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29 Maggio 2022 - Anno C - Ascensione del Signore


At 1,1-11; Sal 46/47; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53


Ascendere santificando gli altri


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Al termine del ciclo delle “Apparizioni” che caratterizza il Tempo Pasquale, la Chiesa ci fa celebrare la festa dell’Ascensione di Gesù al Cielo. Tra gli evangelisti che ci riferiscono di quest’episodio Luca è l’unico a trattarlo più estesamente, descrivendolo per ben due volte: sia nel Vangelo (Cf. Lc 24,50-53), sia nel libro degli Atti degli Apostoli (Cf. At 1,9-11). Nel primo caso conclude il ciclo della vicenda terrena di Gesù; nel secondo caso apre quello della Chiesa nella storia. Marco si limita solo a citarla (cf. Mc 16, 19); Matteo non la menziona (cf. Mt 28,16-20) e Giovanni la lascia intendere sia nell’apparizione del Risorto a Maria (cf. Gv 20,17), sia nell’apparizione degli Undici al Cenacolo, dove sembra includerla nell’evento della Risurrezione e della Pentecoste (cf. Gv 20,22-23). L’evangelista Luca fa riferimento ad essa anche quando descrive la visione mistica del diacono Stefano, avuta al momento del suo martirio, poco prima di morire: “Stefano, pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra e disse: Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio” (At 7,55).

Questi riferimenti biblici ci inducono a farci qualche domanda: quale significato teologico ha l’ascensione e soprattutto cosa comporta per la nostra vita spirituale? A livello teologico essa porta a compimento l’evento dell’Incarnazione del Verbo e determina il definitivo ritorno di Cristo al Padre. A livello spirituale invece essa esplicita il cammino di progressiva trasfigurazione e conformazione a Dio, a cui è chiamato ogni discepolo di Cristo. Tale cammino spirituale diviene più chiaro a partire dal significato del termine, che è quello di “salire”. Biblicamente questo movimento viene inteso sia sotto il profilo fisico, come nel caso di Mosè che sale sul monte Sinai (cf. Es 19), sia in senso mistico, come nel caso di Elia (cf. 2Re2,1.6-14) e di Enoch (cf. Sir 44,16), che vengono rapiti al cielo. In ogni caso essa prevede una comunione con Dio, come accade anche allo stesso Gesù. Attraverso l’Ascensione Cristo infatti ritorna alla sua vita originaria, dove ristabilisce la sua comunione d’amore col Padre nello Spirito. In tutti questi casi il conseguimento della comunione con Dio comporta una decisiva separazione dalla logica della vita quotidiana e abitudinaria. L’ascensione di Gesù dice infatti l’atto con cui egli viene “portato via”, “tolto”, “rapito” e “condotto in alto”. Si tratta però di un rapimento che preannuncia una relazione più intensa e feconda che Gesù stabilisce con i suoi apostoli per mezzo dello Spirito.

L’episodio accade in Galileia e precisamente sul monte degli Ulivi, dove Luca, nel Vangelo, ci dice che Gesù “mentre benediceva i suoi apostoli, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo” (Lc 24,50); nel libro degli Atti invece parla anche di una “nube che lo sottrasse ai loro occhi” e di “due uomini in bianche vesti” che assicurano gli apostoli del ritorno di Gesù nella Parusia, allo stesso modo con cui nella nube è andato in cielo (cf. At 1,10-11). La presenza della “nube” dice il carattere misterioso di questo evento che sfugge all’indagine empirica. Con questo episodio Luca chiude l’intero ciclo delle apparizioni del Risorto, durato quaranta giorni, numero simbolico per dire il processo col quale Gesù porta a termine il cammino formativo della fede degli apostoli, come ci suggerisce l’episodio dei due discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,25-27).

Per cogliere un ulteriore sviluppo del significato teologico e spirituale del termine è opportuno anche un riferimento a Paolo, che nella sua Lettera agli Efesini si domanda: “Ma cosa significa la parola ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra?” (cf. Ef 4,9). Paolo traccia con questo versetto l’intero percorso esistenziale del Verbo: dal Padre al mondo e dal mondo al Padre. A questa parabola discendente e ascendente di Cristo Paolo fa riferimento anche nel brano della lettera ai Filippesi 2,5-11, dove ne parla in termini di kenosi, per descrivere il movimento scandaloso dell’Incarnazione e quello glorioso della Risurrezione; col quale mette a fuoco l’essenza della spiritualità di Cristo, caratterizzata dalla dinamica del “nascondimento” e della “manifestazione”. Se l’Incarnazione ha comportato un progressivo “nascondimento” del Verbo nella forma dell’uomo e del “servo obbediente” che muore in croce, la Risurrezione ha manifestato invece tutta la vita gloriosa della sua identità divina. L’Ascensione tuttavia non si riduce ad un episodio della vita di Gesù, ma preannuncia il futuro dell’intera umanità, chiamata a condividere con Gesù il suo stesso destino di comunione col Padre, rivelandole così la sua origine divina e la sua destinazione finale. In questo senso essa costituisce un invito a cercare le cose di lassù (cf Col 3, 1-3), a vivere cioè secondo la vita nuova in Cristo, inaugurata dallo Spirito.

