28 Aprile 2024 - Anno B - V Domenica di Pasqua
- don luigi
- 27 apr 2024
- Tempo di lettura: 6 min
At 9,26-31; Sal 21/22; 1Gv 3,18-24; Gv 15,1-8
La vita della vite

“Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15,5). È la metafora con cui Giovanni riprende il tema del rapporto tra Gesù e i suoi discepoli, trattato già domenica scorsa, con la parabola del Buon Pastore (cf. Gv 10,11). E anche in questo caso la Chiesa ci invita a rileggerla alla luce della Risurrezione di Cristo, come a dirci che solo nella prospettiva pasquale, noi possiamo comprenderne il significato più autentico e profondo, evocativa com’è della rinnovata vita che si viene a stabilire tra Cristo e i suoi discepoli a seguito di questo evento. La Risurrezione inaugura, così, una nuova vita relazionale: quella spirituale. D’ora in poi i discepoli dovranno imparare a relazionarsi con Cristo nello Spirito, attraverso il quale egli si rende vivo e vero in mezzo a loro (cf. Gv 20,19.26; Mt 18,20). Questa vita costituisce anche il principio, l’essenza e il fondamento della nascente realtà ecclesiale.
L’immagine della “vigna” è antica quanto quella del “gregge”. Entrambe vengono usate dai profeti per qualificare il popolo di Dio. Così, infatti, attestano i brani di Os 10,1-3; Is 5,1-7; Is 27,2-5; Ger 2,21; Ez 15,1-6; 19,10-14; come anche alcuni Salmi, tra cui quello 80. Anche Gesù ricorre spesso ad esse, sebbene lo faccia con qualche adattamento teologico. Nei suoi Discorsi, infatti, tali immagini (cf. Gv 10,1-21; 15,1-17), più che rappresentare il popolo d’Israele, evidenziano il rapporto che il discepolo deve avere con lui. Dopo la sua Risurrezione i discepoli, infatti, non possono più fare a meno di questo tipo di relazione con Cristo. Essa è indispensabile! Come le pecore, senza il pastore, rischiano di smarrirsi e divenire facili prede dei lupi; così i tralci, senza la vite, rischiano di svigorirsi e seccarsi. In questo senso, tanto la conoscenza reciproca (cf. Gv 10,14-15) che scaturisce dall’immagine del “pastore e delle pecore”, quanto l’unità e la vita di comunione (cf. Gv 15,4-11) che deriva dalla “vite e i tralci”, sono di fondamentale importanza. Tra queste due metafore esistono, dunque, delle affinità che contribuiscono a sviluppare la rinnovata relazione spirituale di Cristo con i suoi discepoli. Essa consente di avere con Cristo un livello di vita intima pari a quello che sussiste tra Gesù e il Padre. Come lui porta frutto in quanto è legato al Padre, così il discepolo può garantire gli stessi frutti se rimane legato a lui. Privo di questa linfa divina il discepolo è praticamente impotente: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). Infatti come Cristo non può esistere senza il Padre, così il discepolo non può vivere senza Cristo. Diversamente “Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto” (Gv 15,5). La relazione con Cristo è, perciò, a fondamento della vita spirituale. Essa costituisce la condizione per essere esauditi in ogni richiesta: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato” (Gv 15,7).
Ma come giungere a questa unità spirituale con Cristo? Essa prevede una imprescindibile operazione: la potatura.

E questa avviene per due motivi: o perché “il tralcio non porta più frutto” o perché “porti più frutto” (Gv 15,2). La prima operazione consiste in un taglio radicale del tralcio, all’altezza della vite; la seconda, invece, consiste nel tagliare il tralcio all’altezza di due o tre gemme (potatura corta), o a quella di cinque o sei gemme (potatura lunga), delle quali alcune sono destinate alla fruttificazione e le altre allo sviluppo vegetativo. Naturalmente si tratta di metafore che stanno ad indicare il modo con cui Dio interviene nella nostra vita spirituale per renderla più feconda e fruttuosa. La potatura allude perciò alle prove che subentrano in certi momenti della nostra vita spirituale. Anch’esse, pur dolorose, contribuiscono a farci crescere e maturare, arrecando notevoli benefici. Le prove, quando vengono accolte e interpretate alla luce del piano salvifico di Dio, si rivelano sempre benefiche, qualunque sia la forma o l’intensità con cui si presentano. “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio”, dice Paolo ai Romani 8,28. A ciò fa eco anche Giovanni, quando nel libro dell’Apocalisse, dice del Vivente: “Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo” (Ap 3,19).
L’esercizio della potatura contribuisce a far luce su un aspetto nevralgico del nostro rapporto con Dio. Attraverso di essa Gesù vuole metterci in guardia dalla tentazione diabolica di un’esistenza autonoma e indipendente nei confronti di Dio. Essa alberga tacitamente nel cuore di ogni uomo e donna, e si manifesta non appena si presenta l’occasione; specie quando cominciamo a ritenerci indispensabili per lo sviluppo della vita spirituale, personale ed ecclesiale. Nessuno, per quanto nutri un rapporto intenso con Dio, ne è esente. Essa è la radice del peccato e induce costantemente l’uomo a ritenere possibile una vita senza Dio. Gesù sfugge a questa suggestione diabolica, rivelando che non solo il discepolo, ma perfino l’uomo non può fare a meno della relazione con Dio. La natura umana è non solo relazionale, ma filiale, esattamente come la sua. Ecco lo scopo della sua missione nel mondo: egli è venuto per rivelarci l’origine filiale della nostra natura umana: “noi siamo figli di Dio” dice Giovanni nella sua prima lettera, sebbene “ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2).

