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21/06/2020 - 12a Domenica del Tempo Ordinario - Anno A


Ger 20, 10-13; ; Sal 68; Rm 5, 12-15; Mt 10, 26-33


Come agnelli in mezzo ai lupi

I brani biblici che la liturgia ci propone in questa dodicesima domenica del Tempo Ordinario, fanno luce sulle possibili conseguenze a cui vanno incontro quanti decidono di aderire fino in fondo al piano salvifico di Dio. Si tratta di un piano divino che spesso cozza contro la mentalità del mondo, per questa ragione esso genera conseguenze spesso spiacevole e in non pochi casi perfino violente e conflittuali. Questa è la sorte che spetta in modo particolare ai profeti, come Geremia che, suo malgrado, è chiamato ad emettere un verdetto di condanna sulla classe dirigente di Giuda a causa della sua infedeltà a Dio. Egli avrebbe voluto creare con loro una relazione amabile, annunciando cose gradevoli, come era nel suo carattere, ma la circostanza gli impone tutt’altro. È costretto ad assumere un comportamento duro, contrario al suo carattere pacifico. Per questa ragione egli viene bersagliato, calunniato e perseguitato da parte di coloro che si vedono mettere in discussione la gestione del proprio potere. Perciò essi attendono l’occasione propizia per coglierlo in fallo, per denunciarlo e prendersi la loro vendetta (cf. Ger 20, 10). Emblematiche si rivelano a questo proposito le parole del libro della Sapienza che ci offrono un identikit dei potenti: “Tendiamo insidie al giusto, poiché ci è di imbarazzo ed è contrario alle nostre azioni; ci rimprovera le trasgressioni della legge … E’ diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti, ci è insopportabile solo al vederlo, perché la sua vita è diversa da quella degli altri e del tutto diverse sono le sue strade … Vediamo se le sue parole sono vere; proviamo ciò che gli accadrà alla fine. Se il giusto è figlio di Dio, egli l’assisterà e lo libererà dalle mani dei suoi avversari. Mettiamolo alla prova con insulti e tormenti per conoscere la mitezza del suo carattere e saggiare la sua rassegnazione. Condanniamolo ad una morte infame, perché secondo le sue parole il soccorso gli verrà” (cf. Sap 2, 12-20). Paradossalmente questa prova estrema alla quale essi sottopongono il profeta produce effetti contrari a quelli sperati: il profeta si mostra fedele a Dio che si rivela al suo fianco come un prode valoroso, per questo egli diventa segno di contraddizione, contro il quale i suoi persecutori non riescono a prevalere (cf. Ger 20, 11). Quella che doveva essere un’occasione per prendersi gioco del profeta e manifestare la sua debolezza, si rivela invece una prova di fedeltà e di fiducia estrema in Dio: “a te ho affidato la mia causa” (v.12).

La sorte a cui va incontro il profeta diventa prefigurativa di quella del discepolo di Gesù: egli non è più del maestro (cf. Mt 10, 26) e se hanno perseguitato lui non saranno da meno con loro; tutto questo solo a causa del nome di Gesù e del suo vangelo (cf. Gv 15, 20-21). Il piano salvifico di Dio annunciato dai profeti trova nel Regno di Dio, proclamato da Gesù, una formulazione tutta evangelica. Esso costituisce il principale obiettivo della sua predicazione, tutta incentrata sulla guarigione degli infermi, risurrezione dei morti, sulla cura dei lebbrosi, sulla liberazione dai demoni, sulla gratuità dell’annuncio e la libertà del discepolo nei confronti di tutti i tipi di bisogni (cf. Mt 10, 7-10).

Per meglio comprendere il senso di questa realtà e della sorte destinata a quanti si fanno sostenitori del suo annuncio, vi suggerisco di leggere[1] l’intero capitolo 10 di Matteo, meglio conosciuto come Discorso apostolico, che Gesù rivolge ai suoi prima di inviarli nelle città della casa d’Israele (cf. Mt 10, 6). Si tratta di un discorso preventivo, nel quale Gesù ritiene opportuno preparare i suoi sulle possibili conseguenze a cui andranno incontro durante la loro attività missionaria. Essi devono sapere che l’annuncio del Regno di Dio susciterà una duplice reazione: una piena accoglienza da parte dei piccoli, semplici e poveri; delle vittime del potere politico, dell’ingiustizia sociale e dell’emarginazione culturale e religiosa, al contempo, una violenta repressione da parte di coloro che invece gestiscono le varie forme di potere secondo la logica del mondo. Costoro si mostreranno non solo ostili, ma faranno di tutto per resistere al Vangelo e al diffondersi del Regno di Dio. I discepoli vengono perciò invitati a guardarsi bene dalle persone alle quali si rivolgeranno: con alcuni potranno essere “semplici come colombe”, entrare e permanere nelle loro case, condividendone la vita quotidiana durante il tempo dell’annuncio, ma con altri dovranno essere “astuti come serpenti”, imparare a capire quando si creano le condizioni per desistere, per “fuggire dalle loro città” e “scuotere perfino la polvere dai sandali”. Costoro tuttavia – ed ecco il paradosso dell’insegnamento di Gesù – non dovranno essere evitati ed esclusi dal loro annuncio, al contrario i discepoli dovranno andare verso di loro “come pecore in mezzo ai lupi” (Mt 10, 16), senza temerli, nella piena fiducia che Dio sarà loro difensore nelle cause e persecuzioni in cui saranno coinvolti.

