19 Maggio 2024 - Anno B - Pentecoste
- don luigi
- 18 mag 2024
- Tempo di lettura: 9 min
At 2,1-11; Sal 103/104; Gal 5,16-25; Gv 15,26-27; 16,12-15
Pentecoste o Babilonia:
quale logica di vita per l’oggi della Chiesa?

“Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre … egli vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà dal quel che è mio e ve lo annuncerà” (Gv 15,26; 16,13-14).
“Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi” (At 2,1-4).
Questi due brani biblici costituiscono l’annuncio e il compimento della promessa che Gesù fa dello Spirito, riconosciuto come l’evento inaugurale della Chiesa. Pertanto se l’Ascensione conclude il ciclo della missione terrena di Gesù, la Pentecoste apre quello della vita ecclesiale nel mondo, che Paolo qualifica in termini di “vita nuova in Cristo” (Rm 6,4), o “vita secondo lo Spirito” (cf. Gal 5,16.25). Riletta in questa ottica la Pentecoste costituisce per la Chiesa, esattamente ciò che l’Annunciazione è stata per Maria. Due eventi che vedono protagonista lo stesso Spirito. In entrambi i casi egli “colma” della sua presenza il seno di Maria (cf. Lc 1,28), e il Cenacolo degli Apostoli (cf. At 2,2), autentico grembo della Chiesa. Se attraverso Maria lo Spirito dà forma al corpo fisico di Cristo; attraverso la Chiesa egli dà forma al suo Corpo Mistico (cf. Gal 3,26-28). Nell’uno e nell’altro caso ci troviamo dinanzi a due forme di fecondità che esaltano l’azione misteriosa dello Spirito: quella fisica e quella spirituale. La vita di fede necessita dell’una come dell’altra. Entrambe contribuiscono alla crescita “in età sapienza e grazia” (Lc 2,52) dell’unico corpo di Cristo (cf. Rm 12,4-5) che è la Chiesa.
La festa della Pentecoste[1] si presenta, così, particolarmente ricca di spunti riflessivi che contribuiscono ad esplicitare la logica della vita spirituale che siamo chiamati a vivere non solo a livello personale, ma anche a livello ecclesiale e sociale. Una logica che presuppone una chiara adesione alla vita dello Spirito e ai modi con cui egli manifesta la sua azione in noi e nella storia. Adesione che è alla base di ogni autentica conversione evangelica. Si tratta perciò di fare una scelta: tra la logica di vita secondo lo Spirito e quella secondo il mondo. Nel tentativo di favorire questa scelta ci rifacciamo al Discorso di addio dove, stando alla testimonianza giovannea, troviamo la promessa dello Spirito che Gesù fa ai suoi discepoli[2]. In questo Discorso Gesù parla dello Spirito in termini di “Consolatore” o di “Paraclito”, il cui significato, sia pure con qualche leggera sfumatura, è sostanzialmente lo stesso. Si tratta di una terminologia proveniente dal mondo giuridico. Paraclito, infatti, deriva dal verbo “paracaleo”, che letteralmente significa “chiamare vicino”. Lo Spirito viene invocato per svolgere la funzione di “difensore” o “soccorritore”, durante un processo, e quindi di “avvocato”, la cui funzione è quella di stare dalla parte dell’accusato. Per estensione egli diventa il “consolatore”. Gesù parla dello Spirito come di un “altro Consolatore” (Gv 14,16), per distinguerlo dal primo, che è lui stesso, come attesta lo stesso Giovanni nella sua prima lettera (cf. 1Gv 2,1). Tale Spirito viene conferito per consolare i discepoli afflitti, nelle diverse situazioni che essi si ritroveranno ad affrontare, specie quelle più drammatiche e dolorose, come quella determinata dalla dipartita di Gesù. Questi, infatti, consapevole della loro tristezza, si procura di consolarli, promettendo loro di “non lasciarli orfani” (cf. Gv 14,18).
Lo Spirito viene dato, perciò, in primo luogo ai discepoli, poiché sono coloro che più di tutti hanno condiviso la vita di Gesù e la sua relazione di comunione col Padre, per questa ragione essi, più degli altri, sono in grado di riconoscerlo e accoglierlo. Gli altri, “il mondo”, non possono riceverlo, per il semplice fatto che non sono ancora educati ad esercitare il discernimento, ovvero a riconoscere i segni con cui lo Spirito si manifesta, sebbene ci siano casi in cui egli si doni, inaspettatamente, anche ad alcuni pagani, come attesta la sua discesa sul centurione romano Cornelio e su quanti erano presenti nella sua casa ad ascoltare il Discorso di Pietro, al termine del quale sembra che avvenga lo stesso evento prodigioso della Pentecoste: “I fedeli giudei venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso lo Spirito Santo; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorificare Dio” (At 10,45-46). Si deduce, dunque, la necessaria partecipazione alla vita di comunione di Cristo, come condizione fondamentale di questo dono, senza la quale l’azione dello Spirito rischia di essere vanificata (cf. Gv 14,16-20)[3].
