top of page

26/04/2020 - 3a Domenica di Pasqua - Anno A


At 2, 14.22-33; Sal 15/16; 1Pt 1, 17-21; Lc 24, 13-35

Cari amici ed amiche, domenica scorsa nel commentare questo brano evangelico di Luca 24, 13-35, ci siamo soffermati in modo particolare su quei versetti che ritraggono Gesù nell’atto di spiegare le Scritture ai due discepoli. Quest’oggi riprendiamo lo stesso tema, nel tentativo di svilupparlo ulteriormente. Lo scopo è quello di individuare quei criteri e condizioni che possono aiutare anche noi tutte le volte che avvertiamo la necessità di spiegare il senso della nostra fede, per capirlo e comunicarlo agli altri. E ciò può accadere in diversi ambiti o circostanze della nostra vita, come per esempio quando ci ritroviamo dinanzi ad un brano biblico, che si presenta piuttosto impegnativo sotto il profilo esegetico; oppure quando facciamo un’esperienza spirituale particolarmente intensa, della quale però non riusciamo ad esplicitare e condividere il contenuto; o ancora quando viviamo un evento che ci fa particolarmente soffrire e che senza un’adeguata spiegazione, rischia di chiuderci nel guscio del nostro io. In questi casi, ed altri ancora, l’atto di spiegare si rivela determinante per lo sviluppo della nostra personalità spirituale. Per questa ragione esso necessita da parte nostra un’attenzione particolare che noi vorremmo approfondire commentando questo episodio evangelico.

Dal brano si evince che questa operazione viene compiuta personalmente da Gesù, il quale, appena risorto, ha come la responsabilità di riprendere quel cammino di fede che aveva iniziato quando era ancora fisicamente con i discepoli, per portarlo a compimento. Ciò lascia intendere che la loro fede fosse ancora incompleta. E ci stupisce il fatto che essi pur avendo assistito a tanti eventi e ascoltato tanti discorsi direttamente da Gesù, si rivelano ancora incapaci di annunciare il suo vangelo. Come è possibile ciò? Cosa mancava loro dal renderli testimoni della vicenda di Gesù? La risposta a questa domanda la possiamo cogliere solo meditando attentamente i racconti delle apparizioni, che la Chiesa ci sta proponendo in questi giorni (Perciò colgo l’occasione per invitarvi a leggere e rileggere con calma tali racconti, in tutti e quattro Vangeli). La apparizioni, secondo alcuni evangelisti, durano per ben quaranta giorni e dilazionano nel tempo alcuni episodi fondamentali della nostra fede, come l’Ascensione al Cielo e la Pentecoste. Eventi che secondo altri evangelisti, come Giovanni, sembra siano avvenuti tutti nello stesso giorno della Risurrezione, come attestano i brani dell’apparizione alla Maddalena e agli undici nel Cenacolo (cf. Gv 20, 17.22). È chiaro l’intendo didattico di queste apparizioni, sottolineato anche dal numero quaranta, che biblicamente sta a simboleggiare un ciclo formativo completo di fatti, avvenimenti, esperienze, conoscenze entro il quale si giunge alla maturazione della fede. Lungo questo periodo infatti Gesù appare ripetutamente ai discepoli e i suoi interventi sono tutti caratterizzati da alcuni gesti significativi, come: spiegare, mostrare loro i segni della passione, comunicare la pace, camminare, spezzare con loro il pane, mangiare. Insomma si vede un Gesù tutto impegnato a ricapitolare l’esperienza di fede dei suoi discepoli, come a verificarne la conoscenza e la coscienza. In effetti si tratta di un comportamento che egli aveva sempre avuto. Solo che ora lo assume da Risorto. In una forma di vita tutta nuova. Cosa significa questo ulteriore insegnamento e soprattutto perché nella forma di risorto. A cosa Gesù li stava abituando? Essi erano chiamati a compiere un difficile e delicato passaggio della fede: dal vedere fisico al vedere spirituale. Si tratta di uno sguardo a cui i Vangeli accennano già durante l’esperienza della vita terrena di Gesù, come l’episodio di Pietro, quando a Cesarea di Filippo intuisce per la prima volta, nella persona di Gesù, la presenza del Cristo (cf. Mc 16, 15-20). L’atto del vedere è fondamentale, come quello dell’ascoltare. Sarebbe interessante evidenziare il significato che questo atto assume nel Vangelo Giovanni, ed osservare come egli intrecci, ripetutamente, in un unico sguardo di fede: il vedere fisico, intellettuale, spirituale, mistico. Si tratta di una serie di registri si intersecano tra di loro in dissolvenza, lasciandoci intuire la necessità della loro complementarietà. Con questo nuovo sguardo, al quale Cristo li stava abituando, essi dovevano imparare a vederlo nella sua forma gloriosa. Non che Cristo fosse un’altra persona rispetto a Gesù. Tutt’altro. Solo che ora egli si mostrava loro in un’altra forma, non più fisica, ma spirituale, quella appunto del Risorto. Forma alla quale non erano affatto abituati, perché era del tutto fuori da ogni parametro esperienziale. Per loro, come anche per noi, era un fatto sconvolgente che Gesù passasse attraverso le porte chiuse e al tempo stesso mangiasse con loro. In altre parole essi dovevano imparare a cogliere questa nuova forma di presenza spirituale di Gesù, questo suo nuovo modo di essere in mezzo a loro. Per farlo essi avevano bisogno di acquisire alcuni dati: in primo luogo la continuità della vita di Gesù, da quella biologica a quella spirituale. Il rischio a cui andavano incontro era quello di scambiarlo per un fantasma, come attesta lo stesso Luca nel brano seguente al nostro (cf. Lc 24, 37). Gli unici segni che avrebbero consentito loro di cogliere questa continuità erano le piaghe. Da qui il gesto che Gesù compie immediatamente da risorto davanti agli apostoli: “Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco” (Gv 20, 20), un gesto che egli ripete anche a seguito della richiesta che ne fa Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani, stendi la tua mano, e mettila nel mio costato” (Gv 20, 27). Un segno dunque che contribuisce molto a portarli alla fede.

