26 Maggio 2024 - Anno B - Santissima Trinità
- don luigi
- 25 mag 2024
- Tempo di lettura: 9 min
Dt 4,32-34.39-40; Sal 32/33; Rm 4,14-17; Mt 28,16-20
L’amore trinitario:
essenza della vita ecclesiale

“Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,18-20).
Forse nessun passo evangelico ci attesta la coscienza che Gesù aveva della sua vita trinitaria come questo matteano, in cui dichiara esplicitamente di “battezzare tutti i popoli, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Marco e Luca, per esempio, pur riportandoci il mandato missionario e il dono che Gesù fa dello Spirito, in occasione dell’Ascensione, non parlano affatto di “battesimo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” (cf. Mc 16,15-16.20; Lc 24,47-49). Neppure Giovanni che nel Discorso di Addio, dimostra di avere una notevole conoscenza della relazione d’amore che sussiste tra Gesù e il Padre (cf. (Gv 14,25), da essere con lui “una sola cosa” (Gv 10,30), accenna a questo mistero (cf. Gv 20,22-23). Matteo allora sembra essere l’unico ad aver colto ed esplicitato questa straordinaria vita divina che Gesù chiede ai suoi discepoli di ‘iniettare’ nel mondo attraverso il battesimo e la predicazione[1].
L’idea liturgica, poi, di collocare questa solennità subito dopo la Pentecoste, ci fa capire che noi possiamo accedere a questo mistero, nella misura in cui riceviamo lo Spirito Santo ed esercitiamo la nostra intelligenza in sinergia con la sua. Nessuno, infatti, come lo Spirito è in grado di scrutare le profondità della vita di Dio (cf. 1Cor 2,10-16)[2]. Egli è colui che apre la mente degli apostoli “all’intelligenza delle Scritture” (cf. Lc 24.25). Pertanto “quelle cose che occhio non vide né orecchio udì, né mai entrarono nel cuore di uomo, Dio le ha … rivelate a noi per mezzo del suo Spirito” ovvero a “coloro che lo amano” (1Cor 2,9.10). L’amore, nel quale ci introduce lo Spirito, costituisce allora la condizione fondamentale per partecipare della vita trinitaria di Gesù e renderla accessibile alla nostra intelligenza. Egli, infatti, rivela questa verità a chi lo ama: “Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui… Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (cf. Gv 14,21.23). Cos’è la vita trinitaria se non questa dimora del Padre col Figlio in noi e di noi in loro per mezzo dello Spirito? Amare Cristo significa interagire con lui in un clima di amicizia, come quella di cui parla lui stesso nella parabola della Vite e i tralci, dove, rivolgendosi ai suoi discepoli dice: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone, ma vi chiamo amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15). È bello poter immaginare che tra le cose che Gesù intende far conoscere ai suoi amici ci sia la verità della sua vita trinitaria, dalla quale proviene (cf. Gv 1,1-4). Nulla come questa realtà sembra esplicitare il contenuto della “verità tutta intera” (Gv 16,13) di cui parla Gesù e verso la quale chiede allo Spirito di guidare i suoi discepoli. Si tratta dunque di una verità conoscibile non tanto da coloro che sono dotati di una capacità intellettiva, speculativa e razionale, ma da quelli che, come Pietro a Cesarea di Filippo, si dispongono a ricevere la rivelazione del Padre: “Beato te, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17). Pietro sembra essere tra i principali destinatari di quella verità che Gesù riferisce nell’Inno di giubilo (cf. Mt 11,25-27): “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” (Mt 11,27)[3]. E tuttavia il Figlio rivela questa verità a condizione che gli amici ricevano lo Spirito, senza il quale essi non potrebbero sopportare il peso della sua conoscenza: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete ancora capaci di portarne il peso” (Gv 16,12).
È facendo memoria di questo dono divino (cf. Gv 14,26) che i discepoli cominciano a penetrare gradualmente il mistero della vita trinitaria. Fuori di questa relazione amicale la conoscenza della vita trinitaria di Gesù appare incomprensibile, assurda da risultare ininfluente nella vita relazionale e letteraria perfino ai cristiani, come faceva notare già a suo tempo il teologo tedesco K. Rahner[4]. Noi, invece, senza escludere una necessaria indagine teologica[5], siamo chiamati a capire quali conseguenze essa comporta per la nostra vita di fede e per le nostre relazioni umane, per una migliore qualità della vita ecclesiale. Diversamente, se dovessimo accostarci ad essa solo in modo razionale rischieremmo di cadere nella presunzione di sant’Agostino, come espone lui stesso nella nota metafora del bambino sulla spiaggia[6].
