2 Giugno 2024 - Anno B - Corpus Domini
- don luigi
- 1 giu 2024
- Tempo di lettura: 9 min
Es 24,3-8; Sal 115/116; Eb9,11-15; Mc 14,12-16.22-26
L’Eucaristia: uno stile di vita ecclesiale

“Mentre mangiavano prese il pane e pronunciata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: Prendete, questo è il mio corpo. Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti” (Mc 14,22-24).
Quelle appena citate sono, come noto, le parole con cui Gesù istituisce l’Eucaristia durante l’Ultima Cena. La Chiesa ce le ripropone per approfondire il senso dell’attuale solennità del Corpus Domini, con la quale intende portare al centro dell’attenzione il senso del sacrificio salvifico di Cristo, inteso come manifestazione di un’esistenza vissuta a favore del prossimo, quale espressione di un amore che nasce e si radica profondamente in quello di Dio per il suo popolo, come attesta la tradizione mosaica descritta nella prima lettura (cf. Es 24; Mc 12,28-34).
L’Eucaristia è il centro della vita ecclesiale ed è, senza dubbio, il mistero più celebrato, ma a giudicare dall’attuale prassi ecclesiale, sembra essere anche quello meno compreso. In questo senso la celebrazione del Corpus Dominicostituisce per noi un pretesto, non tanto per conoscere le radici di questa solennità liturgica[1], quanto piuttosto per capire le ragioni dell’amore evangelico di cui essa è impregnata, e scoprire le condizioni con cui tradurre tale amore in uno stile di vita spirituale, personale, ecclesiale e sociale. Specie in un contesto culturale come il nostro, caratterizzato com’è da un’evidente emorragia liturgica, dinanzi alla quale siamo più che mai chiamati a giustificare le ragioni della nostra fede nell’Eucaristia.
Anche la sua collocazione, dopo la festa della Pentecoste, contribuisce a rendere più chiare e concrete le promesse di Gesù fatte durante il Discorso di Addio, quelle cioè di inviare lo Spirito Santo (cf. Gv 14,16) e di essere sempre presente in mezzo a noi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo (cf. Mt 28,20). Spirito Santo ed Eucaristia costituiscono allora non solo la nuova forma con cui Gesù continua a vivere nella Chiesa, ma anche i presupposti della nostra “vita nuova in Cristo”.
Nel tentativo così di favorire una rinnovata comprensione di questa solennità liturgica, proveremo a sviluppare la nostra riflessione a partire dal significato delle parole pronunciate da Gesù in questa occasione, lasciando alle note gli aspetti più impegnativi.
Siamo soliti definire la celebrazione eucaristica in termini di “sacrificio” [2], inteso come rito che esalta la sofferenza come condizione per propiziarsi la benevolenza di Dio. In realtà nella visione cristiana l’Eucaristia più che come sacrificio va intesa come espressione di un atto d’amore oblativo, libero e gratuito, con cui Cristo si dona a noi, di cui la sofferenza diventa l’espressione della fedeltà a Dio e all’uomo vissuta fino in fondo. Pertanto, accingersi a celebrare, oggi, la festa del Corpus Domini, significa condividere la logica d’amore che anima la vita di Cristo e partecipare della sua missione salvifica a favore dell’uomo. Tutta la vita di Gesù è null’altro che un’esistenza a favore del prossimo. Egli ha vissuto fino in fondo le sue parole: “non c’è amore più grande di chi dà la vita per i propri amici” (cf. Gv 13,13). In questo senso le sue parole: “prendete e mangiate”, “prendete e bevete”, pronunciate sul pane e sul vino, esplicitano in modo emblematico ciò che lui avrebbe compiuto da lì a poco, durante la passione e morte. Come il pane anche la sua vita è spezzata e donata, come il vino anche la sua esistenza è pigiata e versata. Mangiare il corpo e bere il sangue significa perciò accettare di condividere fino in fondo la sorte di Cristo. È alla luce di questo atto d’amore che il discepolo si predispone a fare della propria vita un dono per l’altro.
