24 Settembre 2023 - Anno A - XXV Domenica del Tempo Ordinario
- don luigi
- 23 set 2023
- Tempo di lettura: 7 min
Aggiornamento: 30 set 2023
Is 55,6-9; Sal 144/145; Fil 1,20c-24.27; Mt 20,1-16
Il criterio salvifico di Dio

“Quando fu sera tutti gli operai ricevettero ciascuno un denaro … ma quelli della prima ora mormoravano contro il padrone dicendo: Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. Ma il padrone, rispondendo disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? … Io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te” (Mt 20,8-14).
Questa appena letta è la conclusione alla quale perviene Gesù al termine della parabola degli Operai mandati a lavorare nella vigna, attraverso la quale egli intende esplicitare la magnanimità della misericordia di Dio e più in particolare il criterio con cui egli elargisce la salvezza. Un criterio che suscita non pochi sconcerti presso gli operai, abituati com’erano a un’idea di giustizia retributiva, ma che fa luce invece su quella che Dio manifesta costantemente nel corso della storia della salvezza. Ciò che sorprende nella parabola è l’atteggiamento del proprietario della vigna, il quale contrariamente all’uso comune di affidare a un fattore la gestione dei suoi beni terrieri, se ne prende cura lui direttamente, fino a interagire personalmente con gli operai. Mosso dal desiderio di prendersi cura della vigna s’impegna, nelle diverse ore del giorno, a cercare e a chiamare di persona gli operai, stabilendo una somma, pattuita di comune accordo, con coloro che si decidono a lavorare per lui. Tutto procede secondo i patti, fino a quando gli operai, alla fine della giornata, si recano da lui per riscuotere la paga. Con sorpresa quelli dell’ultima ora ricevono la stessa somma di quelli della prima. Il comportamento del padrone sconvolge gli operai, creando una discussione animata che sfocia in un aperto rimprovero che essi rivolgono direttamente al padrone: “questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo” (Mt 20,12). Sentendosi rimproverato il padrone ribadisce l’accordo stabilito al momento della chiamata: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro?” (Mt 20,13). Apparentemente ingiusto, il padrone si rivela, invece, particolarmente attento. Egli, infatti, non viene meno nel patto, al contrario, vi rimane fedelissimo. Pertanto la critica che gli viene mossa nasce da una falsa attesa che “gli operai della prima ora” si creano sulla base del suo comportamento. Tutta l’attenzione della parabola converge verso questo atteggiamento del padrone. Esso ci interpella e ci invita a rivedere la nostra idea di salvezza alla luce della giustizia divina.
La parabola diventa allora uno stimolo a cogliere il significato teologico, cristologico ed escatologico a cui allude attraverso i vari elementi che la strutturano. Non è difficile capire che la “vigna” corrisponde al regno di Dio, l’“invito” al lavoro del proprietario a quello della chiamata diretta di Dio alla salvezza; la “giornata” a quello della vita; il “denaro” alla salvezza; le “ore della giornata” alle diverse fasi della vita in cui Dio ci rivolge la chiamata, la “paga” al giudizio di Dio; gli “operai della prima ora” corrispondono al popolo eletto, quelli dell’“ultima ora” ai pubblicani, peccatori, prostitute … quelli cioè considerati esclusi dalla salvezza divina. Si intuisce allora che anche il contesto evangelico che motiva la parabola sia quello in cui Gesù risponde alle accuse di coloro che criticavano la sua missione e soprattutto il modo con cui egli elargiva generosamente e gratuitamente il perdono a tutta quella gente cui, anche oggi, difficilmente rivolgeremmo il nostro annuncio come: disoccupati, oziosi, nullafacenti, insomma quelle categorie di persone che non corrispondono ai canoni del nostro ideale di vita spirituale, riservati per lo più ai virtuosi, ai qualitativamente dotati, a quelli cioè che godono già di buona salute. Ben diversi dal “target” di riferimento di Gesù, quando dice: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto per i giusti, ma per i peccatori” (Mt 9,12-13). Un contesto attualissimo se consideriamo che la stessa reazione che porta gli “operai della prima ora” ad accusare il padrone di essere ingiusto nella distribuzione della paga, corrisponde esattamente a quella di coloro che considerano la salvezza un atto dovuto, riservato a coloro che operano secondo il criterio della giustizia retributiva, per cui essa è da destinare esclusivamente a coloro che compiono in modo scrupoloso i precetti religiosi; assolvono con disciplina inflessibile le pratiche spirituali; mantengono un comportamento rigorosamente impeccabile nei loro atti morali, che si mostrano giusti più per paura del giudizio divino che non per coerenza all’amore evangelico. Una considerazione, dunque, che non tiene assolutamente conto della libera e gratuita generosità con cui Dio distribuisce i suoi doni, come attesta il Salmo 144: “Misericordioso e pietoso è il Signore, / lento all’ira e grande nell’amore. / Buono è il Signore verso tutti, / la sua tenerezza si espande su tutte le creature. / Giusto è il Signore in tutte le sue vie / e buono in tutte le sue opere. / Il Signore è vicino a chiunque lo invoca, / a quanti lo invocano con sincerità”.

