21 Aprile 2024 - Anno B - IV Domenica di Pasqua
- don luigi
- 20 apr 2024
- Tempo di lettura: 8 min
At 4,8-12; Sal 117/118; 1Gv 10,11-18; Gv 10,11-18
Un pastore che dà la vita

“Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e offro la vita per le pecore. E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore.
Il mercenario invece che non è pastore e al quale le pecore non appartengono, vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge e il lupo le rapisce e le disperde, perché al mercenario non importa nulla delle pecore” (cf. Gv 10,14-16; 12-13).
Nella quarta Domenica di Pasqua la Chiesa ci propone la parabola del Buon pastore. Francamente, a prima vista, ci sorprende un po’ la proposta di questa parabola, in un contesto tutto incentrato sui “racconti delle apparizioni”, per cui essa sembra risultarci fuori luogo. In realtà, nulla come la Risurrezione ci offre la chiave di lettura per cogliere il significato più profondo di questa parabola. È in questa luce, infatti, che essa si rivela in tutta la sua sorprendente novità, dischiudendoci il senso vero e autentico della missione salvifica di Cristo, il quale viene riconosciuto effettivamente come il “Pastore grande delle pecore” che ci ha fatto risalire dalla morte e ricondotto alla vita dei figli di Dio (cf. Eb 13,20; 1Gv 3,1). Se c’è dunque una ragione che spiega il senso della missione pastorale di Cristo questa è da individuare nelle sue seguenti parole: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10).
Sebbene l’immagine del “pastore” ci sembra un po’ anacronistica, essa si presta ancora bene ad esprimere il ruolo di chi, all’interno di una comunità ecclesiale, è chiamato ad agire “in persona Christi”, per guidare il popolo alla salvezza. Diventa, perciò, estremamente significativa l’associazione di questo brano evangelico a quello degli Atti degli Apostoli, che ritrae Pietro nel suo ruolo guida all’interno della prima comunità cristiana. Nel Discorso che tiene davanti al sinedrio (cf. At 4,8-12), egli dimostra di aver ben compreso la missione affidatagli da Cristo al momento della chiamata[1], ribadita a Cesarea di Filippo[2], e confermata all’indomani della risurrezione[3], quando, in qualità di primo responsabile della Chiesa, dichiara apertamente Cristo come “la pietra che, scartata dai costruttori, è diventata testata d’angolo. In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvi” (At 4,11-12). Ora è lui il pastore delle pecore. È lui che deve continuare nel tempo la missione salvifica di Cristo. Ritengo perciò opportuno commentare la parabola tenendo come sfondo il ruolo di Pietro e di chi, come lui, svolge, oggi, nella Chiesa, le sue veci.
Proviamo allora a sviscerare la carica simbolica di questa parabola, cercando di chiarire il significato degli elementi che la caratterizzano, come: il pastore, il mercenario, il gregge, l’ovile, il lupo, le altre pecore. Alcuni di questi elementi sembrano essere l’esatto contrario dell’altro, per cui tutta la parabola appare come strutturata da una serie di binomi: pastore-mercenario; pecora-lupo, offrire-possedere la vita, custodire-disperdere, curare-abbandonare il gregge, conoscere-ignorare le pecore. La prima coppia mette chiaramente a confronto i protagonisti della parabola: il pastore e il mercenario, i quali si distinguono l’uno dall’altro, non solo per il ruolo, quanto per i rispettivi atteggiamenti che assumono nei confronti delle pecore. Entrambi, infatti, si pongono a capo di un gregge, ma mentre il pastore si procura di stabilire un rapporto con ciascuna pecora, tanto da averne una conoscenza personale di ognuna di esse; il mercenario non nutre alcuna passione per loro. A lui non interessa il loro stato di salute, né condurle ai pascoli rigogliosi per foraggiarle, benché meno difenderle in caso di pericolo. Il suo unico scopo è quello di sfruttarle a proprio vantaggio, per ricavarne il più lauto profitto. Egli svolge la sua attività col solo scopo di trarne un guadagno. Il suo criterio di prestazione è guidato esclusivamente dall’interesse economico. La sua avidità lo induce perfino ad assumere gli stessi atteggiamenti del lupo: disperdere il gregge, per colpire più facilmente le singole pecore. Tutt’altro invece è l’atteggiamento del pastore, il quale nutre una tale attenzione nei confronti del gregge, da non perderlo mai di vista durante il giorno; e custodirlo all’interno di un ovile durante la notte. La sua premura è tale da mettere perfino a rischio la propria vita, quando esso è minacciato dai lupi.
