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24/05/2020 - Ascensione del Signore Anno A


At 1, 1-11; Sal 46; Ef 1, 17-23; Mt 28, 16-20


Il ritorno al Padre


L’Ascensione di Cristo al Cielo è certamente un celebrazione assai significativa per la nostra esperienza di fede, della quale, però, nel tempo, come purtroppo accade anche per altre solennità, abbiamo smarrito il suo significato, come dimostra la scarsa incidenza che essa ha nella nostra vita spirituale, ecclesiale e sociale. Ritengo opportuno perciò premettere al nostro commento alcune domande che vi invito a porvi prima di accingervi a comunicarla agli altri: qual è il significato teologico dell’Ascensione? Come renderlo comprensibile agli altri e soprattutto come tradurlo nel vissuto quotidiano? Credo che lo sforzo più grande che noi cristiani siamo chiamati a compiere nell’oggi della nostra cultura, consista proprio nel trovare un linguaggio con cui non solo rendere ragione della nostra fede (cf. 1Pt 3, 15), ma ancora più rendere comunicativo, attraente e appetitibile il messaggio evangelico, tale da nutrire lo spirito delle persone, con le quali condividiamo la nostra fede e la nostra vita sociale. Consapevole di questo impegno mi sforzerò di rendere quanto più semplice e comprensibile tale significato, ciò non toglie che anche da parte vostra vi sia uno sforzo sotto il profilo intellettivo, senza il quale non solo non comprenderemmo nessuna verità, ma non sapremmo neppure come comunicarla e quindi viverla appieno. Nel tentativo di venirvi incontro ho cercato, allora, di disegnare, una cornice all'interno della quale collocare il senso della nostra celebrazione e, al contempo, tracciare i presupposti per tradurre il suo significato a livello spirituale.

L’Ascensione costituisce l’ultimo episodio della vita di Cristo, ed ha un significato pari a quello dell’Incarnazione. Pertanto se con quest’ultima noi celebriamo la sua discesa tra gli uomini, con l’Ascensione celebriamo il suo ritorno al Padre. Tutta la vita di Cristo è circoscritta all’interno di questo duplice movimento: di discesa e ascesa, di incarnazione e risurrezione. Sotto il profilo teologico questi due eventi intendono sottolineare l’origine e il fine divino della missione di Cristo tra gli uomini. Se c’è una ragione che giustifica l’Incarnazione e l’Ascensione di Cristo, questa è da individuare esclusivamente nella sua gioia di renderci partecipi della vita divina del Padre, dalla quale lui stesso proviene e verso la quale intende condurre ciascuno di noi. Essi perciò non costituiscono solo due semplici episodi storici, ma due eventi che rivelano uno stile di vita evangelico che consiste nel farsi dono d’amore per l’altro e vivere questo dono come via di trasfigurazione e santificazione personale ed ecclesiale. Noi non avremmo motivo di annunciare il Vangelo se non comprendessimo che Cristo si è fatto uomo per farci come lui: figli di Dio, per renderci partecipi della sua stessa eredità, ovvero dell’amore del Padre. Così mentre con l’Incarnazione Cristo ha permesso a Dio di dimorare presso di noi, con l’Ascensione ha permesso a noi uomini di dimorare presso Dio. Allo stesso modo, tutto il senso del nostro annuncio evangelico consiste nel condividere con gli altri la stessa gioia che scaturisce dalla nostra esperienza d’amore trinitario. Qui è tutto il senso della nostra salvezza. Esattamente come afferma Gesù quando dice: “Questo vi ho detto perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15, 11). L’unico nostro compito pertanto è quello di poter dire a chiunque: Dio ti ama e da te desidera una sola cosa: essere amato. Questa è la forza che rende credibile il nostro annuncio di fede. Da qui ogni epifania d’amore di Dio nel mondo, come è appunto la Pentecoste che celebreremo domenica prossima. La nostra fede in Cristo e la nostra presenza nel mondo hanno senso solo se collocate all’interno di questo quadro.

Il termine che gli evangelisti usano per parlare dell’Ascensione di Gesù è quello che di rapimento. Gesù viene rapito, tolto, portato via dalla nostra esistenza e condotto in alto, in un’altra forma di esistenza. Per capire meglio questo fatto dovremmo leggere alcuni episodi simili nella Bibbia, come quello di Enoch: “Enoch piacque al Signore e fu rapito, esempio istruttivo per tutte le generazioni (cf. Sir 44, 16); “Per fede Enoch fu trasportato via, in modo da non vedere la morte; e non lo si trovò più, perché Dio lo aveva portato via. Prima infatti di essere trasportato via, ricevette la testimonianza di essere stato gradito a Dio” (Eb 11, 5), oppure come quello di Elia: “Mentre camminavano conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo” (2Re 2, 11). Inoltre l’episodio viene descritto anche in termini di salita, sia fisica sul monte, come nel caso di Mosé al Sinai, sia ascetico-spirituale verso il cielo, per raggiungere la pienezza della vita divina e da lì impregnare di essa tutto l’universo, come attesta il brano di Ef 4, 9-10: “Cosa significa la parola ‘ascese’, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose”.