È interessante notare come Giovanni, nella sua prima lettera, riscriva con un linguaggio[1] più teologico, queste metafore presenti già nel suo Vangelo. La formula: “essere nella verità” (1Gv 3,19), infatti, sembra essere l’equivalente di: “rimanete in me e io in voi” (Gv 15,4). Il discepolo rimane nella verità nella misura in cui mette in pratica il comandamento dell’amore reciproco (cf. Gv 15,12-17). La “verità” di cui parla Giovanni non è un concetto astratto, ma la vita che il discepolo ha con Cristo, grazie alla quale egli può partecipare della vita stessa di Dio. In altre parole, la “verità” è un vissuto relazionale, più specificamente: la relazione che Cristo intesse col Padre nello Spirito (cf. Gv 14,16) e condivide con i suoi discepoli. È questa “la verità tutta intera” alla quale lo Spirito condurrà i suoi discepoli (cf. Gv 16,13). Ad essa non si perviene solo sulla base di una speculazione teologica e razionale, ma attraverso la vita nuova in Cristo, ovvero vivendo il comandamento dell’amore reciproco: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14,23)[2]. “Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato” (1Gv 3,24). In altre parole chi pratica il suo amore non solo conosce, ma è già nella verità.

L’amore vissuto tra i discepoli genera una nuova visione di vita, la cui luce consente di vedere e riconoscere la presenza di Gesù, nella sua nuova veste spirituale. È questo il suo nuovo volto, la forma gloriosa con cui, dopo la risurrezione, si rende presente nella comunità dei discepoli. È lo Spirito che dà agli apostoli l’intelligenza per riconoscere la sua rinnovata presenza nella Chiesa. È lo Spirito che guida Barnaba a discernere l’autenticità della chiamata di Paolo e a dare a Paolo il coraggio di predicare Cristo, lì dove precedentemente aveva perseguitato la sua Chiesa (cf. At 9,27). Ed è sempre lo Spirito che fa crescere, camminare e consolidare nella verità la Chiesa tutta (cf. At 9,31). La vita ecclesiale traduce così lo sforzo che i discepoli compiono nel manifestare visibilmente la vita trinitaria nel mondo. Rimanere nella Chiesa significa perciò rimanere in Cristo. Nella sua intenzione Gesù, dunque, vuole che tra i suoi discepoli vi sia lo stesso rapporto che sussiste tra lui e il Padre. Ecco il principio al quale ogni discepolo deve attingere per realizzare la vita evangelica nel mondo. A noi rimanere in Cristo.
[1] Tale linguaggio è frutto certamente di un’evoluzione spirituale, caratterizzata da quella sua tipica riflessione circolare, tesa a condurre il discepolo nel nucleo vitale e incandescente del rapporto con Cristo. Si tratta di una metodologia riflessiva, alquanto diversa dal nostro modo lineare e scientifico di procedere nell’esposizione degli argomenti. È vero che essa si presenta a tratti ripetitiva, come attesta l’uso frequente dello stesso soggetto, anche quando potrebbe essere benissimo sostituito dal pronome, ma ciò è dovuto a quel moto tutto orientale e giovanneo di procedere nell’approfondimento teologico di un vissuto spirituale che si arricchisce progressivamente di nuovi sensi, senza tralasciare quelli originari. Ne scaturisce una stratificazione di significati, non sempre facili da argomentare nella loro unitarietà. Essa è rivelativa di una vita spirituale e teologica intensa, che scaturisce dal desiderio di penetrare sempre più in profondità nel cuore del mistero della fede.
[2] La verità di cui parla Giovanni è caratterizzata da un’intrinseca dimensione relazionale, dovuta al dinamismo ritmico del moto circolare dell’amore.




Commenti