Ma c’è un ulteriore sforzo che questi discepoli sono chiamati a compiere per passare dal vedere fisico al vedere spirituale. Tale sforzo è quello che possiamo formulare in termini di intelligenza spirituale. Si tratta senza dubbio di un dono dello Spirito, ma di un dono che va chiesto, sviluppato e coltivato attraverso la lettura, la meditazione e la spiegazione delle Scritture. Ed è proprio l’atto che compie Gesù con i due discepoli. In realtà Gesù ha sempre svolto questo tipo di attività, durante tutta la vita, come nel caso della spiegazione delle parabole (cf. Mc 4, 33-34). Ma ci stupisce però che anche ora da risorto egli debba continuare a spiegare. In effetti essi ne avevano ancora bisogno, come si evince dal v. 16: “Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo”. Può sorprenderci questo fatto: come può accadere che Gesù in persona rimanga sconosciuto ai loro occhi? In cosa era profondamente cambiato? Un fatto questo che ci interpella. Riflettendo prendiamo atto che queste domande ci portano direttamente al cuore della fede. E anche noi, nella misura in cui ci sforziamo di darne una risposta, possiamo partecipare della stessa esperienza di fede di questi due discepoli. Infatti notiamo che anche nella nostra vita ecclesiale la presenza del Cristo risorto rimane invisibile e incomprensibile. È vero che lui ci ha detto: “Io sono con voi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20), ma ci sono diverse circostanze, come per esempio quella che stiamo vivendo attualmente, dove questa sua presenza non solo non ci è evidente, ma viene messa perfino in discussione. Non poche volte, infatti, accade che pur chiedendo il suo aiuto, ci ritroviamo a dover risolvere da soli i nostri problemi, ad appellarci alla nostra responsabilità, capacità, intelligenza, creatività, organizzazione. Insomma, sembra che ogni soluzione dipenda soltanto da noi. Se tutto dipende da noi in che modo Gesù ci garantisce il suo aiuto? Come lui si rende realmente presente ed operante nella nostra vita personale ed ecclesiale?

