top of page

21 Luglio 2024 - Anno B - XVI Domenica del Tempo Ordinario






Ger 23,1-6; Sal 22/23; Ef 2,13-18; Mc 6,30-34


Le condizioni del riposo evangelico


ree

“Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto e riposatevi un po’” (Mc 6, 31). È l’invito che Gesù rivolge ai suoi, al termine della loro prima missione evangelizzatrice. Esso si rivela quanto mai appropriato in questo momento dell’anno pastorale, in cui avvertiamo tutti il bisogno di un meritato riposo. Nel commentare questo passo evangelico vorremmo apprendere da Gesù le condizioni per imparare a riposarsi nello spirito, prima ancora che nel fisico. Perciò esse costituiscono per noi una sorta di “consigli evangelici” che egli suggerisce a chiunque ha deciso di condividere con lui la fatica del Regno di Dio. Personalmente vedo in questo invito l’attenzione di un maestro premuroso che si preoccupa persino di creare le situazioni più adeguate perché i suoi abbiano modo di riposarsi. Per tanti di noi, attivisti abituati al ritmo frenetico della vita, può sembrare superfluo un simile consiglio. Invece credo che più che mai abbiamo bisogno di essere educati al riposo, tant’è che anche quando esso è possibile, ci scopriamo incapaci di praticarlo e perciò ci ritroviamo più stanchi che mai, anche al termine di un periodo di vacanze. La stessa formula: “tempo libero”, così comune nel nostro linguaggio, viene ormai spesso sostituita con quella di: “tempo liberato”, come a dire che non disponiamo più di tempo superfluo, ma occorre svincolarlo dai numerosi impegni che ci attanagliano.

Per riposarsi bisogna allora avere il coraggio di fare delle scelte: la prima delle quali è quella che Gesù fa fare ai suoi quando dice: “venite in disparte”. Per capire il senso di questa scelta è bene partire dal significato del termine disparte, il cui prefisso dis indica ‘separazione’ dalla parte. Il significato del termine può risultarci ancora più comprensibile se supponiamo il contesto dal quale siamo invitati a metterci in disparte. Benché siano in tanti a riconoscere l’insostenibile stile di vita attuale, molti trovano difficile vivere diversamente, a testimonianza di quanto profondo e forte sia il condizionamento della cultura massificata, che mentre da una parte invoglia gli individui alla creatività e all’originalità, dall’altra li massifica impedendo loro di seguire qualsiasi idea, scelta o stile di vita che contrasti con la logica uniformante del mondo. Più che dagli impegni pastorali, dunque, rispetto ai discepoli di Gesù, noi siamo invitati a prendere le distanze dalla mentalità con cui li organizziamo. Essa ci sfianca ancora più della fatica fisica. Si tratta allora di imparare a riposarsi nello spirito. Già, ma come farlo?

ree

Riposarsi non significa passare da una fase iperattiva, caratterizzata dall’ansia, dalla frenesia, dall’agitazione e dalla preoccupazione, ad una fase di ozio, indolenza, inoperosità, pigrizia e poltroneria, ma vivere il tempo in modo spirituale, secondo il ritmo vivificante e ristorativo dello Spirito. Significa trovare pace, ovvero dare senso, a quell’inquietudine che spesso accompagna la nostra esistenza e le nostre attività lavorative. Così inteso il riposo non è affatto un lusso, ma un dovere, o meglio un “comandamento”, come lascia intendere il riposo sabbatico richiesto da Dio a Mosè: “Durante sei giorni si lavori, ma il settimo giorno vi sarà riposo assoluto, sacro al Signore” (Es 31,15). Sacro dunque è il riposo e come tale va praticato, come di chi è chiamato a cogliere e contemplare la dimensione sacra del tempo, intesa come luogo della presenza santificante di Dio. Il termine ebraico Sabbat deriva dalla radice Sbt che significa cessare, riposare. In lingua assira il termine sabatu non comporta solo un riposo, ma anche un compimento, un compiacimento, un appagamento del lavoro compiuto, una sorta di contemplazione estetica, come quella che l’artista sperimenta al termine della sua opera, quando si sofferma a contemplarla. Ciò significa che per poter dedicare la mente e il cuore a Dio occorre essere liberi dalle preoccupazioni assillanti della vita quotidiana. E ciò vale anche per quei contesti pastorali in cui sottrarsi agli impegni può sembrare una sorta di deresponsabilizzazione. In realtà lo stesso Gesù, pur essendo responsabile della salvezza del mondo, trovava sempre il modo per riposarsi. Basti ricordare le numerose notti o i vari luoghi solitari nei quali lui si ritira a pregare da solo (cf. Lc 5,15-16; Mt 14,23) o in compagnia (cf. Lc 9,28-29). Ciascuno dunque deve imparare a ritagliarsi i momenti e organizzarsi i luoghi dove ritrovare il senso del proprio ministero, nella comunione di vita con Dio. La vita non è mai così avara da impedirci tutto questo. E poi ogni situazione difficile può essere vissuta come una prova dove imparare a fidarsi di Dio. 