Così delineate le figure del pastore e del mercenario, appaiono piuttosto chiare e distinte. Ma non sempre è facile ed immediato riconoscere il loro profilo nella vita quotidiana. Non poche volte, infatti, accade che dietro il vello di un premuroso pastore si nasconde un vero e proprio mercenario. Basti pensare ai diversi scandali che si sono susseguiti negli ultimi tempi, perpetrati da ragguardevoli figure ecclesiastiche ai danni di persone totalmente fiduciose della loro bontà, per rendersene conto. Dietro un apparente senso di protezione può nascondersi un’astuta trama di adescamento. E non è detto che i mercenari siano sempre individui chiaramente identificabili, facilmente riconoscibili dalla loro spregiudicatezza. A volte possono assumere il volto di una religione dal sapore esotico, perseguibile perché alla moda; oppure di un pensiero filosofico dall’aspetto spirituale; o quello di un ideale umano particolarmente suggestivo. Si tratta in ogni caso di figure che fanno spesso strage all’interno della comunità cristiana, con le loro tattiche ingannevoli: attraendo con elementi affini alla propria sensibilità spirituale, e poi rivelandosi totalmente svuotate di qualsiasi dimensione trascendente della vita. Molti di essi sono abili nell’ingannare con una scaltra amicizia, camuffata di bontà e generosità, ma il loro scopo è solo quello di sfruttare e strumentalizzare l’altro. Per questo sono più insidiosi. Gesù invita a guardarsi da queste persone e da queste logiche di vita: “Guardatevi dal lievito dei farisei e dal lievito di Erode” (Mt 16,6). Non è facile fare questo discernimento. Perché simili strategie non appartengono solo alla logica del mondo, ma tramano spesso anche nella vita ecclesiale. Perciò risulta ancora più importante e necessario imparare a riconoscere e a discernere la voce del pastore.
Da qui la necessità di sviluppare dei criteri che consentono un sano discernimento nella scelta di quei “pastori secondo il cuore di Dio”, capaci cioè di “guidare con scienza, intelligenza” (cf. Ger 3,15), libertà, gratuità, disponibilità, umiltà e nascondimento. Nello specifico, si tratta di verificare, in primo luogo, la consapevolezza che essi hanno dell’origine divina della loro missione di pastori. Il loro è un mandato di iniziativa divina (cf. Mt 16,18-19), pertanto essi non operano da sé, né per pascere se stessi, ma sono inviati da Cristo, esattamente come Cristo è inviato dal Padre (cf. Gv 20,21). Essi sono chiamati a continuare nel mondo la stessa opera di Cristo (cf. Gv 20,21; 5,19-47). Da qui si capisce l’amore che essi nutrono per la comunità ecclesiale: dall’attenzione che manifestano verso ogni singolo fedele che viene loro affidato. Non importa se ricco o povero, virtuoso o inetto, peccatore o santo. La distinzione sociale, culturale, morale o spirituale è già indice di un discernimento condizionato da criteri umani. E ciò diventa tanto più evidente quanto più è facile vederli vestire sempre alla moda o con abiti griffati; frequentare ambienti o abitare solo in case sfarzose; fare sfoggio di discorsi culturali, per attirare l’attenzione su di sé; flirtare con politici di destra, sinistra o di centro pensando di offrire così un giusto servizio alla Chiesa; o interagire solo con le più ragguardevoli personalità umane, considerati come le più idonee categorie sociali a competere con la loro intelligenza; cedere a compromessi per realizzare faraonici progetti pastorali; prodigarsi apparentemente per Cristo e per la sua salvezza, ma essere animati da una logica di vita che poco o nulla ha a che vedere con quella evangelica; esercitare il proprio ruolo ecclesiale in vista di un riconoscimento e di un’affermazione sociale.