Eccoci dunque al nostro brano evangelico che fa ulteriore luce sull’identità di questi persecutori. Gesù li distingue: ve ne sono alcuni che hanno il potere di uccidere il corpo, ma non l’anima; ve ne sono altri invece che hanno il potere di uccidere sia il corpo, sia l’anima. È da costoro che il discepolo è invitato a guardarsi in modo particolare (v. 28). Essi infatti oltre a procurare tormenti con i quali creano stati di fragilità fisica, psicologica e spirituale, tali da far crollare anche il discepolo più attento, sono in grado di insinuare anche dubbi nell’anima, da mettere in discussione la presenza e l’opera del Padre in essi. E’ proprio in queste situazioni che il discepolo è chiamato a perseverare fino alla fine (cf. v. 22) e a confidare nel Padre, anche quando tutte le circostanze e le apparenze sembrano dire il contrario. Essi non dovranno dubitare, poiché la salvezza scaturisce non tanto dalla resistenza e dalla tenacia nella prova, quanto dalla perseveranza, ovvero dalla capacità di farsi carico della responsabilità che la fede comporta e dalla piena fiducia nel Padre. È qui il segreto della vittoria del discepolo, come attesta Gesù durante le sue tentazioni (cf. Mt 4, 1-11).

In queste circostanze estreme i discepoli potranno imparare a confidare nel Padre, osservando la modalità con cui lui si prende cura anche delle creature più piccole e insignificanti, come può essere un passero. Se egli provvede alla loro vita col cibo quotidiano, quanto più provvederà alla difesa di un suo figlio nei momenti di bisogno (cf. v. 29). Egli è così attento da conoscere perfino i numero dei capelli del loro capo, perciò nessun timore: i figli valgono molto più dei passeri (cf. v. 30-31). Ecco la certezza incrollabile che deve albergare nell’animo del discepolo di Cristo. La fiducia che Gesù chiede ai suoi è la stessa che lui ha nel Padre. Le persecuzioni costituiscono senza dubbio una dura prova di fede, ma paradossalmente creano anche le condizioni per un’autentica testimonianza d’amore evangelico. Si tratta di una testimonianza decisiva. Da essa dipenderà la credibilità del messaggio evangelico. Essa è la testimonianza a cui è chiamato il discepolo di ogni epoca.

Questo discorso, letto con attenzione, ci permette di entrare nell’animo di Gesù e in quello dei suoi discepoli. Questi sanno che è giunto per loro un momento decisivo. Fino ad ora hanno imparato a stare con Gesù e a condividere la sua relazione d’amore col Padre. Lo hanno accompagnato nella sua predicazione e assistito alla sua opera, ora devono dar prova di questa vita nella loro prima esperienza missionaria. L’evangelista Marco sintetizza questo momento con una formula assai significativa: “Li chiamò perché stessero con lui e anche per mandarli a predicare” (Mc 3, 14). Essa traccia il passaggio da discepoli ad apostoli. Un passaggio non privo di tensione, a cui sono chiamati tutti i discepoli, di allora come di oggi, che hanno deciso di condividere la causa del Vangelo di Gesù. Esso diventa perciò l’occasione per lasciarci interpellare sul livello e sulla qualità della nostra fede e chiederci se anche noi siamo pronti ad essere testimoni credibili del Vangelo, ad annunciarlo e darne ragione nel contesto sociale e culturale contemporaneo. Considerando l’ambiente nel quale viviamo, evidentemente questo annuncio non ci espone al rischio della vita, come tanti cristiani in contesti sociali davvero difficili, ma di certo la forma di persecuzione che si profila per noi è molto più subdola e serpentina, come di quella che ha il “potere di uccidere l’anima”, come evidenzia il clima di torpore spirituale, di lassismo morale, dell’indifferentismo religioso, dell’individualismo relazionale che caratterizza la vita ecclesiale di tanti di noi cristiani. Quante volte, infatti, dinanzi all’istanza ecclesiale della nuova evangelizzazione che chiede di rinnovarci nell’ardore spirituale, nelle forma espressiva e nei linguaggi comunicativi preferiamo accomodare la fede alla logica della vita del mondo, privandola di tutta la sua forza carismatica e trasfigurativa, pur di evitare quegli attriti e conflitti che ogni autentico annuncio evangelico comporta. Si rivelano così decisive e provocatorie le parole di Gesù che fanno seguito al nostro brano: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono infatti venuto a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Mt 10, 34-36). Esse ci fanno prender atto che la parola di Gesù è anche causa di dissenso, per quanti sono abituati a vivere la loro fede secondo la logica irenica del perbenismo borghese.

[1] È opportuno leggere sempre i brani che di volta in volta vi propongo, perché possiate acquisire un metodo nella lettura della Parola, essi infatti vi permettono di allargare l’orizzonte di senso, aprire la vostra mente e sviluppare l’intelligenza delle Scritture, di cui ogni cristiano necessita non solo per crescere nella conoscenza di Dio, ma per acquisire la sapienza con la quale discernere la sua volontà e rendere ragione della fede, è soprattutto per sviluppare la spiritualità che vi consente di calare nel vissuto il Vangelo e così trasfigurare la vita personale e la realtà nella quale ciascuno vive.

 
 
 

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