Anche con le parole “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19) che solo Luca aggiunge al racconto eucaristico, Gesù non intende invitare i discepoli a ripetere nel tempo il suo gesto cultuale, né che si faccia ricordo di esso come di un atto avvenuto in un passato remoto, ma che si riviva tutt’intero il significato salvifico che egli ha impresso all’eucaristica, in modo tale da riprodurne nell’oggi tutta la forza e l’efficacia[3]. In altri termini è come se egli avesse chiesto loro: tenete conto del mio donarmi quando a vostra volta sarete chiamati a donarvi per l’altro, affinché troviate in questo mio gesto la ragione, la forza e il coraggio per compiere il vostro atto d’amore. Chi vive la propria “passione” per amore dell’altro, come Gesù, non fa che dilatare nel tempo il suo sacrificio eucaristico. Offrendo noi stessi lasciamo operare Cristo in noi attraverso il suo Spirito e così diventiamo cooperatori della sua salvezza. In noi è Cristo stesso che si dona all’uomo.
Quello di Cristo perciò non è da intendersi come sacrificio compiuto a Dio, poiché Cristo in quanto Dio, non necessitava di sacrificare niente a nessuno, quanto come espressione del suo amore oblativo per l’umanità. Egli pur senza peccato si presta a vivere su di sé tutte le conseguenze del peccato. La logica che anima il suo atto d’amore non è la disposizione umana a vivere la sofferenza come virtù eroica, ma la disponibilità totale a fare della sua vita un dono d’amore. Non è la sofferenza in sé che redime, ma l’amore offerto come dono. Il sacrificio è solo un segno che attesta la disponibilità a rinunciare a ciò che si ha di più caro: la vita. È la partecipazione all’amore libero e gratuito di Dio che trasfigura e redime le persone. Solo l’amore salva. È per questo amore immenso e traboccante che nutre per ogni uomo, che Dio è stato disposto a donare perfino suo Figlio. Fuori di questo amore il sacrificio rischia di divenire solo motivo di sofferenza. Vissuto come espressione dell’amore gratuito il sacrificio diventa luogo di trasformazione spirituale, morale e intellettiva, suscitando la consegna libera di sé all’altro. Chi si lascia trasfigurare dall’amore di Dio diventa a sua volta espressione dell’amore divino per gli altri. Un amore simile nasce dalla gioia di sentirsi amato da Dio e genera gioia di amare lui nel prossimo. È alla luce di questo dono che si giunge non solo a fare dono di un qualcosa di sé, ma addirittura a fare dono della propria vita per l’altro. Inserito in questo vortice d’amore del Padre, Cristo vive la sua passione e morte come atto di consegna libero e volontario, testimoniando così che la sua vita non è tolta, ma consegnata e donata (cf. Gv 10,18). L’eucaristia diventa così cifra di uno stile di vita, espressione di una mentalità tesa a trasfigurare la vita per mezzo dell’amore. Essa diventa un perenne rendimento di grazie, che induce a vivere la vita come eterna gratitudine. Vivere eucaristicamente significa perciò stare costantemente nella gioia, come in una sorta di basso continuo, anche quando siamo attraversati dalle sofferenze più sorde.
Ecco allora il senso più autentico e vero della celebrazione del Corpus Domini: vivere la propria esistenza come dono per gli altri e l’amore con loro come luogo di comunione con Dio. Ricompresa in questi termini la festa del Corpus Domini assume un valore fondamentale per la nostra vita spirituale, attraverso la quale l’amore evangelico diventa lo stile di vita ecclesiale e sociale. Assimilare questa logica significa consegnarsi all’altro fino a dare la vita. L’eucaristia pertanto è, prima di ogni cosa uno stile d’amore, uno stile di vita relazionale. Partecipare all’eucaristia significa allora decidere di fare propria la stessa passione d’amore di Cristo, il suo stesso fine: consegnarsi all’altro fino a dare la vita. E come l’eucaristia nutre la vita spirituale dell’uomo, così egli a sua volta, morendo, diventa nutrimento per la terra, per la salvezza del mondo e del creato (cf. C. Lubich).