Ma in che modo possiamo tradurre in un vissuto relazionale l’amore che si sprigiona dalla vita trinitaria? La risposta a questa domanda ci permette di scoprire la ragione del mandato battesimale di Gesù ai discepoli. Il battesimo, che lui chiede agli apostoli di praticare per tutti i popoli (cf. Mt 28,19), non si riduce ad un semplice rito religioso, ma diventa un’introduzione nella vita trinitaria, nella dinamica della comunione d’amore, a partire dalla quale è possibile impregnare tutti gli ambiti della vita del mondo. È entrando in questa dinamica relazionale che lo Spirito predispone la nostra intelligenza alla conoscenza della paternità di Dio, come afferma Gesù nell’Inno di Giubilo (cf. Mt 11,25-27).

Ma proviamo ora a capire a quale tipo di vita ci apre il battesimo e di quale eredità ci rende partecipi? San Paolo nel brano della lettera ai Romani ci dice che: “tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio. E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: Abbà, Padre. Lo Spirito stesso insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria” (Rm 8,14-17). In altre parole senza lo Spirito nessuno può rivolgersi a Dio e chiamarlo Padre. È lui che ci informa sulla paternità di Dio e ci abitua a relazionarci a lui in termini filiali. Egli ci rende partecipi della stessa eredità filiale di Gesù. Attraverso lo Spirito Gesù sembra così dischiude quel tesoro di sapienza, al quale fa riferimento Paolo nella sua lettera agli Efesini: “Il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una più profonda conoscenza di lui. Possa egli davvero illuminare gli occhi della vostra mente e farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso noi credenti” (Ef 2,17-19).
La filialità di cui parla Paolo non viene acquisita in virtù della prassi religiosa, ma principalmente grazie alla relazione di fede con Cristo. Noi siamo figli di Dio, non già perché lui ci ha creati, come si ritiene comunemente, ma solo se riconosciamo e crediamo Gesù come Figlio di Dio, e siamo disposti a vivere le nostre relazioni interpersonali secondo il comandamento dell’amore reciproco (cf. Gv 15,4-17). È partecipando di questa sua relazione filiale che anche noi diveniamo figli nel Figlio. Un mistero questo che come ribadisce ancora san Paolo nella lettera ai Corinti: rimane nascosto ai sapienti di questo mondo, ma che Dio svela, per mezzo del suo Spirito, ai cuori di coloro che lo amano, a noi dunque che abbiamo ricevuto lo Spirito di Dio per conoscere tutto ciò che Dio ci ha donato (cf. 1Cor 2,7-12). La vita battesimale costituisce pertanto la via per accedere alla conoscenza trinitaria di Dio.
La relazione filiale di Cristo e quella paterna di Dio, vissute nella comunione dello Spirito, vengono espresse da Paolo in quella mirabile formula con cui lui apre i suoi saluti epistolari e noi le nostre celebrazioni eucaristiche: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi” (2Cor 13,13).
Qual è dunque lo scopo di questa rivelazione divina, se non quello che troviamo espresso già nel brano veterotestamentario del Deuteronomio: “perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te” (Dt 4,40). Nella sua intenzione Dio intende renderci partecipe della sua gioia. Come non cogliere in questa intenzione di Dio anche quella di Cristo: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11). Gesù ci rivela la verità della sua vita divina per renderci partecipe della pienezza della sua gioia. Auguro, perciò, a ciascuno di voi di acquisire quella semplicità di cuore che costituisce per Gesù la condizione fondamentale, per essere i destinatari della sua rivelazione, come lui stesso afferma in questo inno di lode: “Ti rendo lode, Padre del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai semplici” (Mt 11,25). È qui il segreto per diventare amico di Cristo e partecipare della pienezza della sua gioia (cf. Gv 15,11).
