top of page

24 Novembre 2024 - Anno B - Cristo Re dell’universo


Dn 7,13-14; Sal 92/93; Ap 1,5-8; Gv 18,33b-37






La regalità evangelica di Cristo


ree
Luigi Razzano, Ecce Homo (2022), Oasi pp. cappuccini di Arienzo (Ce).

“In quel tempo, Pilato disse a Gesù: Sei tu il re dei Giudei? … Rispose Gesù: Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù. Allora Pilato gli disse: Dunque tu sei re? Rispose Gesù: Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce (Gv 18,33.36-37).

La Chiesa ci fa celebrare oggi la solennità di Cristo Re dell’Universo. La sua collocazione alla fine dell’anno liturgico ci dà l’idea della particolare visione teologica della storia, intesa come ricapitolazione in Cristo di tutta la realtà umana e cosmica. Secondo tale visione, infatti, ogni cosa è stata creata in vista di Cristo e trova in lui il suo principio, senso, fine e compimento (cf. Gv 1,3.10; Eb 1,2; Col 1,16; 1Cor 8,6).

Tuttavia, in un contesto di rinnovata sensibilità ecclesiale, improntata all’insegna della sinodalità e della comunione relazionale, la celebrazione di questa solennità, appare decisamente fuori luogo. Non da meno è la sensazione che emerge anche dall’ambito socio-politico europeo dove, al di là dei limiti e nonostante alcuni segnali di contraddizione[1], sembra prevalere lo spirito democratico. In effetti non sono poche le obiezioni che vengono mosse a questo riguardo. Basterebbe passare in rassegna tutta quella produzione artistica in cui

Jan e Hubert Van Eyck, Polittico dell’agnello mistico (1426-1432), Cattedrale di Saint-Bavon a Gand - (Belgio)


Cristo viene raffigurato nelle vesti di un monarca assoluto[2], a darci l’idea di quanto questa visione sia chiaramente lontana da quella evangelica di Gesù, dove appare caratterizzato da uno stile di vita tutt’altro che regale.  Viene perciò da chiedersi: cosa giustifica questo appellativo di Cristo? E soprattutto come va inteso, visto che nel brano evangelico di oggi, alla domanda di Pilato: “Dunque tu sei re?”, Gesù risponde affermativamente: “Tu lo dici: io sono re”?

Per rispondere a queste domande è opportuno ripercorrere, sia pure brevemente, la storia del regno d’Israele, per renderci conto di quanto questo “ideale politico” abbia suggestionato non poco gli ebrei, nel momento in cui decisero di istituirsi come nazione, con un governo monarchico. È qui che affondano le radici dell’annuncio profetico del regno di Dio. I libri storici come quelli dei Re, delle Cronache, di Esdra, di Ester, di Giosuè e in particolare quelli di Samuele e quello dei Giudici, non fanno mistero a dimostrare come esso, malgrado alcune resistenze, si sia prima insinuato e poi imposto sulla mentalità politica ebraica, dando forma a quello che veniva salutato, con non poca fierezza, col titolo di “regno d’Israele”, che vede nel re Davide, la massima espressione regale, tanto da suscitare non poche nostalgiche riaffermazioni nel corso della storia successiva, specie quelle volte in cui Israele avvertiva la propria identità politica minacciata in campo internazionale. Gli attuali conflitti bellici tra Israele e Palestina sono soltanto gli echi di questa secolare ostilità. Ad ogni modo questi reiterati revivals attestano la difficoltà a rinunciare a quella interpretazione socio-politica del regno di Dio a favore della dimensione spirituale. Da qui la sua ostinata identificazione col regno di Israele. Lo stesso Gesù ha faticato non poco durante la sua predicazione ad affermare questa tensione spirituale rispetto a quella politica, molto diffusa anche al suo tempo. Ciò nonostante, al momento dell’Ascensione al Cielo, i discepoli intendono il regno di Dio ancora in chiave politica, come attesta la domanda che pongono a Gesù: “È questo il tempo in cui ricostituirai il regno d’Israele?” (At 1,6)[3].

In realtà la nozione di “regno” è centrale nella predicazione di Gesù, tanto da inserirla perfino nella preghiera del “Padre nostro”, dove insegna ai suoi a invocare la sua venuta nel mondo: “venga il tuo regno” (Mt 6,10). L’intera esistenza di Gesù è inscindibilmente legata alla realtà del regno di Dio: tutto quello che egli pensa, dice e fa è in vista della sua realizzazione nel mondo. In questo senso la vita evangelica è nient’altro che la sua incarnazione nel vissuto quotidiano. Anche in diverse parabole Gesù si ispira alla vita regale (cf. Mt 22,1-14), ma è chiaro che queste analogie hanno una funzione didattica, il cui scopo è quello di stimolare l’intelligenza a cogliere il senso spirituale che è oltre la metafora.