Quello evangelico non è uno stile di vita facile da perseguire, specie, oggi, dove appare sempre più evidente che l’amore oblativo di Dio viene sostituito dall’amore possessivo dell’io. Recuperare questa forma d’amore eucaristico significa mettere mano a una vera e propria opera di conversione, che trova nella testimonianza di Cristo il suo incipit. Per questo motivo la conversione richiede quell’eccedenza d’amore che è alla base della missione stessa di Gesù e di ogni suo discepolo. Fuori di questa eccedenza d’amore non è possibile disporsi ad amare questa umanità. Solo chi si lascia impregnare dalla logica eucaristica, crea e genera una mentalità ecclesiale, ovvero traduce e manifesta, nella complessità delle relazioni interpersonali, quell’amore che esprime la vita trinitaria di Dio. La celebrazione liturgica del Corpus Domini, pertanto, mira ad una visione pasquale della vita personale ed ecclesiale. Chi vi partecipa decide di voler fare propria la logica trinitaria della vita di Cristo e il suo anelito ad estenderla al mondo intero (cf. Lc 12,49-50). Per amare secondo lo stile evangelico, oggi, non basta più quella semplice ‘imitazione di Cristo’, che ha caratterizzato la nostra tradizione spirituale ed ecclesiale, occorre una scelta matura, libera e consapevole che solo un innamorato di Cristo e della sua causa evangelica può compiere. Auguro a ciascuno di giungere a questa maturità spirituale per scoprire il segreto del perenne innamoramento di Cristo che spinge tante persone a farsi dono per gli altri.
[1] La solennità fu istituita per la prima volta in Belgio nel 1247, a seguito delle visioni mistiche di una suora di Liegi, la beata Giuliana di Retìne, che durante un’estasi ebbe la visione di Cristo, il quale le chiese di adoperarsi perché venisse istituita una festa in onore del SS. Sacramento, ancora del tutto assente nella Chiesa fino ad allora. Alcuni anni dopo la morte della suora, papa Urbano IV che aveva già contribuito all’istituzione della prima festa del Corpus Domini in Belgio, a seguito anche del miracolo eucaristico di Bolsena, nel 1264, decise di estendere la solennità a tutta la Chiesa, fissandola al giovedì dopo l’ottava della Pentecoste. Ma lo scopo della festa trova la sua ragione nel celebrare la presenza reale di Cristo nell’Eucaristia, in risposta alla tesi di Berengario di Tours che negava la presenza reale di Cristo, ritenendola solo simbolica (Cf. Paolo VI, angelus dell’8 agosto del 1976 (su vatican.va). In questa scia si pone anche il tentativo di far fronte ai Patarini che in quel tempo negavano il Sacramento dell’Eucaristia. Il movimento dei patarini nacque in seno alla Chiesa milanese medioevale, intorno alla metà dell’XI secolo. In origine sorsero come lotta contro la simonia, il matrimonio dei preti in generale contro tutte le forme di ricchezze e corruzioni morali delle alte cariche ecclesiastiche, in particolare degli arcivescovi di Milano. Verso la fine dell’XI secolo, però, a seguito della ricomposizione dello scisma e delle tensioni tra Roma e Milano, il movimento perse tutto il suo vigore e unità e finì per diventare un movimento ereticale critico nei confronti della gerarchia ecclesiastica in generale (cf. FC, 3/4/2021).
