30/08/2020 - 22a Domenica del Tempo Ordinario - Anno A
- don luigi
- 30 ago 2020
- Tempo di lettura: 6 min
Ger 20, 7-9; Sal 62; Rm 12, 1-2; Mt 16, 21-27
La logica della sequela: pensare secondo Dio
Dopo aver esposto l’identità messianica di Cristo e lo specifico della fede cristiana, la liturgia della Parola di questa domenica, descrive le condizioni della sequela, richieste a chiunque decide di diventare discepolo di Gesù. La fedeltà a lui richiede in primo luogo l’adesione piena e totale alla volontà di Dio. Non basta decidersi per Cristo e neppure comprendere la sua identità divina, occorre sposare la logica della sua missione: “Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno” (Mt 16, 21... ). Essa fa luce sul nucleo della fede evangelica, descrivendo gli elementi costitutivi del kerigma: passione, morte e risurrezione. Solo chi perviene a questo fondamento può dirsi veramente discepolo di Cristo e testimone del suo amore.

Per introdurci nel senso di questa logica evangelica ci lasciamo guidare dal brano del profeta Geremia, nel quale egli descrive ciò che l’amore di Dio ha determinato in lui. Esso fa da preambolo a qualsiasi cammino di fede ed è a fondamento di ogni chiamata e missione divina. La mancata esperienza di questo amore rende praticamente impossibile capire il pensiero di Cristo, quando espone il “dovere di andare a Gerusalemme”, per sottolineare la necessità di passare attraverso la sofferenza nel portare a compimento il piano divino (cf. Mt 16, 21). Questa necessità comporta delle scelte e decisioni che spesso rompono decisamente con la propria mentalità e perfino col proprio carattere, come dimostra Geremia. Egli, infatti, è per natura una persona raffinata, colta, mite, pacifica, riservata e invece Dio lo espone al ludibrio, alla vergogna, all’oltraggio pubblico: “Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si fa beffe di me” (Ger 20, 7). Una situazione questa che potrebbe indurlo ad abbandonare Dio e la sua missione, ma proprio quando decide: “Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome” (9), egli si scopre completamente coinvolto nel suo disegno e sedotto dal suo amore (cf. Ger 20, 7), tanto da sentirsi impossibilitato a fare a meno di lui. La sua esistenza si rivela indissociabile da quella divina. L’amore di Dio che lui prova nel suo cuore è così profondo da percepirlo come un “fuoco ardente”, che pur volendo non riesce più a spegnere. Esso brucia, senza consumarsi, come il roveto di cui parla Mosè (cf. Es 3,2).
Il brano del profeta Geremia ci fa capire che solo chi giunge a fare una simile esperienza d’amore trova le ragioni per rimanere fedele a Dio, specie nelle circostanze in cui la realizzazione del suo piano richiede repentini e inattesi cambiamenti di programma. La tentazione di giungere ad un livello di tranquillità e sicurezza spirituale, tale da non essere più esposti a rischi e imprevisti, è sempre in agguato. Il cammino di fede tracciato da Cristo, invece, richiede un costante atteggiamento di apertura all’imprevedibile iniziativa divina. Pietro, infatti, dopo aver intuito l’identità messianica di Cristo, pensava di aver raggiunto un traguardo che lo mettesse al sicuro da ogni ulteriore pretesa spirituale e di essersi perfino accattivata l’attenzione e la simpatia di Gesù, al punto da concedersi la licenza di rimproverarlo e dirgli come e cosa doveva fare: “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai” (Mt 16, 22). Ma Gesù, lungi dal lasciarsi ingabbiare dalla sua intelligenza perspicace, non solo lo apostrofa come Satana: “Va dietro a me, Satana” (Mt 16, 23), ma si rivela ancora più esigente nelle sue condizioni di sequela: “Se qualcuno vuol venire dietro di me, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16, 24-25). E benché Gesù avesse deciso di cominciare a parlare apertamente della sua missione, Pietro manifesta ancora profonde difficoltà a capire il suo modo di pensare e ancora di più ad aderire alla sua missione salvifica. Egli invece di convertirsi al modo di pensare di Dio, continua a rileggere la missione salvifica di Cristo in una prospettiva umana, palesemente condizionata da idee culturali, del tutto mondane.
