28/06/2020 - 13a Domenica del Tempo Ordinario - Anno A
- don luigi
- 28 giu 2020
- Tempo di lettura: 5 min
2 Re 4, 8-11.14-16; Sal 88/89; Rm 6, 3-4.8-11; Mt 10, 37-42
Chi accoglie voi accoglie me
Il tema di questa tredicesima domenica del Tempo Ordinario è l’ospitalità. Si tratta di un tema che nella Bibbia ha una particolare risonanza e diverse sono le testimonianze che essa ci offre. Basti pensare all’ospitalità di Abramo nei confronti dei tre visitatori (cf. Gen 18, 1-10), oppure a quella del profeta Elia accolto dalla vedova di Zarepta di Sidone (cf. 1 Re 17, 1-16), o ancora a quella di Eliseo, riportataci nella prima lettura (cf. 2 Re 4, 8-11.14-16) o a quella più conosciuta di Marta e Maria che ospitarono Gesù diverse volte nella loro casa a Betania (cf. Lc 10, 38-42). Chi la pratica mette in atto non solo il comandamento dell’amore verso il prossimo (cf. Lv 19, 18; Mt 22, 34-40), ma vive anche secondo giustizia (cf. Gen 10, 18), poiché invita ad aprire gli occhi e il cuore dinanzi all’esigenza di ogni persona.
Quella descritta nella liturgia di oggi assume un significato peculiare, la cui comprensione necessita un riferimento al Discorso apostolico (cf. Mt 10) che Gesù rivolge ai suoi, prima di inviarli a predicare. Si tratta di un discorso nel quale Gesù parla dei suoi “inviati” come di coloro che sono chiamati a continuare la sua opera nel mondo, ai quali non fa promesse idilliache, al contrario sottolinea a più riprese che la loro non sarà una missione facile. Essi saranno considerati alla stessa stregua del maestro: “Il discepolo non è più del maestro” (Mt 10, 10). Pertanto “Se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi” (Gv 15, 20). Tuttavia qualsiasi trattamento essi riceveranno egli lo riterrà come fatto a lui stesso, perciò “chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca ai suoi piccoli, perché suo discepolo, non perderà la sua ricompensa” (Mt 10, 42; cf. 2 Re 4, 14-16). È importante questa considerazione poiché ci fa assistere ad una reale identificazione di Gesù col suo inviato: “Chi accoglie voi accoglie me” (Mt 10, 40). Non si tratta solo di un’empatia morale, come quella che accade nell’amore verso i piccoli, dove Gesù si identifica col prossimo (cf. Mt 25, 40), ma di un’identificazione ministeriale. Gesù chiede che l’apostolo venga riconosciuto come colui che parla e agisce in sua persona. Una dimensione ‘sacramentale’, quindi, la loro. Da qui la sua affermazione: “chi ascolta voi ascolta me” (cf. Lc 10, 16). Accogliere l’Apostolo significa perciò accogliere Cristo. Egli svolge tra gli uomini la stessa opera di Cristo: rivelare il piano salvifico di Dio nel mondo. Nell’apostolo è Cristo stesso che parla, chi lo ascolta accoglie la Parola di Cristo, così come Cristo ha accolto ed osservato quella del Padre: “Chi accoglie me accoglie colui che mi ha inviato” (Mt 10, 40). Nell’apostolo Gesù rivela non solo l’identità della sua persona, ma anche quella del suo ministero. L’Apostolo è chiamato a svolgere la sua missione allo stesso modo di Cristo: parlare ed operare, amare e insegnare (cf. Lc 24, 19). Non basta solo praticare l’amore come una forma di altruismo, filantropia o volontariato, ma predicare l’amore evangelico di Cristo come la condizione per giungere alla salvezza. Praticandolo non solo ci si dona, ma ci si salva. L’insegnamento esplicita e porta a compimento il senso dell’amore. Al contempo l’amore autentica e rende autorevole l’insegnamento. Attraverso l’amore e l’insegnamento gli apostoli sono chiamati a dare ragione dell’amore salvifico di Cristo nel mondo. Ecco lo specifico della loro opera missionaria.