Paradossalmente il luogo nel quale Gesù invita i suoi a ritirarsi per riposarsi, non è affatto un’oasi, come ci saremmo immaginati, ma il deserto, più precisamente “un luogo deserto”, che non necessariamente si identifica col deserto vero e proprio. Ma al di là di questa precisazione geografica ciò che a noi interessa sono le caratteristiche che deve avere un luogo riposante. Da qui l’importanza del significato del termine “deserto”. Chiaramente in un contesto sociale come il nostro il termine assume un significato simbolico, che possiamo scoprire a partire dall’etimologia del termine. Il deserto è, come dice il termine, de-esse, un luogo privo di essere e di vita, un luogo che allude all’essenza originaria che caratterizza il mondo quando era ancora agli albori dell’esistenza e ogni cosa attendeva la vita. Gesù li conduce lì dove essi possono scoprire l’origine e il principio di ogni essere. Il deserto è il luogo nel quale siamo invitati ad entrare per incontrare noi stessi e, ancora più profondamente, Dio in noi. In questo luogo Gesù convoca i suoi per farli incontrare con Dio. Il deserto allora, per essere ancora più vicino al Vangelo, è la stanza entro cui veniamo invitati ad entrare per pregare con Dio, secondo le indicazioni del Discorso della Montagna: “Quando vuoi pregare, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6, 6). Il deserto diventa così la cella segreta della nostra vita intima. Essa può apparirci arida, brulla, sterile, scarna, sobria, ma essenziale, perciò è il luogo dell’essenza. Essa è il tabernacolo, la sancta sanctorum, l’arca che custodisce le nostre esperienze spirituali più autentiche. È il centro, dove troviamo ristoro, riparo e vita. È qui che veniamo a contatto con la sorgente prima della vita evangelica, dalla quale zampilla la vitalità dello Spirito. Riposarsi significa allora entrare in questo alveo originario che è il seno del Padre, per partecipare di quella relazione interpersonale col Figlio nello Spirito. Il segreto per vivere appieno il riposo sta allora nel cogliere e, ancora più, entrare in questa comunione vitale con Dio. Essa ci rigenera e ricrea dal di dentro, secondo quella logica trinitaria: “Io nel Padre e il Padre in me” (cf. Gv 17, 20). Chi entra in questo tipo di comunione vive costantemente in un clima quotidiano di riposo spirituale e di conseguenza anche psicologico.

È questo modo evangelico di intendere e praticare il riposo che trasforma il lavoro del regno (cf. Mt 20,1-16), con tutta la fatica che esso comporta, in un carico soave e leggero, come dice Gesù: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11, 28-30). La soavità, la letizia, la leggerezza della vita spirituale, di cui parla Gesù, non sta nell’assenza dei problemi, o nell’abilità a schivarli, ma nella capacità di attraversarli senza lasciarsene condizionare, mantenendo, malgrado la loro gravità, quell’atteggiamento di mitezza e di fiducia tipici di chi fa l’esperienza filiale di Gesù. 

Entrare nel riposo significa entrare in questo rapporto di amicizia con Cristo e rimanervi per tutto il tempo in cui il Signore ci dona la grazia di stare con lui, gustando la sua presenza. Occorre, sia pure solo per un attimo, assaggiare la gioia che scaturisce da questa intima amicizia con Cristo, per perseverare poi nei momenti più difficili della prova.

È interessante notare che Gesù pur manifestando queste attenzioni per i suoi discepoli, si rivela poi il primo ad infrangerle, dinanzi alle imprevedibili esigenze e bisogni della gente: “Sbarcando vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose” (Mc 6,34). Questa personale disponibilità di Gesù, ci sprona a quella generosità morale, elasticità spirituale e flessibilità mentale così necessarie a chi, specie in contesti ecclesiali e culturali come il nostro, soggetti cioè a continui e repentini cambiamenti, è chiamato ad adeguarsi sempre alle nuove istanze pastorali. Si tratta com’è evidente di atteggiamenti che rivelano una straordinaria ansia evangelica che ci induce ad essere costantemente attenti alle necessità della gente. L’ansia evangelica non è quella che nasce dall’eccessiva preoccupazione delle prestazioni personali, come spesso accade anche nei nostri contesti pastorali, ma quella che scaturisce dal desiderio struggente di rendere partecipe le persone dell’amore salvifico di Dio. È questo il principio che Gesù chiede ad ogni suo discepolo e quindi ad ogni pastore che è chiamato a guidare il popolo di Dio. Ogni altra ragione che motiva e accompagna il ministero pastorale è destinata a procurare solo delusioni e fallimenti. Dalle frustrazioni che ne derivano si capisce che l’azione pastorale è stata compiuta in vista di se stessi, più che di Dio. In altre parole si è costruito sulla sabbia del proprio ego, più che sulla roccia della Parola (cf. Mt 7,24-27). È in questo accentramento che molto spesso si annida quella forma di stanchezza psicologica dalla quale è così difficile liberarsi. Per costoro rimane sempre attuale e puntuale il monito del profeta Ezechiele: “Guai ai pastori che pascolano se stessi” (Ez 34,2) e quello di Geremia: “Guai ai pastori che fanno perire e disperdono il gregge del mio popolo” (Ger 23,1). Si tratta allora ricentrarsi in Dio e trovare in Cristo il principio, il senso e il fine di ogni propria azione pastorale. “È lui la nostra pace” (cf. Ef 2,13). In lui trovano riposo tutte le nostre inquietudini, secondo le parole di Agostino: “Il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in te”.

 
 
 

Commenti


© Copyright – Luigi RAZZANO– All rights reserved – tutti i diritti riservati”

  • Facebook
  • Black Icon Instagram
  • Black Icon YouTube
  • logo telegram
bottom of page