“Pensare secondo Dio”. Questa richiesta che Gesù chiede a Pietro fa luce su un livello di fede che solo pochi riescono a raggiungere. Essa è tra le più difficili da attuare, poiché oltre alla conversione morale e spirituale, richiede anche quella intellettuale. Non si tratta solo di aderire ad alcuni principi morali e di vivere secondo alcune forme di vita spirituale, ma di giungere a “pensare secondo Dio”, il che significa che non basta sviluppare una riflessione più o meno teologica, ma acquisire una nuova metodologia di pensiero, che prevede non solo di pensare Dio, ma di pensare in Dio e con Dio. Si tratta perciò di una metodologia trinitaria, secondo la quale il discepolo consente allo Spirito di Dio di pensare in lui e con lui giungere a scrutare il mistero della grazia rivelato agli uomini per mezzo di Cristo (cf. Ef 3). Questo nuovo modo di pensare, esigito da Cristo, richiede un vero e proprio rinnovamento mentale, la cui attuazione prevede una condizione ineludibile: il rinnegamento del proprio modo di pensare Dio, che Gesù esprime secondo la formula: “Pensare secondo gli uomini”. Tale pensiero si riferisce a quella visione religiosa alla quale si perviene attraverso gli studi, la ricerca, la formazione culturale, l’acquisizione di quei criteri intellettuali e filtri interpretativi che contribuiscono a sviluppare in noi la nostra idea di Dio. Questa idea di Dio, alla quale giungiamo, non senza sforzi personali, è molto spesso influenzata da visioni culturali e politiche che agiscono in noi, senza accorgercene, inquinando e perfino alterando la verità; e benché essa conservi alcune intuizioni autentiche, la sua argomentazione razionale giunge perfino a piegare Dio alla logica del nostro modo di pensare e di agire. Questo epilogo è molto spesso il risultato di un sistema razionale che ci fa ritenere verità rivelata quella che in fondo è solo il risultato di una nostra riflessione intellettuale più o meno teologica. E quando ciò accade riteniamo perfino doveroso imporre la nostra idea di Dio a tutti. Quante esperienze spirituali, progetti pastorali, piani missionari, ritenuti ispirati, in realtà si rivelano animati solo da quella logica strisciante e subdola dell’io che fa di tutto pur di conquistare il mondo. La storia ci insegna che questo modo di “pensare Dio secondo gli uomini” è destinato ad infrangersi contro gli eventi con i quali Dio dischiude il suo piano salvifico nella storia. Da qui la domanda che sempre dovrebbe precedere, accompagnare e orientare i nostri progetti: quale vantaggio avrà un uomo se realizza le proprie idee e opere, ma impedisce al regno di Dio di avanzare nel mondo? (cf. Mt 16, 26).
Gesù chiede che questo modo umano di pensare Dio vada necessariamente rinnegato. Permanere in esso, nonostante il suo insegnamento, significa esporre il suo vangelo a contaminazioni culturali che rischiano di alterarne il contenuto e la potenza trasfiguratrice della sua Parola, esattamente come Gesù rimprovera a Pietro e come Paolo biasima i Galati (cf. Gal 3, 1ss). Piegare a Dio la propria volontà e al suo pensiero la propria mente, costituisce per Paolo il sacrificio più gradito a Dio, la forma più alta del culto spirituale. È attraverso questo percorso tracciato da Cristo che ci conformiamo all’immagine di Dio in noi. Per questa ragione si rivela di estrema importanza la docilità all’azione dello Spirito di Dio che rinnova il nostro modo di pensare adeguandolo a quello di Dio. Solo a queste condizioni giungiamo a conoscere i criteri con cui discernere la volontà di Dio in tutte le circostanze della vita, così da fare sempre solo ciò che è buono, a lui gradito e perfetto (cf. Rm 12, 1-2).
“Pensare secondo Dio”, significa allora aderire con tutto se stessi, a quel modo con cui Gesù vive la sua relazione col Padre e sposa fino in fondo il suo piano salvifico, conformandosi alla sua volontà, anche quando questa si rivela del tutto diversa dalla sua. Il discepolato di Cristo comporta perciò la necessità di evitare due atteggiamenti estremi: da una parte quello che induce a rassegnarsi alla volontà di Dio e ad eseguirla senza né comprenderla né amarla; dall’altra quello di giungere ad una conoscenza così raffinata e perfetta da considerarla come criterio di giudizio e di salvezza, fino a dire a Dio come, quando e verso chi attuare la sua salvezza. Il Salmo 62 che vi invito a pregare, ci dà invece la vera immagine del discepolo, quella di chi trova solo in Dio la pienezza di senso della propria vita.




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