Il pericolo di un’interpretazione politica era sempre in agguato, e questo riguardava anche la figura messianica di Gesù. Ciò spiega il motivo del suo rifiuto, quando i discepoli decisero di “farlo re”, come nel caso della moltiplicazione dei pani[4]. Tuttavia non mancano gli episodi in cui Gesù non solo non rinnega questo titolo, ma lo afferma chiaramente. Il Vangelo di oggi, per esempio, è uno di questi, dove però Gesù si guarda bene dall’attribuirgli un significato politico. Davanti a Pilato, infatti, egli afferma sì di essere re, ma di un regno che “non è di questo mondo” (Gv 18,36). Il che ci pone direttamente dinanzi a una difficoltà: cosa significa che “non è di questo mondo”? Non è forse nel mondo che egli opera a favore del regno di Dio? In realtà “Gesù sin dall’inizio della sua vita pubblica rifiuta categoricamente di fondare un regno terreno” (De La Potterie), come attesta di fare durante la tentazione nel deserto, dove stando alla versione lucana, “Il diavolo lo condusse in alto e, mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse: Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la darò a chi voglio. Se ti prostri dinanzi a me, tutto sarà tuo” (Lc 4,5-7). Ad ogni modo l’impossibilità a ridurre il regno di Dio a quello terreno “non significa che Cristo sia re di un altro mondo, ma che è re in un altro modo”, come fa notare la felice espressione di p. S. Tognetti[5]. Il che significa che egli pur istituendo il regno di Dio nel mondo, adotta una logica che è del tutto diversa rispetto a quella dei regni terreni[6].

Nel breve dialogo che intesse con Pilato, durante il suo processo, Gesù ci dà modo di comprendere meglio lo scopo della sua regalità: “Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità” (Gv 18,37). La regalità di Gesù è volta allora alla manifestazione e alla conoscenza della verità. La verità alla quale egli si riferisce non è quella che si limita a soddisfare le esigenze intellettive, ma quella salvifica del Padre, della quale l’apostolo Giovanni ci parla più estesamente nel capitolo 8 del suo Vangelo, dove tra le altre cose, ci riporta la seguente affermazione di Gesù: “se rimanete fedeli alla mia parola … conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,31). Si tratta di una verità esistenziale, quella che ci fa prendere coscienza della nostra reale identità filiale, ovvero di creature generate dal Padre, la cui paternità viene però molto spesso minacciata dalla nostra pretesa di indipendenza da lui. Se c’è dunque un potere del quale Gesù si fa interprete e testimone, questo non è certamente quello politico, religioso o culturale, ma quello di chi è realmente in grado di dare la salvezza, in virtù della sua origine divina. Letteralmente, infatti, potere significa: forza, facoltà, capacità di conferire ciò di cui si dispone. Gesù intanto elargisce la salvezza in quanto gli viene conferita direttamente dal Padre. Egli non dispone di altro potere se non quello di rivelare l’origine divina dell’uomo e di dargli la salvezza. In altre parole, la verità che egli ci comunica in tutta la sua evidenza (cf. Ap 1,7), è quella che ci fa prendere atto che Gesù è realmente il “Signore Onnipotente” (Ap 1,8), o più specificamente il Re-dentore del mondo, nel senso originario del termine, di “Re che detiene il potere di salvare”. Nessun altro uomo dispone di questo potere: né re, né imperatori, né intellettuali e neppure fondatori di religione, ma solo Cristo. Questa è la straordinaria intuizione che Pietro ebbe durante il discorso davanti al sinedrio, nel quale afferma: “In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Questa è anche la verità che Pilato, nonostante i limiti politici ed umani, colse e ritenne di dover incidere in cima alla croce, dichiarando Gesù Nazareno Re dei Giudei (cf. Gv 19,19-22). E questa è anche la verità con la quale ciascuno di noi si ritrova a confrontarsi nell’oggi della fede, e che suscita le più aspre polemiche nei dibattiti culturali e religiosi di ogni epoca. Ecco la ragione per cui Gesù invita i suoi discepoli a rimanere fedeli alla sua parola (cf. Gv 8,31).