Ma come avviene ciò? I brani biblici che la Chiesa ci propone per la circostanza evidenziano, a loro modo, alcuni aspetti che ci consentono di tratteggiare una possibile risposta a questa domanda. L’autore della Lettera agli Ebrei, per esempio, rilegge l’evento dell’Ascensione di Cristo in chiave sacerdotale, e ci dice che Cristo ascendendo al cielo rompe il velo del tempo e dello spazio, per entrare nel vero “santuario” eterno di Dio, di cui quello terreno è solo una prefigurazione, e compie questo atto non per offrire dei doni, ma se stesso a Dio. Il suo è un atto di definitiva consegna al Padre che non prevede altri sacrifici, alla maniera del sacerdozio veterotestamentario, secondo il quale il sacerdote era tenuto a compiere un sacrificio per se stesso e per il popolo, tutte le volte che doveva officiare una liturgia cultuale (cf. Eb 9,24-28). Il suo è un atto col quale inaugura il nuovo sacerdozio: ovvero la nuova vita in Cristo. Il che significa che d’ora in poi ogni discepolo, per essere veramente tale, non può limitarsi a vivere donando qualcosa di sé a Dio, ma è chiamato a donare se stesso, esattamente come ha fatto Gesù. In questo senso ciascuno di noi partecipa del sacerdozio di Cristo nella misura in cui vive la propria vita all’insegna della donazione di sé agli altri. Pertanto la vita sacerdotale, alla quale partecipiamo anche noi, altro non è che la condivisione di questo unico sacrificio, mediante il quale viene portato a compimento quello che manca al disegno salvifico della Chiesa: la consegna del mondo al Padre, finché egli sarà tutto in tutto.

Un atto dunque necessario quello dell’Ascensione, come fa intendere il brano degli Atti e del Vangelo di Luca, poiché senza il ritorno al Padre di Gesù, non sarebbe stato possibile il dono dello Spirito. Nel Vangelo di Giovanni Gesù dice: “È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi” (Gv 16,7). Si tratta di una partenza che evidenzia il valore del “nascondimento”. Era necessario che Gesù si nascondesse perché lo Spirito potesse manifestarsi. Una dinamica spirituale questa che riflette le relazioni della vita trinitaria tra il Padre e il Figlio, secondo le quali il Padre nascondendosi rivela il Figlio e a sua volta il Figlio facendosi nulla rivela il Padre (cf. Lc 10,21-22). La stessa spiritualità che dovrebbe caratterizzare le relazioni della vita ecclesiale, secondo la quale ciascuno cristiano, nella misura in cui riesce a rinnegare o almeno a ridimensionare il proprio io umano, manifesta quello di Cristo nella Chiesa. L’essenza della vita mistica è tutta qui: spogliare se stessi, lasciandosi purificare dallo Spirito, per testimoniare l’opera di Cristo in noi. È questo il processo di divinizzazione al quale siamo chiamati con la celebrazione dell’Ascensione di Gesù al cielo. Così intesa l’Ascensione di Cristo inaugura una nuova forma di vita: quella caratterizzata dalle relazioni trinitarie, secondo le quali ciascuno vive in funzione dell’altro. Non è imponendoci sugli altri che affermiamo noi stessi, ma è promuovendo e valorizzando l’altro che si manifesta la nostra precisa identità personale e relazionale. Una spiritualità dunque quella che scaturisce dall’amore reciproco che lungi dal ristabilire l’ordine dell’antico regno d’Israele, come, nonostante tutto, continuano ancora a chiedere i discepoli al momento dell’Ascensione, crea le condizioni del Regno di Dio nel mondo (cf. At 1,6). Non una spiritualità che si limita all’osservanza pedissequa dei precetti religiosi e morali, ma una che comporta invece una progressiva trasfigurazione, con la quale ciascuno è chiamato ad impregnare di Spirito la vita personale, ecclesiale e sociale, per conformarle a quella trinitaria di Cristo. Si tratta perciò di vivere la nostra esistenza in chiave battesimale: “predicando a ciascuno la conversione e il perdono dei peccati” (Lc 24,46), così da rendere viva la presenza di Cristo nel mondo, per mezzo dello Spirito Santo. In Cristo, perciò, anche noi siamo invitati ad ascendere al Padre, per creare tra le persone la sua stessa vita comunionale.

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