23/08/2020 - 21a Domenica del Tempo Ordinario - Anno A
- don luigi
- 23 ago 2020
- Tempo di lettura: 8 min
Is 22, 19-23; Sal 137/138; Rm 11, 33-36; Mt 16, 23-20
L’intelligenza della fede
Il tema della fede incominciato nelle domeniche precedenti viene ancora una volta ripreso e sviluppato dalla liturgia della Parola di quest’oggi che nello specifico pone al centro della nostra attenzione un ulteriore elemento costitutivo. Così se il profeta Elia ci ha educato a cogliere la novità del linguaggio comunicativo di Dio e la donna Cananea ci ha fatto capire l’importanza dell’atteggiamento dell’insistenza, Pietro, posto di nuovo al centro della nostra attenzione, ci insegna che la fede oltre a disporre della fiducia, come quella manifestata sul lago di Genesaret (Mt 14, 28-29), deve essere necessariamente accompagnata dall'intelligenza che ne scruta la profondità e ne fa conoscere la ricchezza contenutistica. Il riconoscimento dell’identità divina e messianica di Cristo da parte di Pietro: “Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente” (Mt 16, 16), costituisce perciò la condizione originaria e ineludibile che è alla base di ogni professione di fede personale e comunitaria e di ogni ministero ecclesiale. Se c’è una ragione che giustifica l’essenza della fede cristiana, questa sta nel riconoscere Gesù come Figlio di Dio.

In questo senso il suo specifico non consiste solo nel porre in Cristo la massima fiducia personale, ma anche nel comprendere il messaggio salvifico che egli intende comunicarci. Questi due aspetti della fede come fiducia e della fede come contenuto, che la tradizione teologica a partire da Agostino esprime con le formule fides qua e fides quae, costituiscono un binomio inscindibile della fede cristiana.
La professione di fede da parte di Pietro è un episodio chiave nel cammino dei discepoli. Essa nasce da una domanda che Gesù pone a loro come ai discepoli di ogni tempo: “Chi dite che io sia?” (Mt 16, 15), alla quale nessuno può sottrarsi, se intende vivere onestamente e autenticamente la fede in lui. I sinottici pongono questo episodio, presso a poco alla metà della loro narrazione (cf Mt 16, 13-20; Mc 8, 27-30; Lc 8, 18-21), come a voler evidenziare la svolta che essa deve necessariamente determinare nel cammino di fede di ciascuno. La scena viene ambientata a Cesarea di Filippo, una città pagana a nord della Palestina e ruota intorno alla questione centrale della predicazione di Gesù: il conferimento e l’esatta comprensione del titolo di Cristo. Che il Messia fosse atteso era un dato da tutti condiviso, ma non tutti erano concordi sul suo significato. Lo stesso Gesù, come attesta anche il v. 20 del nostro brano, si era mostrato estremamente cauto nel suo uso: “Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo” (Mt 16, 20). Questo divieto nasce da diversi equivoci a cui dava adito il suo significato. Quello più diffuso era senza dubbio politico. Da qui l’idea, abbastanza radicata nel popolo, dell’attesa di un condottiero, di tipo davidico, che avrebbe definitivamente conferito al popolo una dignità politica, rispetto ai regni a cui spesso era sottomesso. Tutt’altro che politico Gesù riconosceva al profeta Isaia l’esatta interpretazione del titolo di Messia e a lui si rifà quando, durante la passione, ne manifesta il profilo nella forma del servo sofferente (cf. Is 42, 1-4; 49, 1-6; 50, 4-9; 52, 13-15). Ed è questa l’immagine che Gesù si sforza in tutti i modi di veicolare, non senza impegno, in primo luogo ai discepoli, anch’essi fortemente influenzati da una visione politica, come attesta il rimprovero che Pietro fa a Gesù appena dopo il suo annuncio della passione (cf. Mt 16, 22).