Tra tutti gli evangelisti Luca è l’unico a descrivere con maggiore estensione l’episodio dell’Ascensione; ed è l’unico a farlo per due volte: nel vangelo (Lc 24, 50-53) - col quale chiude il suo “racconto” - e nel libro degli Atti degli Apostoli (1, 9-11) - col quale lo comincia -. In Luca questo episodio fa dunque da collante tra il Vangelo e gli Atti degli Apostoli, il che lascia intendere che essi all’origine costituissero un unico libro e come tale dovremmo imparare a leggerli. Marco si limita solo a menzionarla (Mc 16, 19), Matteo la lascia intendere (Mt 28, 16-20) e Giovanni ne parla al momento dell’apparizione del Risorto a Maria: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre” (Gv 20, 17). Accanto a questi brani evangelici vi propongo anche la lettura del Discorso di Addio (cf. Gv 13, 31-17, 26), al quale più volte stiamo facendo riferimento in questo periodo. Esso ci aiuta a capire il contesto e la ragione del suo ritorno al Padre.

Stando a Luca l’Ascensione chiude, dunque, il ciclo della vita terrena di Gesù e segna il suo definitivo ritorno al Padre. Tuttavia la narrazione di questo fatto presenta alcune differenze. Mentre nel Vangelo essa sembra accadere nello stesso giorno della risurrezione (cf. Lc 24, 50-53) - come accade, per altro, anche per lo stesso Giovanni (cf. Gv 20, 17) -, negli Atti invece viene detto che essa accade al termine di un ciclo di apparizione durato quaranta giorni (cf. At 1, 3-11). Come può essere spiegata questa differenza? Tenendo presente che la questione è ancora aperta a livello esegetico, alcuni autori ritengono che Luca abbia voluto tracciare un percorso didattico, oltre che offrire un significato simbolico. Giocando infatti sul numero quaranta egli offre dei parallelismi tra gli inizi della predicazione di Gesù e quelli della Chiesa, come a voler sottolineare la necessità di una preparazione prima della predicazione pubblica. È significativo infatti che Gesù nel deserto venga provato nella sua identità e missione divina, così come gli apostoli vengono verificati e confermati nella loro missione ecclesiale, durante il periodo delle apparizioni. In entrambi i casi notiamo che essi durano quaranta giorni (cf. Lc 4, 1-2 e At 1, 3). Il numero quaranta nella Bibbia ha un significato simbolico, per dire un ciclo completo di preparazione entro il quale si compie un percorso di formazione. Così mentre per Gesù esso costituisce un periodo al termine del quale dà inizio alla sua glorificazione del Padre, per gli Apostoli esso predispone a quel processo di santificazione e divinizzazione dell’umanità, che partendo dalla Pentecoste raggiungerà il suo compimento definitivo nell’unità col Padre, quando Dio sarà tutto in tutti (cf. 1Cor 15, 28).

Se per Luca l’Ascensione assume una valenza simbolica, per Giovanni essa costituisce la condizione perché Gesù offra lo Spirito Santo: “E’ bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne andrò, ve lo manderò” (Gv 16, 7). È interessante questa condizione che Gesù pone per l’avvento dello Spirito. Solo se lui si ritrae lo Spirito può dare inizio alla sua attività nella Chiesa e nel mondo. Essa sembra evidenziare quella logica kenotica propria della vita trinitaria, attraverso la quale ciascuna persona fa essere l’altra nascondendosi. Ne scaturisce un autentico paradosso della vita spirituale, secondo il quale: si è quando non si è: si è in Dio quando si smette di imporre il proprio io. lo Spirito, infatti, manifesta la sua persona nel momento in cui rivela il volto di Cristo nella Chiesa. A sua volta Cristo compie la sua opera di redenzione lasciando operare lo Spirito nel cuore della Chiesa. Allo stesso modo anche noi siamo Chiesa quando lasciamo vedere Gesù, quando cioè mettendo da parte il nostro io lasciamo emergere quello di Cristo. Esattamente come dice Gesù: “dove due o più sono uniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Mt 18, 20). Il nostro essere Chiesa diventa così la forma della nuova vita di Gesù. Gesù è vivo e vero, ma la sua è una presenza ecclesiale. D’ora in poi la vita in lui sarà vita nello Spirito e secondo lo Spirito. In Lui Gesù sarà costantemente presente nella vita del mondo: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. L’Ascensione di Gesù diventa allora preludio della nostra divinizzazione, ovvero della nostra trasformazione in nuova creatura, per mezzo dello Spirito (cf. 2Cor 5, 17). Essa costituisce per noi un invito a cercare le cose di lassù (cf. Col 3, 1-3), a vivere, cioè, questa vita secondo lo Spirito, impregnando tutti gli ambiti della vita umana: familiare, lavorativa, culturale, politica, artistica fino a fare di essi dei luoghi dove rendere visibile la presenza mistica di Gesù. A partire dall’Ascensione lo Spirito porta l’umanità nell’intimità del Padre, rivelandole la sua origine divina e la sua destinazione finale. Esattamente come il percorso tracciato da Cristo con la sua Incarnazione e Ascensione.

 
 
 

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