La Spirito tuttavia non si limita solo a “difendere” e a “consolare”, ma continua a svolgere lo stesso “insegnamento” di Gesù: educandoli a fare “memoria” e a “comprendere” tutto ciò che Gesù aveva insegnato loro (cf. Gv 14,25-26). Perciò egli non parlerà da sé, né insegnerà altre cose da quelle udite da lui, ma “prenderà da quel che è mio” (Gv 16,14) e “vi guiderà a tutta la verità” (Gv 16,13). La verità di cui parla Gesù è la vita di comunione che lui intesse col Padre nello Spirito. Si tratta evidentemente di una verità alquanto diversa, rispetto a quella comunemente intesa dalla nostra mentalità culturale, dove sembra assumere una connotazione esclusivamente astratta e concettuale, ragion per cui la sua conoscenza necessita solo di uno sforzo razionale. Quella di Cristo è invece la rivelazione di un vissuto d’amore che vede coinvolto lui, il Padre e lo Spirito. È a questa vita divina che Gesù si riferisce quando dice che lo Spirito li guiderà a “tutta la verità”. La conoscenza di questa verità e soprattutto la partecipazione alla dinamica relazionale del suo amore, costituisce per Gesù la condizione per essere liberi, secondo quanto lui stesso afferma: “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi” (Gv 8,32). Questa partecipazione, tuttavia, avverrà solo dopo che lui se ne sarà andato. Pertanto “È bene per voi che io mene vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi” (Gv 16,7). Lo Spirito opera con la stessa metodologia manifestativa di Cristo: egli si rivela nascondendosi, esattamente come Gesù ha manifestato il Padre mettendosi da parte, senza attirare l’attenzione su di sé. Finché essi, i discepoli, non avranno acquisito questa metodologia rivelativa non potranno dare testimonianza della verità di Cristo. “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete ancora capaci di portarne il peso” (Gv 16,12). Sarà perciò compito dello Spirito creare in loro le condizioni affinché essi potranno comprendere una simile verità e assumersi le responsabilità che la sua testimonianza comporta. Per questo motivo l’opera dello Spirito sarà in perfetta sintonia e continuità con quella di Cristo. Egli non dirà altro rispetto a quello già detto da Cristo, ma opererà in unità con lui, nella stessa comunione d’amore e in vista della rivelazione dello stesso piano salvifico di Dio.
Sembra allora che lo Spirito costituisca il vero esegeta della verità divina, senza il quale nessuna comprensione intellettiva e responsabilità morale è possibile. È in virtù della sua opera che gli apostoli saranno in grado di rendere testimonianza a Cristo e della sua missione salvifica. Si tratta di un processo cognitivo che coinvolgerà non solo l’intelligenza degli apostoli, ma anche quella di coloro che ascolteranno la loro parola, come attesta il brano degli Atti degli Apostoli, dove Pietro, facendosi interprete, dell’evento dello Spirito, annuncia a tutti i popoli convenuti a Gerusalemme per la festa della Pentecoste ebraica, che “Gesù di Nazaret , uomo accreditato da Dio … per mezzo di miracoli, prodigi e segni … è stato risuscitato da lui … e costituito Signore e Cristo” (cf. At 2,22.24.36). Col suo discorso Pietro dà prova della sua rinnovata intelligenza[4], in grado di comprendere la verità di Cristo e della sua missione salvifica nel mondo. Il miracolo di cui lui è testimone a Pentecoste, perciò, non è tanto quello che traspare della capacità che egli, insieme agli apostoli, manifestano di saper parlare istantaneamente diverse lingue – qualità che, per altro, essi dimostreranno di non possedere più in seguito – ma di esprimersi in modo tale da essere da tutti compresi. Prodigio questo che accade tutte le volte che si entra in sintonia con lo Spirito di Cristo il quale, indipendentemente dalla lingua parlata, è in grado di far comprendere il senso della sua missione salvifica.