Una simile visione messianica rivela una mentalità particolarmente difficile da sradicare. Essa ha condizionato e condiziona non poco il vissuto della fede anche a livello ecclesiale, dove le interferenze politiche hanno spesso condizionato l’esatta interpretazione del primato conferito da Gesù a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. A te darò le chiavi del regno dei cieli ...” (Mt 16, 18.19). La storia ci insegna che quest’interferenze politiche sono state motivo di non pochi conflitti, non solo sotto il profilo teologico, ma perfino civile e bellico. Da qui il monito che proviene dal brano di Isaia (22, 19-23) e che la liturgia ha saggiamente associato all’episodio evangelico. Esso ci insegna che il ruolo a cui Dio chiama non è affatto irrevocabile, ma dipende dalla relazione di fiducia che si viene a stabilire tra lui e il chiamato. Nella storia del popolo d’Israele non mancano i casi in cui Dio destituisce una persona dal suo ruolo di guida, come dimostra la vicenda di Saul, il primo re d’Israele, al quale tolse il titolo di re per conferirlo a Davide (cf. 1Sam 16, 1ss). La ragione della revoca non dipende certamente da una mutata volontà di Dio, alla quale rimane sempre fedele, bensì da una strumentalizzazione del ruolo da parte del prescelto, come nel caso di Sebna, maggiordomo del palazzo regale. Egli pur essendo uno straniero era riuscito a risalire la china sociale, fino alla carica di sovraintendente capo della corte regale. La sua autorità era tale da essere secondo solo al re. Eppure Dio non esita a destituirlo attraverso l’intervento del profeta Isaia. Dio punisce Sebna per aver usurpato, a proprio favore, il potere che gli era stato conferito, vivendo nel lusso più sfrenato, a discapito di tutto il popolo ed in particolare dei poveri. La sua condotta di vita determina un rovesciamento di sorte (cf. Lc 1, 52-53), tale da trasferire i pieni poteri a Eliakim, figlio di Kelkia (cf. Is 22, 19-20), il quale, con evidenti richiami alla parabola del Figliol prodigo (cf. Lc 15, 22), viene rivestito dei segni del comando: tunica, cintura e investito di tutti i poteri regali: “Gli porrò sulla spalla la chiave della casa di Davide: se egli apre, nessuno chiuderà; se egli chiude, nessuno potrà aprire” (Is 22,22). Le chiavi, a cui si fa riferimento in questo brano avevano un significato simbolico. Spesso erano di grandi dimensioni e venivano poste sulle spalle del maggiordomo, come a volere indicare il peso della responsabilità che comportava il suo incarico.
Gesù, nel momento dell’investitura petrina, si rifà a questa tradizione, limitando il suo gesto al solo uso verbale, conservandone però il pieno significato. Anche Pietro, come Eliakim, viene investito di tutto il potere divino: a lui vengono consegnate le chiavi del Regno che gli conferiscono il potere di sciogliere e di legare con la stessa autorità di Cristo, il quale, però, chiede di esercitare il suo potere in un modo radicalmente nuovo, rispetto alla logica del mondo, come attesta l’episodio dei figli di Zebedeo, quando chiedono di ereditare il potere del regno di Dio, direttamente da Gesù (cf. Mc 10, 35-45).
Questa nuova logica interpretativa del potere ci invita a cogliere l’esatta differenza tra autorità, di cui viene investito Pietro, e dominio che solitamente costituisce il modo essenzialmente umano e mondano, con cui viene esercitata l’autorità. Infatti, mentre l’autorità, così come viene intesa da Gesù, scaturisce dall’unione del mandato divino e dall’autorevole testimonianza della vita carismatica del destinatario, il dominio è spesso esercitato solo come diritto legale, legato al ruolo sociale e politico di cui si viene investito. Nella storia civile e perfino in quella ecclesiale, non mancano i casi in cui l’autorità, specie quando si è privi di autorevolezza carismatica, viene confusa ed esercitata solo come dominio sulle cose e sulle persone. Nel caso specifico della storia ecclesiale questa confusione assume toni relazionali conflittuali e perfino drammatici, quando il suo esercizio viene avallato da interpretazioni teologiche. Il passo evangelico invece lascia intendere che solo coloro che sono animati dalla beatitudine della purezza evangelica (cf. Mt 5, 8), possono cogliere l’autentica intenzione che Gesù ha associato a questo conferimento petrino. Il suo potere non sta nell’esercizio di un dominio, ma nella realizzazione di una comunione di vita evangelica fondata sul servizio, esattamente come lui stesso attesta, quando afferma di essere venuto per servire e non per essere servito (cf. Mc 10, 45).