[1] Per una meditazione più estesa vi propongo di considerare anche quegli episodi evangelici più significativi di questa verità di fede, come il Battesimo (cf. Mc 1,9-11 e //) e la Trasfigurazione (cf. Mt 17,1-8 e //), dove, sia pure implicitamente, si fa riferimento alla realtà trinitaria e, quindi al mandato battesimale di Cristo (cf. Mt 16, 19), nel quale il riferimento trinitario appare più chiaro.
[2] Vi propongo di leggere l’intero capito 2 della prima lettera ai Corinti, poiché in esso Paolo ci fa capire con quale spirito approcciarci a un simile mistero divino. Potreste associare a questo passo anche quello della lettera agli Efesini 1,17
[3] Questo passo diventa così quello che ci offre la chiave per accedere al mistero della Trinità.
[4] “Se si dovesse sopprimere, come falsa, la dottrina della Trinità … la letteratura religiosa potrebbe rimanere quasi inalterata” K. Rahner, La Trinità, Queriniana, Brescia 2008, 23. In effetti questo risultato è anche la conseguenza di un approccio piuttosto razionale al mistero della Trinità, riscontrabile a livello teologico, dove ha giocato un ruolo alquanto negativo la definizione dogmatica. Dogma deriva dal termine greco dogma-atos che letteralmente significa “decreto, decisione”. Si tratta di un termine che viene utilizzato per indicare un principio fondamentale o una verità universale, proveniente da un’esperienza religiosa o da una convinzione filosofica, posta alla base della loro dottrina, ritenuta e creduta vera, non soggetta a dubbi e a discussioni da parte dei fedeli. Spesso, nell’opinione comune, tale termine viene considerato come l’enunciato di una verità che va accettata ciecamente, senza l’ammissione di alcuna forma di argomentazione o tentativo di conoscenza speculativa. Al contrario nella storia della teologia si assiste ad un suo sviluppo cognitivo, pur senza dubitare della sua vericità. Il suo contenuto perciò viene compreso a secondo della maturità intellettiva e della partecipazione alla vita divina di Dio, in Cristo.
[5] Per indagine teologica intendiamo quella ricerca che nella Chiesa viene svolta in modo particolare dai teologi, il cui compito è quello di dare ragione della verità di fede a quanti cercano di comprendere il mistero anche sotto l’aspetto razionale. È chiaro che per chi si accingesse a voler trovare, nei testi sacri, la formula trinitaria di Dio, rimarrebbe profondamente deluso, perché essa è del tutto assente, tanto meno Gesù ha mai usato esplicitamente questa formula nelle sue dichiarazioni. Da dove deriva allora questa formula dogmatica? Per rispondere a questa domanda è necessario cogliere lo sviluppo della riflessione teologica condotta dai Padri sotto la guida dello Spirito, che ha portato a qualificare il mistero di Dio in termini trinitari. Sotto l’aspetto cronologico il primo a coniare il termine latino “Trinità” è stato Tertulliano (155 circa – 230 circa), nel suo De pudicitia, anche se prima di lui Teofilo di Antiochia (+ 183/185) utilizzò un termine greco analogo “trias” nel suo Apologia ad Autolycum. La dottrina trinitaria venne poi meglio precisata prima nel Concilio di Nicea (325) e poi in quello Costantinopolitano (381). Quella verità, dunque, che a livello neotestamentario è presente solo a mo’ di intuizione spirituale comincia ad essere sviscerata ed esplicitata grazie alla speculazione teologica dei Padri che l’hanno formulata anche sotto l’aspetto dogmatico. Si capisce allora come la comprensione di una simile verità di fede richieda un’intelligenza spirituale più sviluppata, che gli apostoli, evidentemente, non erano ancora in grado di avere (cf. Gv 16,12), tanto innovativa era per essi la verità rivelata da Gesù.
[6]“Un giorno sant’Agostino in riva al mare meditava sul mistero della Trinità, volendolo comprendere con la forza della ragione. Vide allora un bambino che con una conchiglia versava l’acqua del mare in una buca. Incuriosito dall’operazione ripetuta più volte, Agostino interrogò il bambino chiedendogli: “Che fai?”. La risposta del fanciullo lo sorprese: “Voglio travasare l’acqua del mare in questa mia buca”. Sorridendo sant’Agostino spiegò pazientemente l’impossibilità dell’intento ma, il bambino fattosi serio, replicò: “Anche a te è impossibile scandagliare con la piccolezza della tua mente l’immensità del mistero trinitario”. E detto questo sparì.




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