Si capisce allora che il significato della regalità di Cristo è strettamente connesso alla sua missione salvifica e questa ha valore non solo per l’umanità, ma perfino per l’universo intero. Il che significa che l’azione evangelica di Cristo non si limita solo alla formulazione di un ideale di vita che consente alle persone di migliorare la propria condotta morale e spirituale, ma assume realmente un valore redentivo, tale da poter incidere a livello ontologico ed essere esteso all’ordine del cosmo intero. Se il piano politico di un re è capace di incidere su un territorio e far progredire la condizione sociale e culturale del proprio popolo, ancora di più l’amore salvifico di Dio è capace di orientare il mondo verso il suo compimento e la sua salvezza.

Ma è possibile incarnare questa logica regale di Gesù nelle nostre istituzioni sociali, politiche ed ecclesiali? La risposta esige una vera e propria conversione culturale e intellettiva, capace di farci intendere le indicazione esposte da Paolo, nella sua lettera ai Filippesi 2,5-11, dove afferma che Cristo pur disponendo di un potere divino decise di rinunciarvi per tutto il percorso della sua incarnazione nel mondo, durante la quale esercitò la sua divinità in povertà e umiltà di spirito. Cosicché mentre i re terreni ricorrono spesso al potere divino per avallare la propria credibilità, Cristo si sveste di tutto ciò, per manifestare la piena solidarietà all’uomo. Tradotto nel nostro vissuto ecclesiale ciò comporta una scelta: chiunque si ritrova ad assumere un ruolo nella Chiesa non può non svolgerlo che secondo lo spirito evangelico di Gesù. Diversamente si coglie il rischio di ridurlo solo a una forma di prestigio personale. È attuando questa logica regale evangelica nelle relazioni quotidiane verso gli altri e verso il creato che ciascuno decide di continuare nella propria storia l’opera redentiva di Cristo. Apparentemente potrà sembrare marginale e insignificante, in realtà costituisce la condizione per rinnovare l’uomo e il cosmo dal di dentro, secondo lo Spirito che fa nuove tutte le cose (cf. Ap 21,5).


[1] Basti pensare alle ambizioni imperialiste dell’attuale presidente della Russia che vede nell’invasione dell’Ucraina il suo segnale più evidente.

[2] Un’opera in cui appare evidente questa visione è quella degli artisti Jan e Hubert Van Eyck, Polittico dell’agnello mistico(1426-1432), detto anche altare di Gand, per la sua collocazione nella Cattedrale di Saint-Bavon a Gand, dove, nel pannello centrale della parte superiore del polittico, Cristo viene rappresentato con abiti regali, incoronato con una tiara a tre corone e lo scettro nella mano sinistra.

[3] Questa ideale politico, nel passato, ha influito anche sulla visione della Chiesa, conferendole una forma di governo di tipo imperialistico. Ed è interessante notare come ancora oggi vi siano frange clericali che manifestano evidenti nostalgie di sogni “imperiali”, a testimonianza di quanto esso stenti a dileguarsi.

[4] “Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, cominciò a dire: Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo! Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna tutto solo” (Gv 6,14-15).  

[5] La difficoltà a coniugare il significato politico-sociale con quello spirituale, in una visione unitaria capace di tenere insieme i due ambiti senza confonderli, è insita nella dinamica divino-umana del regno di Dio stesso. La lettera a Diogneto ci lascia intuire questo necessario quanto difficile e delicato equilibrio.

[6] Quella umana è solitamente tesa al prestigio e alla gloria personale, e fa leva sulla gestione del potere politico, economico, finanziario, comunicativo … spesso finalizzato ad esercitare un dominio sui singoli e sull’intera società. Essa mira all’asservimento delle persone più che alla loro promozione. E qualora la circostanza lo richieda, non si fa scrupolo a ricorrere all’esercizio della forza bellica, per domare le diverse forme di ribellione. In questo orizzonte sociale non mancano le strategie di dominio culturale, esercitate sia nei confronti dei singoli che del collettivo, come la censura, la condanna, la limitazione delle varie forme di libertà di stampa, religiosa, politica, la manipolazione del linguaggio, delle coscienze, la gogna mediatica e quant’altro. Di tutt’altro genere, invece, è la logica del regno di Dio che a giudicare dallo stile evangelico di Gesù è interamente volto alla promozione della persona, della sua libertà, e della sua salvezza.

 
 
 

Commenti


© Copyright – Luigi RAZZANO– All rights reserved – tutti i diritti riservati”

  • Facebook
  • Black Icon Instagram
  • Black Icon YouTube
  • logo telegram
bottom of page