Si comprende, allora, in questa ottica la calorosa esortazione del profeta Isaia: “L’empio abbandoni la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; ritorni al Signor che avrà misericordia e al nostro Dio che largamente perdona. Perché i miei pensieri non sono i vostri pensieri” (Is 55, 7-8)[1]. Tutti brani, dunque, che contribuiscono a rivelarci come il ‘pensiero di Dio’ sia profondamente animato dalla salvezza. Pertanto il suo principale obiettivo è quello di comunicarci costantemente il suo amore misericordioso, durante tutto il corso della nostra vita. Non sempre riconosciamo il modo con cui egli si manifesta perché “le sue vie sovrastano le nostre vie”, l’essenziale è accoglierlo attraverso la sua chiamata e riconoscere “l’ora della giornata” in cui essa sopraggiunge, e soprattutto condividere con lui la gioia di lavorare per il suo regno. Come non ricordare allora in questa circostanza l’appello che Dio rivolge al suo popolo attraverso il profeta Gioele, “Ritornate a me con tutto il cuore … perché il Signore è misericordioso e benigno, tardo all’ira e ricco di benevolenza e si impietosisce riguardo alla sventura” (cf. Gl 2,12-13).
La parabola, pertanto, pur muovendosi nella visione della giustizia retributiva veterotestamentaria, introduce il nuovo principio salvifico inaugurato da Cristo, secondo il quale la salvezza non consiste più in un premio riservato ai soli giusti, come riteneva la prassi religiosa farisaica, per la quale bastava anche il solo culto esteriore a garantirla, ma nella partecipazione all’amore di Dio, la cui comunione genera una reale e libera presa di distanza dal peccato. L’idea di una salvezza intesa come privilegio religioso riservato al popolo eletto pertanto non è più ammissibile. Essa è decisamente tramontata. Ogni persona che si apre alla chiamata di Dio e si rende disponibile a realizzare il suo regno nel mondo, può accedere alla salvezza. È di questo nuovo principio che Paolo si fa interprete e divulgatore attraverso i suoi scritti, come attestano in modo particolare le sue lettere ai Galati e ai Romani, dove affronta il problema dell’ammissione dei pagani alla salvezza senza farli passare necessariamente attraverso la prassi religiosa mosaica. La questione affrontata dalla parabola fa dunque luce non solo sulla missione di Gesù, ma anche su quella della Chiesa nel mondo contemporaneo. Anch’essa è invitata a guardare le persone oltre le categorie culturali e sociali con cui siamo soliti definirli. Un problema spinoso specie quando entrano in gioco valori morali come quelli legati alla realtà dell’omosessualità. Una parabola perciò estremamente attuale.

Rimane vero che la salvezza è un dono che Dio elargisce non in base alla sua arbitrarietà, come sembra emergere dalla lettura del v. 14: “Amico, … non posso fare delle mie cose quello che voglio?”, ma in base al principio della sua giustizia, intesa non in senso strettamente giuridico, ma come fedeltà di Dio alla sua promessa salvifica. Il che significa lasciarlo libero di essere Dio, secondo le modalità che lui stesso stabilisce in base al criterio dell’amore. La fede dunque non esonera il credente dal lavoro che la vigna di Dio comporta, ma lo considera come segno di riconoscenza a Dio per il dono ricevuto. Chi lavora per il regno non lo fa perché è tenuto a farlo, ma perché prova gioia e gusto nell’offrire a Dio il proprio contributo. Le opere d’amore sono tali quando, originate dalla libertà, divengono libere per coloro che le praticano e liberanti per coloro che li ricevono. Esse non devono essere motivate dalla fredda razionalità del moralismo giuridico, che ne anestetizza la carica carismatica, ma dall’eccedente dell’amore di Dio. Ecco il “pensiero di Dio” che giustifica la nostra chiamata al lavorare per il suo regno. Non c’è altra ragione per chi spende la propria vita per il Vangelo se non quella di condividere la gioia della salvezza. Solo chi pensa e vive d’amore, come Gesù, fa di tutto per costruire il suo regno nel mondo. È qui la gioia sua e quella di Dio, come attestano anche i detti evangelici: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35) e “C’è più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione” (Lc 15,7).
[1] La circostanza storica a cui fa riferimento il profeta Isaia ci riporta al sentimento di speranza che l’editto di Ciro aveva ingenerato tra la gente, grazie al quale tutti i popoli deportati e quindi anche Israele, potevano ritornare definitivamente in patria. Un evento che viene interpretato dal profeta come un segno della perenne attenzione che Dio malgrado tutto, continua ad avere verso il suo popolo. Ne scaturisce un’esortazione che Isaia rivolge agli esiliati in terra babilonese, per i quali invece la deportazione appariva come un segno di definitivo abbandono da parte di Dio. Questo episodio si rivela perciò significativo per comprendere i modi e le “vie” misteriose attraverso le quali egli ci fa giungere alla salvezza. Non poche volte, infatti, ci capita di partecipare ad eventi, ma per vari motivi ci rimangono oscuri o insignificanti. Per capirne il senso occorre leggerli e rileggerli alla luce del piano di Dio, esattamente come fa Isaia con l’esilio e l’editto di Ciro. Ecco allora profilarsi la prima operazione a cui siamo chiamati: interpretare in chiave teologica ogni circostanza ed evento che caratterizza la nostra storia personale e comunitaria. È importante questo sforzo interpretativo perché Dio è sempre imprevedibile: non ci parla mai allo stesso modo, forme, circostanze e momenti previsti, ragion per cui la sua volontà ci rimane spesso enigmatica. Occorre allora interpretare, ma farlo sempre in modo nuovo e creativo, secondo la flessibilità creativa suggeriteci dallo Spirito dentro di noi. Non esiste, infatti, uno schema comunicativo standard di Dio, valido per ogni epoca, cultura, popolo e persona, tale che una volta acquisitolo possiamo garantirci la conoscenza chiara della sua volontà. Egli è sempre sorprendente, anche perché la sua comunicazione, pur presentando delle caratteristiche simili a tutti, si compie attraverso la sensibilità religiosa, spirituale, teologica e culturale di coloro che l’attualizzano nell’oggi della fede.




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