Lungi dal cedere a queste lusinghe del mondo o dal lasciarsi suggestionare dalla sua mentalità, il pastore, secondo il cuore di Cristo, sa di dover rendere testimonianza di una vita evangelica che, oggi, più che mai, non gode più di larghi consensi sociali e culturali, anzi è relegata ai margini degli interessi comuni. E pur sapendo di rimanere solo, o circondato solo da uno sparuto gruppo di persone, disposte a condividere la sua vita, il pastore sa di dover rimanere fedele al mandato di Cristo, fino in fondo, come Cristo è rimasto fedele a quello del Padre. E di farlo senza ritenere un privilegio divino il suo mandato, ma di esercitarlo spogliando se stesso, assumendo la condizione di servo umile e sofferente; facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce (cf. Fil 2,6-8). Non c’è altro brano neotestamentario che descrivi meglio il profilo del pastore secondo la logica evangelica di Cristo. La comunione che egli è chiamato a realizzare nella Chiesa e nel mondo, lo esige come uomo di relazioni. In questo senso egli non opera in vista della sua salvezza, né si salva da solo, in virtù delle sue qualità spirituali, ma insieme a coloro che Dio stesso gli affida. Come Cristo, egli stabilisce con ciascuno un rapporto personale e la conoscenza che ne scaturisce è la stessa che sussiste tra quella sua e Cristo e tra quella di Cristo e il Padre (cf. Gv10,14-15). Per questa intima e inscindibile unità che sancisce la sua relazione con Cristo, egli vede il suo destino prefigurato in quello di Cristo: pronto a dare la sua vita per gli amici, secondo il comandamento dell’amore (cf. Gv 10,15; 15,13). La sua disponibilità verso gli altri assume una tale radicalità che egli, pur custodendo la sua vita come il dono più prezioso, è pronto a donarla, perfino a quanti tentano violentemente di strappargliela: “Io do la mia vita … nessuno me la toglie, ma la do da me stesso” (cf. Gv 10,17-18). E qual è la vita che Cristo dona se non quella filiale che scaturisce dalla sua risurrezione? (cf. 1Gv 3,1).
Questa particolare attenzione che abbiamo dedicato al pastore non intende limitarsi a descrivere il suo profilo, quanto quello di mettere in evidenza lo scopo della sua missione, che consiste nel prodigarsi, nella Chiesa e nel mondo, a favore dell’amore evangelico, animato dalla convinzione che la risurrezione di Cristo apre nel cuore delle persone una nuova prospettiva di vita, tesa alla salvezza di tutti: di quanti, pur non condividendo la stessa fede in Cristo, rientrano comunque nel suo orizzonte salvifico: “E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore” (Gv 10,16). In vista di ciò egli fa sua la stessa preghiera di Cristo: “Io prego per loro … per quelli che tu mi hai dati, perché siano tuoi” (Gv 17,9); affinché tutti siano una sola cosa” (cf. Gv 17,20). “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa. Come tu Padre sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una sola cosa” (Gv 17,20).
La missione di questo pastore non nasce da un’idea coloniale, teso a cristianizzare o ad ecclesializzare il mondo, ma dal desiderio di condividere con ciascuno l’amore del Padre, vissuto e praticato come condizione della vita filiale che Cristo ha inaugurato con la sua risurrezione, una vita già attuale, sebbene ciò che siamo non è ancora del tutto pienamente compiuto. Convinto “che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (cf. 1Gv 3,2).
[1] “Tu sei Simone figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa, che significa Pietro” (Gv 1,42).
[2] “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa (Mt 16,18).
[3] “Pasci le mie pecorelle” (Gv 21,16).




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