Per rispondere a queste domande, alquanto impegnative, ma fondamentali, vi propongo alcuni passi evangelici, nella speranza di aiutarvi a risolvere interrogativi che non poche volte rischiano di bloccare il nostro cammino di fede. Il primo è quello di Giovanni, di domenica scorsa, dove viene ripetuto per ben due volte la seguente formula: “Gesù, venne, stette in mezzo a loro e disse” (Gv 20, 19.26); il secondo è quello di Matteo, nel quale Gesù fa la seguente affermazione: “Dove due o più sono riuniti nel mio nome, lì sono presente in mezzo a loro” (Mt 18, 20). Quella di Gesù Risorto è dunque una forma di vita spirituale che si rende evidente e comprensibile nella vita ecclesiale, dove cioè le persone interagiscono tra loro per mezzo del comandamento dell’amore: “Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi” (Gv 15, 12); “Da questo sapranno che siete miei discepoli, se vi amerete gli uni gli altri” (Gv 13, 35). Ecco allora il primo luogo e la principale condizione che genera la presenza di Cristo in mezzo a noi: la vita ecclesiale, determinata dall’amore vicendevole. Fuori da questa relazione d’amore la sua presenza non solo ci è invisibile, ma perfino incomprensibile ed assurda. Da cosa deduciamo che stiamo realmente amando secondo il suo comandamento? Dalla luce che proviene dal nostro donarci all’altro. Questa non è automatica, ma scaturisce dalla gratuità e dalla libertà del nostro amore. Più siamo liberi da noi stessi, dal nostro io, più la sua presenza diviene comprensibile alla nostra intelligenza. Così, mentre l’amore illumina la nostra intelligenza, questa ci consente di vedere, cogliere, comprendere, capire, intendere la presenza di Gesù dentro di noi e nella vita ecclesiale. Il modo con cui Gesù compie dentro e in mezzo a noi l’atto di intelligere (da intus e lègere = leggere dentro) è spirituale, ovvero compiuto dallo Spirito Santo. Egli infatti non vive più nella forma di uomo terreno, ma nella forma dello Spirito.

Lo Spirito a sua volta svela, spiega, porta a conoscenza solo ciò che Gesù ha detto e fatto. Egli non rivela altro che non sia la verità di Cristo, esattamente come afferma Gesù: “Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future” (Gv 16, 13). Pertanto quando Gesù da Risorto spiega loro le Scritture diventa un modo attraverso il quale egli sembra volere suggerire l’attività che lo Spirito Santo, dovrà compiere da quel momento in poi in loro e nella Chiesa. È sempre lo stesso Gesù che continua a spiegare, ma ora lo fa nella forma dello Spirito, abituando la loro intelligenza alla comprensione di tutta la sua vicenda storica. Spiegare, ovvero portare alla luce il significato nascosto di un fatto, non costituisce solo un’operazione cerebrale, circoscritta nell’ambito della nostra mente, della nostra ragione, ma è un vero e proprio dono gratuito dello Spirito dentro di noi; un evento dell’intelligenza che ci fa partecipi dello stesso dinamismo dell’amore trinitario. Per questa ragione biblicamente parlando capire è conoscere, conoscere è vivere e vivere è partecipare della vita di Dio.

C’è tuttavia ancora un ulteriore passaggio a cui l’episodio ci invita: la frazione del pane; come a voler dire che la nostra intelligenza spirituale non si esaurisce solo nella comprensione intellettuale, ma si completa e raggiunge la sua pienezza nella comunione eucaristica. È solo a questo punto che come annota Luca: “Si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero”. Il gesto dello “Spezzare il pane” diventa una chiave interpretativa che permette loro di ricapitolare l’intera vicenda storica e gloriosa di Gesù e comprenderne il significato pieno. Spezzare il pane non è solo un gesto rituale e liturgico, ma costituisce il luogo in cui la loro intelligenza accade. Ciò significa che noi diventiamo pienamente partecipi del mistero eucaristico nella misura in cui anche noi riusciamo a spezzare, ovvero a far dono della nostra vita agli altri, come ha fatto Gesù. E’ qui che raggiungiamo l’unità tra il vissuto evangelico e l’intelligenza della fede.

È evidente che una simile conclusione, in questo momento in cui siamo costretti per forza maggiore a privarci dell’eucaristia, può accrescere in noi la sofferenza spirituale, ma è anche vero che il modo con cui lo Spirito ci nutre della Parola di Cristo, costituisce un alimento altrettanto nutriente quanto l’eucaristia. E sono certo che questa forzata privazione eucaristica se da una parte può diventare per alcuni una forma di purificazione dalle abitudini minimizzanti, dall’altra può aiutarci a prendere ulteriormente coscienza del desiderio che essa suscita dentro di noi. E come dice sant’Agostino Dio ci fa tanto più attendere la ricezione di un dono, quanto più grande è il dono che intende farci. E quale più grande dono della comunione di vita con lui. Vera dimora nella quale siamo chiamati a permanere durante tutta la nostra esistenza.

Luigi Razzano

 
 
 

1 commento


rosa.altavilla43
26 apr 2020

Come sempre le tue omelie riscaldano il cuore e illuminano la mente

Mi piace

© Copyright – Luigi RAZZANO– All rights reserved – tutti i diritti riservati”

  • Facebook
  • Black Icon Instagram
  • Black Icon YouTube
  • logo telegram
bottom of page