È evidente che l’esercizio del potere è solo un aspetto legato a questo episodio evangelico che pone anche l’accento sulla particolare intuizione messianica di Pietro. Essa, come evidenzia lo stesso Gesù, immediatamente dopo la risposta di Pietro, ci fa cogliere un elemento rilevante della fede cristiana, legato non tanto alla particolare dote intellettiva di Pietro, quanto alla docile disposizione della sua ragione alla rivelazione divina. “Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché ne carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (17). La verità, della quale Pietro viene fatto partecipe, non scaturisce dalla capacità speculativa della sua ragione, ma è un dono libero, gratuito e immediato di Dio. Dio gli si rivela nella povertà di spirito (cf. Mt 5, 5), ovvero nell’umile servizio ed esercizio dell’attività intellettiva e razionale della sua mente, attestando in questo modo così la potenza dell’opera sapienziale di Dio.
A questo riguardo il passo paolino della lettera ai Romani (11, 33-36) si rivela di straordinaria importanza. Esso evidenzia il dolore di Paolo legato alla sorte del popolo d’Israele. Questo popolo che Dio attraverso i profeti, aveva pazientemente educato ad accogliere il salvatore, si rivela non solo incapace di riconoscerlo nella persona di Gesù, ma perfino ostile alla sua azione salvifica. Se nel passato questo privilegio era stato motivo di vanto, ora diventa il motivo della sua estromissione dal piano salvifico. Paolo individua la ragione di questo atteggiamento del popolo nella pretesa sapienziale di padroneggiare la rivelazione divina a proprio vantaggio: una vera e propria forma di orgoglio religioso. Questo atteggiamento superbo costituisce il motivo della sua destituzione a favore di un popolo che ne portasse a compimento il piano salvifico. Pertanto la parabola descritta da Sebna assume un carattere fortemente simbolico per interpretare la sorte riservata ad Israele e con lui a tutti coloro che Dio chiama a realizzare il suo piano salvifico. Dio non rimane legato al ruolo e neppure alla persona, quando questi si rivelano reali impedimenti alla promessa divina. Questo comportamento di Dio ci fa capire che la nostra professione di fede, prima ancora di assumere un carattere dottrinale, deve essere la manifestazione della nostra riconoscenza al dono libero e gratuito che egli ci fa del suo amore salvifico: “chi gli ha dato qualcosa per primo tanto da riceverne il contraccambio?” (Rm 11, 35). Senza la sua generosa magnanimità noi non avremmo neppure il dono dell’intelligenza per comprendere la “profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio” (Rm 11, 33) e la ragione che ci consente di esplicitarne il contenuto. Intelligenza e ragione invece di essere considerate come dono di Dio sono spesso motivo di orgoglio nei suoi confronti. In realtà ogni cosa di cui noi disponiamo – sostiene Paolo – ha in Dio la sua origine, il suo principio, il suo senso e il suo fine. Infatti, “da lui, per mezzo di lui e per lui sono tutte le cose” (v. 36).
L’episodio di Cesarea di Filippo ci fa capire che la fede non si fonda sul sentito dire, come accade molto spesso di verificare in molti cristiani, ma sulla relazione interpersonale con Cristo, al quale interessa sapere non solo cosa nutriamo per lui, ma anche cosa pensiamo di lui. Questo duplice atteggiamento è alla base non solo di un’autentica professione di fede, ma anche di ogni vera relazione ecclesiale e di ogni esercizio ministeriale. Nessun ruolo ecclesiale può essere autenticamente e idoneamente svolto se esso non ha origine nella volontà di Dio e non ha come fine il suo Regno. Tutto ciò che esula da questo principio e fine, prima o poi, è destinato a fallire. La storia di Dio è fatta da coloro che si fanno interpreti della sua volontà nell’oggi della fede.




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