Una simile identificazione personale e ministeriale necessita tuttavia di essere vagliata da una triplice condizione, atta a verificare l’amore esclusivo per Cristo. Essa consiste nel porre l’amore di lui al di sopra degli affetti umani, come quello verso il padre, la madre o i figli (cf. Mt 10, 37); anche quello verso se stesso, rinunciando a qualsiasi progetto personale che non sia conforme alla sua volontà (cf. v. 39); e infine nel condividere con Cristo la logica della croce (cf. v. 38). Senza queste tre condizioni l’apostolo non è degno di Cristo (cf. vv. 37.38). Gesù chiede ai suoi lo stesso distacco, la stessa totalità e radicalità nell’amore praticato da lui. Apostolo non è solo chi condivide occasionalmente un’esperienza evangelica, ma colui che ha deciso nel proprio cuore di sposare la causa evangelica di Gesù per tutta la vita. Egli non ha altra ragione per vivere se non Cristo: pensare, parlare ed amare come lui. Si tratta di vivere la sequela di Cristo aderendo come lui, fino in fondo, alla volontà del Padre, con la stessa radicalità e urgenza che lui ha per il Regno di Dio. Questo ha una logica relazionale ben diversa rispetto a quella praticata dalle persone nella vita sociale. Nel Regno ogni relazione è in vista di Dio, ovvero del dono di sé all’altro.
Al termine di questo Discorso apostolico, sul quale ci siamo soffermati per due domeniche, non possiamo non lasciare emergere alcune tacite considerazioni che sicuramente sono andate delineandosi in noi, in questo periodo. Vi invito ad esternarle nella speranza che esse possano aiutarci a sviluppare una coscienza critica ed avere un sano ed equilibrato confronto col Vangelo. Dalla testo emerge l’immagine di un Gesù particolarmente esigente nei confronti dei suoi apostoli e di quanti come loro, decidono di porsi alla sua sequela. La sua esigenza e la sua radicalità non possono non scuotere il nostro perbenismo religioso. Da qui alcune domande che potremmo formulare in questi termini, chiedendo la grazia di lasciarci interpellare: è possibile vivere il vangelo nell’oggi del nostro contesto sociale, secondo le stesse esigenze di Gesù? Saremmo disposti ad annunciare il Vangelo praticando le stesse condizioni richieste da Gesù? Ci fidiamo più delle nostre competenze pastorali, culturali e sociali o della Parola di Cristo che chiede di fidarci totalmente della provvidenza del Padre? E’ possibile conservare la stessa semplicità evangelica in una società complessa, articolata ed esposta ai compromessi come la nostra? La sua esigenza, la sua radicalità, la sua totalità, la sua esclusività non necessita forse di un’interpretazione o mediazione culturale? E’ chiaro che ogni attualizzazione evangelica ne esige una, ma quella che spesso operiamo tende a trasfonderlo nella nostra cultura o a svuotarlo della sua potenza carismatica e trasfigurativa o peggio ancora a snaturarlo?
Si tratta senza dubbio di domande impegnative, ma esse ci invitano prima di tutto ad una onestà spirituale ed intellettuale, prima di dire ciò che è possibile e ciò che non lo è per noi. Ad esse non siamo tenuti a dare una risposta immediata, ma quanto meno a ricreare in noi quella stessa passione e ardore per il Regno che sprizzava dall’animo di Gesù.
Accogliere significa riconoscere l’identità dell’ospite: sia esso profeta, giusto, discepolo (cf. Mt 10, 41s). “Alcuni praticandola hanno accolto degli angeli senza saperlo” (Eb 13, 2). E Gesù promette che essa non rimarrà senza ricompensa (v. 42). L’ospitalità generosamente offerta crea le condizioni per essere ricambiata col dono desiderato: “Che cosa si può fare per lei?”, chiede il profeta Eliseo al suo servo ed egli disse: “Purtroppo lei non ha un figlio”. “Chiamala”, disse Eliseo, ed ella fermandosi alla porta si sentì dire: “L’anno prossimo in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le braccia”




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