[2] La dimensione sacrificale dell’Eucaristia, per quanto manifesti degli evidenti legami con la tradizione mosaica, come attestano le parole di Gesù: “Questo è il mio sangue, … versato per molti”, presenta delle differenze, caratterizzata com’è dalla libera e volontaria decisione di donarsi alla morte, come atto di estrema solidarietà alla condizione umana. Il sangue, secondo le religioni semitiche, tra le quali anche quella mosaica, era simbolo di vita e come tale essa appartiene solo a Dio (cf. Lv 17, 11-14). Perciò uccidere un uomo, ovvero versare il suo sangue, era severamente proibito (cf. Gen 9,6). Ancora meno era possibile bere il sangue di un animale, poiché significava disporre del potere della loro vita. Nelle religioni pagane questo atto veniva esercitato come forma di magia, tesa ad esprimere il dominio sulla vita altrui. Nella religione ebraica Mosè pur riconoscendo al sangue il significato della vita, ritiene che esso non possa essere bevuto, poiché la vita appartiene solo a Dio e come tale solo lui ha potere su di essa (cf. Dt 12,23). In quanto simbolo di vita il sangue veniva offerto sull’altare, come a volere dire che la vita è un dono che viene da Dio e a Dio ritorna in forma di offerta. Questa operazione costituiva anche una forma di espiazione dei peccati. Nei giovenchi sottoposti al sacrificio il sacerdote faceva confluire tutti i peccati del popolo, che venivano consegnati a Dio attraverso l’olocausto. In questo modo i peccati venivano ritenuti perdonati. Col rito dell’aspersione del sangue sacrificato il sacerdote comunicava al popolo la rinnovata riconciliazione divina. Il sangue, infatti, in quanto simbolo della vita, costituiva l’elemento principale attraverso cui la vita divina fluiva di nuovo nel corpo delle creature. Esso diventa così segno dell’alleanza ricostituita tra il Signore e il suo popolo (cf. Es 24,8). Il sangue diventa così per gli Israeliti simbolo di alleanza, mediante la quale il popolo ha modo di creare con Dio una comunione di vita inscindibile, una sorta di vincolo quasi parentale, sebbene non era di natura biologica. Questa alleanza tuttavia presupponeva l’adesione del popolo alla parola di Dio, come emerge dall’Alleanza sinaitica (cf. Es 19-24). Essa prevedeva dunque tre elementi: la parola di Dio, l’adesione del popolo, l’aspersione del sangue, come forma del rito sacrificale. Essa è alla base del legame di fraternità dei “figli d’Israele”, i quali diventano membri della famiglia di Jhwh. Con Geremia 31,31-34, Dio promette un’alleanza nuova. La parola di Dio viene scritta direttamente da lui nel cuore delle persone. Si tratta perciò di una comunione intima che prevede la possibilità di un rapporto immediato e personale con Dio. Con Gesù l’alleanza sinaitica assume una nuova valenza: essa non viene creata più sulla base dell’offerta sacrificale di un agnello, ma di se stesso. Gesù offre la sua vita come vincolo nuovo e definitivo. Il sangue che egli asperge sull’altare della croce non è quello degli animali, ma il suo, determinando in questo modo la nuova alleanza, come attestano le parole: “Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza, versato per molti”. Con la donazione che Gesù fa di se stesso i rende capaci di vivere e morire come ha vissuto e morto lui (Cf. A. Bonora, Alleanza, in P. Rossano – G. Ravasi – A. Girlanda (edd.), Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1988, 23-32). È su questa comprensione veterotestamentaria che si innesta la riflessione teologica dell’autore della lettera agli Ebrei (cf. Eb 9,11-15), secondo il quale il sangue di Cristo, ancora più di quello dell’animale, non solo perdona i peccati, ma estingue perfino l’influsso del potere del maligno sull’uomo. Se Mosè attribuisce al sangue di un animale sacrificato un simile valore riconciliativo, ancor più quello di Cristo ne realizza la redenzione.
[3] Cf. S. Cipriani, Eucaristia, in Dizionario di Teologia Biblica, cit., 526.




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