La Pentecoste inaugura così un nuovo stile di vita relazionale, tutto incentrato sulla logica rivelativa divina: lo Spirito compie l’opera di Cristo, come Cristo quella del Padre. Lo Spirito opera in vista della rivelazione di Cristo, come Cristo in vista della manifestazione del Padre. Nessuno dei due opera per se stesso, ma ciascuno in vista dell’Altro e entrambi in vista del Padre. Una logica del tutto diversa rispetto a quella promossa dalla cultura contemporanea, dove ognuno opera per ostentare se stesso ed esercita le proprie qualità non per il bene dell’altro, ma come forma di dominio e di giudizio nei confronti degli altri. I segni che rendono visibile la circolazione di questa nuova vita d’amore sono: “gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5, 22). Diversamente quando nelle relazioni interpersonali sussistono “fornicazioni, impurità, dissolutezza, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere” (Gal 5, 19-21) è segno che la vita relazionale è ancora condizionata dalla logica del mondo.
La Pentecoste diventa così l’espressione della vita ecclesiale che è essenzialmente vita nello Spirito. Non si tratta di un’altra vita, ma della stessa vita quotidiana trasfigurata dallo Spirito di Cristo, il quale impregna le relazioni umane dello stesso amore che circola nella vita trinitaria. Non più una vita individuale, dunque, vissuta all’insegna dell’egoismo, dell’egocentrismo, del possesso e del dominio dell’altro, ma una vita di comunione, realizzata sul modello di quella trinitaria. La vita ecclesiale è perciò la vita nuova in Cristo (cf. Rm 6,4). Quel Cristo che fino ad allora aveva vissuto fisicamente con gli apostoli, ora vive spiritualmente tra gli apostoli, per mezzo del comandamento dell’amore reciproco (cf. Mt 18,20). Cristo in loro e loro in Cristo: ecco lo specifico della vita ecclesiale e spirituale alla quale ci apre la Pentecoste.
[1] La Pentecoste, come la Pasqua, è una festa che i cristiani ereditano direttamente dalla tradizione religiosa ebraica, celebrata al termine di un periodo di sette settimane (cinquanta giorni), a conclusione di tutte le festività pasquali. Con essa, inizialmente, gli ebrei celebravano la festa del raccolto e dei doni della terra e successivamente quella del dono della Legge, fatta a Mosè sul monte Sinai. Per i cristiani invece la Pentecoste diventa la festa dei doni dello Spirito. Ancora più dei frutti della terra e della Legge è lo Spirito che dà vita, sostiene, trasforma e rinnova dall’interno la vita orientandola verso il Padre. La vita nello Spirito non è più imposta dall’esterno, come nel caso della legge mosaica, ma dall’interno, dalla libertà dell’amore.
[2] Diverse sono le citazioni in cui Gesù fa riferimento alla promessa dello Spirito e al suo compimento, durante questo discorso. Vi segnalo quelle principali, sulle quali anche voi potrete soffermarvi a meditare: Gv 14,16-20.25-26; 15,26; 16,7-15. Per completezza vi riferisco anche quelle segnalate dai Sinottici: Luca fa riferimento a questa promessa e alla sua realizzazione in diversi brani del suo Vangelo: 11,13; 12,12; 24,49, e poi anche negli Atti degli Apostoli: 1,4-5.8; 2,1-4; 2,38; 4,31; 5,32. Matteo ne parla all’inizio e alla fine del suo Vangelo 3,11; 28,19-20; Marco, invece, la lascia intendere al momento del mandato battesimale di Cristo (cf. Mc 16,15-18).
[3] Basterebbe questo breve riferimento biblico, per capire quanto siamo lontani dalla dinamica comunionale di Cristo e quanto sono distanti dalla sua pedagogia educativa i nostri percorsi formativi, o meglio ‘in-formativi’, del sacramento della Confermazione.
[4] Il senso di questa rinnovata intelligenza sembra trasparire anche dall’espressione con cui Luca introduce l’evento della Pentecoste: “Mentre stava per compiersi il giorno di Pentecoste” (At 2, 1). Gesù con la sua rivelazione porta a compimento il significato delle feste ebraiche: la Pasqua e la Pentecoste. Il “compimento” di cui si parla non va inteso solo in senso cronologico, del tempo che volge al termine, ma anche in senso escatologico, di un significato che giunge alla sua piena maturazione e perciò alla sua piena comprensione. In Gesù tutto il cammino di liberazione dall’Egitto cominciato dal popolo ebraico trova il suo compimento nella liberazione dell’uomo dal peccato, un senso nuovo questo che porta a compimento anche la promessa fatta ad Abramo, quella cioè di essere benedizione per tutti i popoli. Con Gesù comincia la vita di Dio tra gli uomini, quella secondo lo Spirito. Gesù, inviando lo Spirito, consente all’intelligenza dei suoi discepoli di cogliere appieno il significato del piano salvifico del Padre, dispiegato nelle Scritture e, al contempo, di renderlo partecipe anche a tutti i popoli.




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