il visitare i carcerati, vestire gli ignudi e così via – quei servizi cioè che qualifichiamo come opere di misericordia corporale – sono certamente compiti importanti, che testimoniano l’autenticità evangelica e per altro quelli sui quali saremo interrogati e chiamati a rispondere dinanzi a Dio nel giorno del giudizio, ma non sono l’essenza del vangelo, che rimane quella della salvezza della persona per mezzo della comunione d’amore.




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